Dove si parla dei Dieci Giorni Penitenziali come istituzione a sé nel Tanakh? In questi Shabbatot stiamo leggendo Haftarot tratte dall’ultima parte di Yesha’yahu che tratta il tema della consolazione dopo la Distruzione. Mi riferisco qui invece ai primi capitoli dello stesso Profeta. Il sesto capitolo è considerato il testo della sua iniziazione: capita sovente in una raccolta biografica che il testo più antico non sia presentato per primo ma venga introdotto gradatamente. Succede qui.
Il Cap. 6 di Yesha’yahu è stato a sua volta scelto come Haftarah della Parashat Yitrò che contiene i Dieci Comandamenti. Gli ultimi versetti di questo capitolo riportano una profezia catastrofica. Il popolo d’Israele si comporterà male e resterà come impermeabile agli avvertimenti del Profeta, “finché non siano deserte le città, perché nessuno vi abiterà le case, perché non vi sarà alcuno, e il paese resterà deserto e desolato, e H. allontanerà gli uomini, e grande sarà l’abbandono nel paese. E quando sarà rimasto un decimo della popolazione (we-‘od bah ‘assiriyah), tornerà (we-shavah) ad esservi distruzione; ma avverrà quel che avviene della quercia e del terebinto nei quali un tronco rimane dopo la caduta delle foglie in autunno; il tronco duraturo sarà una progenie santa” (vv. 11-13).
Nella traduzione abbiamo seguito il commento di Rashì per quanto riguarda la parola ‘assiriyah. Lo Zohar interpreta l’espressione in altro modo: il decimo va letto invece come una decina. La distruzione, secondo questa lettura, non è del popolo ebraico, ma dei suoi peccati. Lo dimostrerebbe il verbo we-shavah (“e tornerà”), dalla stessa radice di Teshuvah. Il S.B. – sostiene lo Zohar – si renderà conto che allontanare il popolo d’Israel definitivamente a causa dei suoi peccati non serve: provoca solo abbandono. Occorre istituire per essi un meccanismo diverso, in modo che “torni e distrugga (i suoi peccati)”. A questo serve la “decina”, ovvero i Giorni Penitenziali. Servono a potare l’albero in modo che cresca più forte. Non a caso la caduta delle foglie è proprio un fenomeno della stagione che ci riguarda: l’autunno. Ecco che una Profezia di distruzione si trasforma a sua volta in una Profezia di consolazione o più esattamente di correzione. In ogni caso prospettiva di speranza.
Anche il primo capitolo di Yesha’yahu contiene un accenno ai Dieci Giorni Penitenziali. Esso costituisce la Haftarat Chazon, che abbiamo letto lo Shabbat prima di Tish’ah be-Av (Devarim). Anche qui in chiusa si parla di Teshuvah: “coloro che tornano in essa (Yerushalaim) mediante la Tzedaqah” (v. 27). Ma a interessarci sono i versetti centrali: “Su, venite a Me e discutiamo, dice H., anche se i vostri peccati sono come stoffa tinta di scarlatto, diventeranno bianchi come la neve, anche se sono rossi come porpora, saranno (bianchi) come la lana” (v. 18). Il riferimento è a quanto avveniva nel Bet ha-Miqdash il giorno di Kippur nel racconto della Mishnah Yomà. Una fettuccia rossa diventava miracolosamente bianca sul finir della giornata per annunciare l’avvenuta kapparah (assoluzione) del popolo ebraico. Ma se H. ci invita a discutere di tutto questo, significa che abbiamo un accesso. Quale? Attraverso le azioni di purificazione che sono elencate nei due versetti precedenti. Contiamole! Sono in tutto… nove. Come i giorni che precedono Yom Kippur (10 Tishrì): 1) Lavatevi, 2) purificatevi, 3) allontanate davanti a Me le vostre cattive azioni, 4) cessate di operare il male, 5) abituatevi a operare il bene, 6) cercate la giustizia, 7) rinforzate l’oppresso, 8) sostenete il diritto dell’orfano, 9) fate vostre le ragioni della vedova. Un programma di vita. Secondo un’altra interpretazione i Giorni Penitenziali sono dieci perché, escludendo i due di Rosh ha-Shanah e Yom Kippur ne rimangono sette. essi servono affinché facciamo Teshuvah ogni giorno per i nostri trascorsi commessi nel corso dell’anno in quel giorno della settimana.
