Un commento alla Haggadà di Pesach
Amedeo Spagnoletto
“Con i nostri ragazzi e i nostri vecchi, con i nostri figli e le nostre figlie con le nostri greggi e bestiami andremo perché è festa di Dio per noi” (Esodo 10:9)
C’e’ un brano dell’aggadà molto noto che a mio avviso ha bisogno di un approfondimento. Come si sa, vengono presentate quattro tipologie diverse di figlioli. Il saggio, il malvagio, il semplice e colui che non sa porre domande. Il brano trae spunto da quattro diverse espressioni contenute nella Torà, in tutte e’ affermato il compito di trasmettere alla generazione successiva la memoria dell’uscita dall’Egitto.
Il testo relativo al malvagio dice:
Il malvagio cosa dice? Che cosa rappresenta per voi questo servizio che compite? Per voi e non per lui. Dal momento che si e’ autoescluso dalla Comunità ha rinnegato il principio cardine. Anche tu hak-hè et shinàv e digli per questo Iddio me lo fece quando uscivo dall’Egitto; a me e non a te. Se fosse stato là non sarebbe stato salvato.
La traduzione non e’ agevole nel suo complesso ed in particolare ho volutamente lasciato in ebraico due termini.
Rav Bonfil nel Sefer Angelo, li traduce “rispondigli duramente”. Rav Belgrado nella sua aggadà scrive “svergognalo e rispondigli”.
Si tratta in entrambi i casi di parafrasi in cui i due termini hak-hè (togliere la punta, levigare) e shinàv (i suoi denti) non emergono.
Ma in un’antica aggadà, pubblicata a Venezia, con la traduzione italiana resa però in caratteri ebraici, ho trovato scritto ligali i dinti legagli i denti foneticamente simile a levigagli i denti.
In ogni caso, quale essa sia la traduzione che prendiamo in considerazione, apparentemente il brano tende ad escludere in modo netto il malvagio. Ciò risulta strano se si pensa al contesto in cui ci troviamo. Le parole che gli vengono rivolte – “per questo Iddio me lo fece quando uscivo dall’Egitto” – sono le stesse che l’aggada’ riserva anche a colui che non sa fare domande. A proposito di quest’ultimo il testo della aggada’ continua e ci dice che dobbiamo insegnarli l’espressione “per questo” quando sono di fronte a noi mazza’ e maror, i principali simboli di Pesach, e, secondo alcuni commentatori, questi elementi gli vanno indicati. Dimostriamo così che il malvagio partecipa alla cena pasquale. Mi sono domandato allora ma è mai possibile che un figliolo che nonostante tutto è presente al seder, – prova che non e’ ancora fuori dal mondo ebraico – venga rifiutato in modo così netto?
Per inciso va aggiunto che la critica che gli si muove deriva dalla sua espressione “per voi”, usata anche dal saggio dove dice “che ha comandato il Signore Dio nostro a voi”. Non vige il principio secondo cui un ebreo quantunque, peccatore rimane ebreo ? (Sanhedrin 41a).
Consapevole di agire fuori dagli schemi, provo a proporre un’interpretazione che muove i passi da un testo che conosciamo Lo shema’. Nella prima parte e’ scritto “e saranno queste parole che io ti comando oggi sul tuo cuore veshinantàm a tuo figlio”. Anche in questo caso non ho tradotto un termine volontariamente. Che significa veshinantam? Molti commentatori mettono in relazione questa parola con shen dente, nel senso che le parole andranno ripetute al proprio figlio a lungo, proprio come il dente che batte ogni volta che si pronuncia un vocabolo, le parole vanno affilate come i denti (vedi Rashì ad loc.) tornare su di esse costantemente come fa un buon maestro con i suoi allievi quando vuole trasmettere un concetto basilare.
Nel nostro caso si parla di levigare e non di affilare i suoi denti, potremmo concepire così l’esistenza di metodi diversi d’insegnamento uno che “affila” nel senso di rendere l’allievo sempre più arguto e brillante, un altro che modella, leviga le apparenti distanze e i disaccordi tra un genitore ed un figlio.
Come collegare questo con Pesach?
Analizziamo un altro brano. Siamo di fronte al primo incontro di Dio con Mose’ presso il roveto ardente. Iddio gli parla della sua missione e dà a lui l’incarico di recarsi dal popolo e rivelargli il Suo disegno: salvarli dalla schiavitù. La risposta di Mose’ e’ perentoria: “non avranno fiducia in me e non ascolteranno la mia voce” (Esodo 4:1). La sua ipotesi risultera’ poi priva di fondamento, gli ebrei lo ascolteranno immediatamente, senza sospetti ne’ incertezze. Il progetto divino viene recepito immediatamente. Basto’ esporlo, a voce, una volta! (Secondo un insegnamento dei maestri le prove del bastone che diviene serpente e della mano che diviene lebbrosa, testimonierebbero proprio una punizione di Dio contro Moshe’ che aveva parlato male del popolo asserendo che non avrebbero creduto alle sue parole).
In Egitto non servi il veshinantàm ovvero ripetere insistentemente i concetti per inculcare l’identità ebraica. Questa e’ una differenza – ma anche tante altre ne hanno evidenziate i maestri – tra Pesach mizraim e Pesach dorot, Pesach che fecero gli ebrei quando uscirono dall’Egitto e Pesach che noi compiamo di generazione in generazione.
Riconcentriamoci sul nostro testo da cui siamo partiti. In effetti al malvagio noi diciamo che se fosse stato la’ non sarebbe stato salvato. Alla luce di quanto ho tentato di spiegare mi sembra che si possa comprendere questa posizione. In un contesto in cui bastava esporre l’idea una sola volta perche’ venisse recepita, evidentemente il malvagio non avrebbe trovato spazio di salvezza.
Ma attenzione, questo glie lo diciamo solo dopo che l’aggada’ ci ha imposto di levigargli i denti, ovvero parlagli di Torà fino a fare si che i suoi denti perdano l’affilatura, in questo caso negativa.
Per noi vale quindi sempre quanto e’ scritto nello shema’, abbiamo il compito di provare e riprovare, educare, istruire dalla tenera età fino alla maturità i nostri figli senza indugiare e rinunciare di fronte agli insuccessi. Il malvagio e’ semplicemente un figlio che ha bisogno di un metodo educativo personalizzato. Non e’ forse quanto scrivono i Proverbi “Addestra il ragazzo tenendo conto della sua inclinazione”?
Amedeo Spagnoletto