Conferenza di Rav Somekh nell’ambito di “Ambiente: religioni a confronto” – 18/5 – UGEI-COREIS-Fed. Univ. Cattolica
A volte ci sembra che l’unica creatura che con la sua azione non sa instaurare un’influenza reciproca con le altre sia proprio l’uomo. L’uomo dà l’impressione di essere una creatura avulsa dall’ambiente che lo circonda e si interroga su come garantire l’equilibrio con la natura. Come scrive Joseph Isaac Lifshitz (“The Secret of the Sabbath” (ebr.), Shalem Center, Jerusalem 2010, p. 50-52), “fu la sapienza dell’Uomo all’indomani della trasgressione dell’Albero della Conoscenza a mettere a repentaglio l’equilibrio naturale. Quella stessa sapienza che fa dell’Uomo il gioiello della Creazione, è in realtà un’arma a doppio taglio.
Dal momento che la sapienza fa dell’uomo una creatura a sè, egli vede se stesso come il fine e il mondo come uno strumento. Si identifica con la propria capacità intellettuale e perde il senso di quell’equilibrio che il Santo Benedetto ha creato per poi affidarglielo. Nel Qohelet (7, 29) è scritto: “D. ha fatto l’uomo retto, ma essi hanno escogitato una quantità di sotterfugi”. I nostri Maestri, che hanno interpretato questo versetto in relazione al primo Uomo, sostenevano che l’Uomo era retto prima della trasgressione e ha escogitato molti sotterfugi dopo che si era preso per sè ciò che non gli spettava, assaggiando dall’Albero della Conoscenza (cfr. Rashi ad loc.).
Da qui derivano due possibili vie d’uscita. La prima consiste nell’auto-limitarsi, come suggeriscono di fare le culture che educano al mantenimento dell’equilibrio. Queste culture tendono a ridurre l’importanza della conoscenza giungendo talvolta a predicarne la soppressione, come avviene in alcuni casi nell’Estremo Oriente. Esse glorificano il mondo e rimpiccioliscono l’uomo: non è un caso che si tratta per lo più di culture idolatriche. Ma c’è un’altra via: mettersi in relazione con il mondo attraverso un dialogo responsabile, attraverso la consapevolezza che questo mondo è stato consegnato all’Uomo dal Creatore. Questa è la via raccomandata dai nostri Maestri: “’Osserva l’opera di D., perché chi mai potrebbe raddrizzare ciò che (l’Uomo) distorce?’ (Qo. 7,13). Allorché il Santo Benedetto ha creato il primo Uomo gli ha fatto fare il giro di tutti gli alberi dell’Eden dicendogli: ‘Guarda quanto sono belle e pregevoli le mie opere; sappi che tutto ciò che ho creato l’ho fatto per te. Fa’ attenzione a non rovinare e tanto meno distruggere il mio mondo, perché se lo rovini nessuno lo metterà a posto dopo di te’” (Midrash Qohelet Rabbà 7, 13).
Nella Bibbia ebraica ci sono fonti rilevanti a proposito del RAPPORTO UOMO-AMBIENTE. I versetti: “Riempite la terra ed assoggettatela” (Gen. 1,28) e “…il Creatore della terra…non per farne un deserto l’ha creata, ma l’ha formata perchè sia abitata” (Is. 45, 18) sono interpretati non come un invito all’astensione, ma piuttosto allo sfruttamento responsabile delle risorse: “(D.) ha dato loro (agli uomini) la forza e l’autorità sulla terra di fare degli animali, dei brulicanti e di tutti gli striscianti secondo la loro volontà, di costruire, di sradicare ciò che è stato piantato, di estrarre il rame dai monti e ogni operazione consimile” (Nachmanide, comm. a Gen. 1,28). Riguardo al tema della PROTEZIONE DELLA NATURA leggiamo: “Quando assedierai una città…non distruggere i suoi alberi colpendoli con la scure, perchè solo i suoi frutti potrai mangiare, ma l’albero non lo dovrai tagliare… Soltanto l’albero che tu saprai non esserealbero da frutto potrai tagliarlo e costruire strumenti da assedio…” (Deut. 20, 19-20). Commenta Maimonide: “Gli alberi da frutto che crescono in campagna non devono essere abbattuti, né devono essere privati dell’acqua d’irrigazione sì che secchino ed avvizziscano. Chiunque li abbatta è passibile di flagellazione, non solo durante periodi di assedio, ma ogni volta che siano distrutti deliberatamente (derekh hashchatah). E’ però permesso abbatterli se danneggiano altri alberi o il terreno del vicino, o perche sarebbe troppo costoso mantenerli. La Torah proibisce unicamente la distruzione deliberata” (derekh hashchatah ; – Hil. Melakhim, 6,l8).