Mi limterò a soffermarmi su tre halakhot. La prima è che chi è abituato durante l’anno a seguire posizioni halakhiche facilitanti, ancorché ammesse, in questi giorni deve essere più rigoroso con se stesso. P.es. chi tutto l’anno mangia pane fatto dai non ebrei (che è permesso a certe condizioni), fra Rosh ha-Shanah e Yom Kippur deve mangiare solo pane fatto da ebrei. Nella vita morale è lo stesso: si deve cercare un rigore maggiore anche rispetto a comportamenti ai limiti del lecito e per questo tollerati. Ora dobbiamo evitare di scherzare su persone allo scopo di rendersi simpatici alla compagnia, o evitare la controversia fino al punto di rinunciare a qualcosa che ci spetterebbe di diritto.
La seconda halakhah riguarda la Tefillah. Nella ‘Amidah formuliamo diverse aggiunte, che in maggioranza non costituiscono un problema in caso di dimenticanza. Ve ne sono invece due che se tralasciate ci impongono di tornare indietro. Alla fine della terza Berakhah dobbiamo dire Ha-Melekh ha-Qadosh (“il Re Santo”) anziché Ha-El ha-Qadosh (“il D. santo”). Chi si fosse sbagliato recitando il testo abituale di tutto l’anno deve ripetere tutto daccapo. Anche nella Berakhah in cui chiediamo il ripristino dei Giudici ci riferiamo a D. come ha-Melekh ha-Mishpat (“il Re che è Giustizia”) anziché con la formula più morbida Melekh Ohev Tzedaqah u-Mishpat (“Re che ama la giustizia e l’equità”. Dato che in questo caso la parola Melekh ricorre comunque, alcuni ritengono che non sia necessario a posteriori ripetere in caso di errore). La caratteristica di un re nel diritto ebraico consiste nella sua riconosciuta autorità di vita e morte sui propri sudditi. In questi giorni D. si presenta a noi così: ha diritto di grazia nei nostri confronti per l’anno entrante. E’ giusto e doveroso che ce ne ricordiamo nelle preghiere quotidiane. E’ interessante a questo punto notare che nella Birkat ha-Mazon non ci si pone lo stesso scrupolo e una formula particolare per i Dieci Giorni Penitenziali non c’è. Tre possono essere le ragioni. 1) La parola Melekh ricorre in realtà anche qui nell’ultima Berakhah per ben tre volte; 2) le iniziali della risposta allo Zimmun Barukh she-akhalnu… formano la parola u-vi-smoach (“con gioia”): la Berakhah del pasto è un momento di pura gratitudine e allegria, che mal si concilia con il timore della Giustizia Divina; ma l’ultima è la più forte: 3) I Dieci Giorni Penitenziali sono destinati idealmente al digiuno e come tali non giustificano uno speciale intervento nella Birkat ha-Mazon.
La terza Halakhah riguarda la vigilia di Yom Kippur, in cui è Mitzwah mangiare e bere in abbondanza, al punto che chi mangia il 9 Tishrì è come se avesse digiunato sia il 9 che il 10. Le ragioni sono molteplici: 1) la preparazione al digiuno dell’indomani; 2) la necessità di offrire un tiqqun alla prima trasgressione della storia, che ha riguardato il cibo e 3) il dovere di “festeggiare” Yom Kippur che è un Yom Tov come gli altri, fatto salvo l’obbligo del digiuno che ci impone di anticipare la se’udah al giorno prima. Il Maharal di Praga ne dà una spiegazione filosofica, basata sul concetto aristotelico di potenza e atto. Non c’è atto che non sia preceduto da una fase di potenza. Se l’atto in questione è il digiuno di Yom Kippur, è giusto e logico che esso sia preceduto la vigilia da una fase preparatoria dall’accento totalmente differente. Ecco perché il cibo del 9 e il digiuno del 10 Tishrì sono in realtà due facce della medesima medaglia. Nella vita ebraica la relazione fra gioia e dolore presenta spesso questo aspetto di alternanza e di mediazione volto a impedire gli eccessi in un senso e nell’altro.