Questo Shabbat è l’unico negli ‘aseret yemè teshuvah. Il prossimo, con l’aiuto di H., sarà già Kippur. Come sapete esistono due differenti tradizioni sul nome di questo Shabbat, Shabbat Teshuvah o Shabbat Shuvah, dal termine che apre la haftarah, tratta dal libro di Hoshea. Potremmo pensare che il concetto espresso è il medesimo, quello del pentimento, ma non è così. Teshuvah è un sostantivo, Shuvah è un verbo. Oggi ci si chiede di agire, e subito. La teshuvah deve partire dallo Shabbat; nota il Chidà, we-shavtà, verbo che nella parashah di Nitzawim richiama alla teshuvah, ha le stesse lettere di Shabbat.
Un concetto che in psicologia ha acquisito negli ultimi decenni sempre maggiore centralità è quello di disturbo da stress post-traumatico. Gli psicologi ne hanno descritto ampiamente i sintomi e hanno studiato dei trattamenti, che possono aiutare chi ne è colpito. Molti di noi purtroppo nella propria vita devono affrontare dei traumi, che ci toccano profondamente, fisicamente e emotivamente. Alcuni eventi hanno il potere di lasciare delle significative cicatrici psicologiche, che possono portare ad avere incubi o episodi di ansia anche molti anni dopo che l’evento traumatico si è verificato. I giorni che stiamo vivendo, gli ‘aseret yemè teshuvah, facendoci pensare all’anno appena trascorso, presentano degli aspetti traumatici.
Molti di noi, chi più chi meno, ha dovuto convivere con delle situazioni difficili, lutti, malattie, o disgrazie di altro genere. Anche se pensiamo alla dimensione collettiva, allo stato di Israele, alla condizione degli ebrei in Europa, ai rigurgiti di antisemitismo crescenti, o allo stato della nostra comunità, siamo stati toccati da numerosi eventi. Nel nostro piccolo abbiamo conosciuto dei traumi a livello spirituale. Ogni bugia che abbiamo detto, per quanto fosse innocente e avesse un nobile motivo, ha lasciato un segno nella nostra anima. Se siamo franchi con noi stessi, questo è il momento per riparare, ricordando quale è stata la nostra condotta, trascurando di esprimere i propri sentimenti a familiari e amici, non rispettando adeguatamente gli impegni assunti o non pagando certi debiti; evitando, quando ne avevamo la possibilità, di compiere certe mitzwot, non frequentando il bet ha-kneset, o non dedicandoci allo studio della Torah. Come ci dovremmo rapportare a queste considerazioni? La risposta ordinaria, dice la psicologia, è quella di insabbiare il tutto, ma questi pensieri si rifiutano di essere sepolti, e cercano continuamente di riaffiorare. La dialettica principale del trauma psichico consiste nel conflitto fra la volontà di negare degli eventi orribili e quella di proclamarli a voce alta. Questa dialettica certamente ci è familiare quando pensiamo alla nostra condotta morale e rligiosa.
Il campione di questa dialettica è il re David nei Salmi, stritolato dal dubbio se tenere nascoste le proprie colpe agli occhi degli altri, sopprimendole dalla propria coscienza, o se riconoscere apertamente i propri fallimenti. Come è possibile ripristinare il proprio io di fronte al peccato? La psicologia risponde che è necessario a tal fine costruire il proprio io ideale, in un processo che coinvolge attivamente l’immaginazione e la fantasia. Elaborare delle strategie e degli schemi che possano annullare i danni che abbiamo causato, e in questo modo divenire degli uomini migliori. Per fare questo è anzitutto necessario acquisire nuovamente la fiducia in noi stessi, ricollegarci con gli altri, dare un indirizzo alla nostra vita, consci del fatto che il recupero dal trauma non sarà mai completo. Quello della teshuvah non è un cammino rapido, ne’ semplice. Quello che avviene al nostro interno durante questi dieci giorni è solamente l’inizio di un processo di autocontrollo, vigile e costante. Dobbiamo fare ora il primo passo, lasciando dietro di noi tutte le maledizioni dell’anno passato e proiettandoci in un nuovo anno di vita, di sole benedizioni. Come fare? L’haftarah che abbiamo letto viene ancora in nostro soccorso (Hoshea 14,2): “qechù ‘immakhem devarim weshuvu el H. – Prendete con voi parole e fate ritorno al Signore”. In questo versetto è contenuto un insegnamento vitale. In esso Rabbenu Bechayè (Kad ha-qemach, Rosh ha-shanah) individua la radice dell’obbligo del widdui.
La Teshuvah non può essere reale e completa se rimane nell’ambito del solo pensiero. E’ chiaro che siamo quello che pensiamo, ma la nostra identità è vincolata alle nostre dichiarazioni. Nel processo di Teshuvah l’espressione con le parole delle nostre colpe svolge un ruolo fondamenale. Perché, potremmo chiederci. In fondo H. conosce tutti i nostri pensieri, e sa pertanto se ci siamo veramente pentiti. Perché allora esplicitare i nostri pensieri per mezzo della parola? La parola ha un suo valore anzitutto per noi. Il pensiero espresso con la parola può avere un effetto durevole su di noi. Le parole hanno un loro peso. Varie mitzwot sono collegate alla parola. Il dsicorso, dice il Sefer ha-chinukh (mitzwah 21), risveglia il cuore. La Torah destina molta attenzione alle parole. Disattendere un proprio voto è considerato una profanazione. Le parole hanno una potenza tale da creare delle nuove realtà. Esprimiamo quindi nella tefillah quei pensieri che ci porteranno tutti ad un pentimento e un perdono completi. Shanah tovah e gmar chatimah tovah a tutti.