La crisi che si è scatenata oggi, opponendo in malo modo ebrei “laici” e “charedim”, ha radici ben lontane ed è solo l’ultimo episodio di una storia infinita di contrasti di sistemi e di modi di vivere l’identità ebraica. Lo spiega il rabbino capo di Roma
La prima volta che ho visto un autobus con posti separati per uomini e donne è stata al cinema, nel 1992, nel film Una estranea fra noi, di Sidney Lumet, che racconta la storia di un omicidio di cui è vittima un chasid di New York; un’investigatrice (Melanie Griffith), per risolvere il mistero, deve inserirsi nella comunità chasidica e per questo vestire i panni di un’ebrea lontana che fa teshuvà. Nel film c’è la scena dei membri della comunità che al mattino salgono tutti su un pulmino per andare a lavorare a Manhattan, e il pulmino è diviso longitudinalmente in due parti da una tendina scorrevole, per impedire contatti non solo fisici ma anche visivi tra uomini e donne. Il film era costruito con un abile e seducente intento divulgativo e forse propagandistico, per far capire come dietro differenze abissali di culture e abitudini si nascondesse un mondo pieno di difficoltà e contrasti, ma anche di grandi valori spirituali che il mondo circostante stenta a mantenere. In quel contesto, un pulmino separato faceva parte del discorso e del sistema e non creava scandalo, al massimo curiosità.
In altri contesti, come nell’Israele di questi giorni, la storia degli autobus con posti separati (questa volta in trasversale, le donne dietro) è stata una delle micce che ha fatto esplodere polemiche e proteste, manifestazioni nelle piazze e un’ondata mediatica che è arrivata fin qui. L’altro episodio decisivo è stato quello delle pesanti offese ad una bambina il cui abbigliamento è stato considerato poco modesto da alcuni “religiosi” di Beth Shemesh. L’indignazione, sostenuta dai media, ha portato la parte criticata a reazioni scomposte, come quella dell’esposizione di bambini con la stella gialla in una manifestazione a Meà Shearim, il quartiere simbolo di una certa ortodossia di Gerusalemme, come a dire che chi critica certi comportamenti dettati dalla religione sarebbe un antisemita nazista.
Tutto questo è rimbalzato all’estero e qui non sono stati pochi gli interventi di chi ha chiesto ai religiosi locali e in particolare ai rabbini di intervenire su questi temi pubblicamente. Perché i rabbini non parlano, non denunciano, non si dissociano? Sono anche loro complici di questi maltrattamenti? Non è, il loro silenzio, il segno che se solo potessero costringerebbero anche qui le persone a un regime oppressivo di separazione e discriminazione sessuale?
In queste richieste nostrane, pallido specchio del clima arroventato d’Israele, sono riconoscibili almeno due componenti. La prima è una sincera richiesta di chiarimenti, di voler capire cosa dice effettivamente la tradizione religiosa su certe cose e, se la tradizione non è univoca, su quale posizione si collocano i vari rabbini. Ma c’è anche una componente di critica radicale e di incomprensione per il fenomeno religioso, che sfrutta ogni evento per dissociarsene e che non pone delle domande ma degli aut aut: o ti schieri con me o non sei degno, il tuo discorso morale non vale nulla e così via. Qualche volta queste posizioni creano nel campo religioso una fastidiosa sensazione di assedio globale, in cui tutti sono sotto accusa e per essere accettati bisogna dimostrare di essere buoni e bravi. Qualcuno protesterà per questo accostamento, ma mi viene in mente l’atmosfera della guerra in Libano del 1982, in cui ogni ebreo era sotto accusa e invitato a dissociarsi e discolparsi per i comportamenti del governo di Israele. Rosellina Balbi scrisse un famoso articolo di protesta contro questo atteggiamento, intitolandolo “Davide discolpati”. Oggi c’è il “Rabbino, discolpati”.
Premetto che non ho nessuna intenzione di discolparmi per quanto accade, e chiarirò subito perché, ma solo di proporre delle spiegazioni. Le situazioni che sono state oggetto di denuncia e di proteste nascono in ambienti estremistici della galassia religiosa ebraica. Da gruppi che non riconoscono lo Stato d’Israele, che non accettano alcun compromesso con l’organizzazione statale, che hanno un rapporto ostile con chiunque rappresenti visioni differenti dal loro modo di pensare e di regolarsi l’esistenza. E’ da gruppetti affini che sono venuti fuori quelli squallidi personaggi che hanno corteggiato qualche tempo fa Ahmadinejad. In quell’occasione ho condiviso la rabbia di tutti gli altri, religiosi e non religiosi.