Possiamo ricondurre ad una preoccupazione di evitare l’INQUINAMENTO AMBIENTALE la prescrizione seguente: “Avrai un posto fuori dell’accampamento dove tu uscirai e un piolo avrai attaccato alla tua armatura in modo che quando ti ritirerai scaverai con esso e quindi ricoprirai i tuoi escrementi. Poiché il Signore tuo Dio cammina in mezzo al tuo accampamento per salvarti e per consegnarti i tuoi nemici, il tuo campo dovrà essere come cosa sacra. Egli non dovrà vedere in te alcuna cosa sconcia perché si ritrarrebbe da te” (Deut. 23, 15). A questa norma biblica ne fanno eco altre nella Mishnah e nel Talmud: “Si deve allontanare per 50 cubiti dalla città un’aia permanente. Non si deve attrezzare un’aia permanente sul proprio terreno a meno che non vi siano 50 cubiti in ogni direzione. Cadaveri, tombe e conciapelli vanno allontanati dalla città per 50 cubiti” (Mishnah, Bavà Batrà 2,8-9). “Chi avesse attrezzato un’aia sul proprio terreno, o costruito una latrina o un’industria che sollevasse polvere ecc. deve prendere le distanze affinché la polvere o l’odore non raggiungano il prossimo e lo danneggino” (Maimonide, Hil.Shekhenim, 11,1). E così “dieci prescrizioni sono state fatte riguardo a Gerusalemme: …non vi si costruiscono fornaci…per via del fumo” (Bava Qammà 82b). “Chi scava cisterne per il pubblico si può lavare in esse viso, mani e piedi, purché questi non siano sporchi di fango e sterco, nel qual caso è vietato. Se si tratta di un pozzo o una fonte (da cui si beve) è proibito comunque” (Toseftà, Bava Metzià 11,14).
La fonte seguente rivela un’attenzione per l’INQUINAMENTO ACUSTICO: “Si devono allontanare le macine dal muro almeno tre spanne in caso di macina piccola, almeno quattro se si tratta di macina grande affinché non lo faccia vibrare e affinché non lo spaventi il rumore della macina stessa” (Shulchan ‘Arukh, Hil. Nizqè Shekhenim 155,7) “e lo stesso vale per ogni altro tipo di danno, come chi lavorando all’arcolaio infastidisce il prossimo con i colpi che emette in corso d’opera” (Remà ad loc.). Infine le prescrizioni seguenti sono volte a tutelare l’ARREDO URBANO: “Ordina ai Figli d’Israele che diano ai Leviti, dal territorio in loro possesso, delle città da abitare, ed un’area libera attorno alle città darete ai Leviti” (Num. 35,2), “… per la bellezza della città (le-noy ha’ir); lì non è permesso edificare, né piantare vigne né seminare” (a scopo di raccogliere frutta; Rashì ad loc.); “…e lo stesso vale per tutte le altre città d’Israele” (Maim. Hil. Shemittah 13,5). Infatti “è proibito abitare in una città ove non vi sia un giardino o del verde” (Talmud Yerushalmi, Qiddushin 4, 12).
Solo se l’Uomo –conclude Lifshitz- si rende conto di non essere una creatura come tutte le altre e di avere una responsabilità verso il mondo, egli si mette in condizione di evitare dei danni a quest’ultimo. D’altronde l’Uomo non vive fuori dal mondo. Anche se si dedica solo alla custodia e non vede se stesso come parte del mondo può essere fonte di danno. L’Uomo è comunque parte della struttura complessiva, dalla quale non può staccarsi. Per questo la Torah ci ha dato due precetti: “lavorarla e custodirla” (Gen. 2,15), dei quali uno è attivo (“lavorarla”), l’altro passivo (“custodirla”). Nel precetto attivo l’uomo dà libertà alla sua creatività, mentre nel precetto passivo egli si pone dei limiti, onde non danneggiare l’ambiente in cui vive. In questo doppio precetto di “lavorarla e custodirla” consiste precisamente l’equilibrio che la Torah ci comanda.