La Haftarah è il brano biblico tratto dai Neviim (profeti anteriori e profeti posteriori) che leggiamo di sabato e nelle feste dopo quello della Torah. Quello di questa settimana – secondo il rito sefardita e ashkenazita – è il canto scritto e cantato da Re Davide che si trova nel capitolo 22 del secondo Libro di Samuele che, tra l’altro, leggiamo anche il settimo giorno di Pesach.
Siccome il brano della Torah (parashah di Haazinu) presenta una cantica speciale che Dio fece insegnare da Mosè ai figli d’Israele prima della sua morte, i Saggi gli abbinarono come Haftarah la cantica scritta da Re Davide in cui, il terzo re d’Israele, loda Dio per averlo salvato da tutti i suoi guai. Il commentatore portoghese Don Isac Abravanel (1437-1508), le cui spoglie riposano nel cimitero ebraico di Padova, scrive che il Re Davide elaborò questa cantica in gioventù quando fu afflitto da diversi tormenti, in particolare quando fu perseguitato da Re Saul. Davide compose questi versi poetici, spiega Abravanel, perché fossero le parole che avrebbe cantato ogni volta avesse ricevuto aiuto per superare un periodo di crisi. Le imparò a memoria in modo che diventassero il suo canto di riferimento come espressione di gratitudine al Signore.
Tra questi versi, ne troviamo uno che ci offre suggerimenti e spunti su come reagire se dovessimo attraversare difficoltà o crisi durante nostra vita.
Davide esclama: “Quando sono nell’angoscia, invoco Dio…ed Egli ascolta la mia voce dalla Sua dimora e la mia supplica giunge ai Suoi orecchi” (II Samuele, 22:7). Don Isac Abravanel spiega che nella prima parte del verso, “quando sono nell’angoscia, invoco Dio…”, Davide vuole sottolineare il fatto che quando si trovò ad affrontare una crisi terribile, lui non disperò, piuttosto si fece forza e si rivolse a Dio per chiedere aiuto. Il nome di Dio “Havaya” (il tetragramma), usato in questo versetto, simboleggia il potere e le capacità illimitate della benignità divina.
Grazie alla capacità di riconoscere che Dio ha un numero infinito di modi per risolvere qualsiasi situazione difficile e per salvarlo da ogni difficoltà, Davide non si perse d’animo nei momenti difficili. Piuttosto, si affidò a quel potere sconfinato di Dio e pregò con tutto sé stesso.
Nella seconda parte del verso Davide afferma che “Egli ascolta la mia voce dalla Sua dimora e la mia supplica giunge ai Suoi orecchi”. Con queste parole, Davide ricorda che la dimora di Dio, per così dire, è molto lontana da noi, stai nei cieli più alti. Eppure, dice Davide, “la mia supplica giunge ai Suoi orecchi”, Dio ci ascolta molto attentamente, come se gli stessimo sussurrando all’orecchio.
Dobbiamo pertanto ricordare che, nonostante l’infinita differenza tra noi e il Signore, Egli ci è sempre vicino, anche quando affrontiamo le prove più terribili nelle quali possiamo cedere al pensiero negativo di essere stati abbandonati. Ma se reagiamo a questo e invochiamo il Signore con intenzione sincera, Egli è proprio accanto a noi per darci la possibilità di bisbigliare direttamente al Suo orecchio le parole della nostra preghiera.
Riconoscere questo può essere una grande fonte di incoraggiamento per tutti noi, soprattutto in questi tempi, in cui possiamo sentirci abbandonati e lasciati soli, inondati di un odio millenario mai sopito del tutto.
Con la sua cantica, il Re Davide ci ricorda che la sua esperienza è la nostra esperienza e che questi momenti difficili, piuttosto che essere motivo di disperazione, dobbiamo considerarli come un mezzo per motivarci a rivolgerci al Signore con una preghiera sincera e, soprattutto, con buoni proponimenti per il miglioramento del nostro essere ebrei, Shabbat Shalom.