Ma solo chi è disinformato sulla complessità del fenomeno religioso (ma purtroppo da noi ce ne sono tanti di disinformati) può supporre che certe persone, certi gruppetti, certi atteggiamenti siano espressione di sentimenti condivisi dalla maggioranza, e che se una persona con un certo abbigliamento si comporta male il comportamento suo sia condiviso da tutti quelli che vestono come lui. C’è una divisione in infiniti rivoli. C’è una divisione fondamentale sull’uso della forza e della violenza per affermare certi principi. C’è in alcuni gruppi un’enfasi su alcuni aspetti simbolici (come quelli della “modestia” e la separazione sessuale), che sono importanti ma non tra i più importanti, che porta alla fine a distorcere il peso reale delle cose. Tante persone “comuni”, per non parlare delle guide esemplari, si comportano in modo ben differente. Rav Shlomo Zalman Auerbach z.l, tra le massime autorità rabbiniche del nostro tempo, a Gerusalemme prendeva l’autobus pubblico tutti i giorni e se gli capitava di trovare un posto libero e gli si sedeva vicino una ragazza con abiti “immodesti” si guardava bene dall’insultarla, al massimo si alzava. Il presunto silenzio rabbinico (ma solo presunto, piuttosto la voce offuscata da chi gridava) nasce dal fatto che non ci si sente tenuti a dissociarsi ogni giorno dai Neturè Karta o altri gruppi estremi, semplicemente perché dovrebbe essere ovvio che non si è parte di loro.
La crisi che si è scatenata oggi, opponendo in malo modo ebrei “laici” e “charedim”, ha però radici ben lontane, è solo l’ultimo episodio di una storia infinita di contrasti di sistemi e di modi di vivere l’identità ebraica. Nel 1898 Flaminio Servi, rabbino a Casale Monferrato e direttore del Vessillo Israelitico si trovò a guidare una campagna contro il nascente movimento sionistico politico. La sua resistenza, religiosa da una parte e patriottica italiana dall’altra, trovava riscontro -nella sua componente religiosa- nell’opposizione molto diffusa che il rabbinato dell’est Europa manifestava contro il Sionismo. Non so se di questo Servi ne fosse cosciente; sta di fatto che mentre quasi tutto il rabbinato italiano in pochi decenni si è convertito al Sionismo, altri rabbinati non l’hanno fatto e la lotta prosegue oggi come più di cento anni fa, senza esclusione di colpi.
Vale la pena citare una frase di Servi (che riprendo dal libro appena uscito Fare gli ebrei italiani di Carlotta Ferrara degli Uberti, a pag. 216). Servi criticava questi ebrei tanto sionisti quanto poco religiosi e diceva. “Gli abitanti della Palestina così ortodossi, se andasse di questa gente a impiantare un nuovo regno colà, li prenderebbero a sassate e li scomunicherebbero di santa ragione”. Sassate e scomuniche si avverano quotidianamente nella facile profezia di Servi. Abbiamo le differenti anime ebraiche in continua tenzone. Ma le anime sono tante, non sono solo due, e ogni tipo di sfumatura è possibile. Quello che importa è trovare modi di comunicare e non fare barriere da una parte e dall’altra.
Un altro aspetto di tutta questa vicenda deve essere messo in evidenza. Vi sono dei valori nel mondo religioso che stridono in modo micidiale al confronto con l’evoluzione della società laica occidentale: ad esempio la famiglia, la sessualità, il “comune senso del pudore”. Anche la legge italiana, all’art. 726 del codice penale, punisce gli atti contrari alla pubblica decenza, tra i quali potrebbe esserci un abbigliamento indecoroso. Ma l’applicazione della legge italiana si misura con la continua evoluzione del senso della decenza, per cui oggi non si puniscono comportamenti che forse dieci anni fa ancora si sanzionavano. Nei vari mondi religiosi, e quello ebraico non fa eccezione, questa evoluzione viene vista come un crollo di barriere e un attacco ai fondamenti del sistema.
Si può reagire a questo attacco in vario modo, dall’educazione tollerante alla repressione dura. Ma non si può dimenticare che di un valore si tratta e che va difeso (nei modi opportuni), rischiando altrimenti la perdita di una parte non piccola della nostra tradizione e della nostra spiritualità. Agli inizi del XVIII secolo un mistico ebreo italiano, Moshè Chaim Luzzatto, descrisse il percorso spirituale che ogni ebreo è tenuto a seguire, nel suo libroMesilat Yesharim, “Il sentiero dei giusti”. Lo schema di questo percorso è in una citazione classica dal Talmud, in cui si dice che: “l’attenzione porta alla solerzia, la solerzia alla pulizia, la pulizia al distacco, il distacco alla purificazione, la purificazione al fervore, il fervore all’umiltà, l’umiltà alla paura di peccare, la paura di peccare alla santità”. Nelle polemiche di questi giorni, senza calpestare diritti e dignità, non possiamo dimenticare che ebraismo è vocazione alla santità.
C’è un ultimo dato da sottolineare, senza sminuire la portata dei fatti denunciati. Ogni società è piena di contraddizioni e di ingiustizie, anche quella ebraica comunitaria e anche quella israeliana. Le distorsioni vanno denunciate, criticate e corrette, da qualsiasi parte vengano. Ma è di per sé una distorsione opporre i “laici”, giusti e democratici da una parte, ai “religiosi”ottusi e discriminanti dall’altra. Solo per fare un esempio, l’altro giorno sono scesi in piazza in Israele migliaia di ebrei etiopici per manifestare e denunciare il razzismo nei loro confronti. E chi sarebbe razzista non è il laico o il religioso, ma la società in generale. Anche quando si fanno critiche più che giustificate bisogna stare attenti a non creare nuove forme di razzismo.
Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma