Conferenza Parrocchia di via Duchessa Jolanda – Torino
Negli ultimi anni in ambito accademico gli studi sulla risoluzione dei conflitti sono significativamente aumentati, come le riflessioni sulle relazioni fra valori fondamentali, come quello della pace e della giustizia. Alcune teorie e tecniche di risoluzione hanno una portata universale, ma a taluni elementi, derivanti da specifiche culture e tradizioni, è stato attribuito un peso importante nella risoluzione dei conflitti.
La ricerca della giustizia è uno degli scopi fondamentali che il popolo ebraico persegue. Nel libro della Genesi (18,17-19) il Signore rivela il motivo per cui ha scelto Abramo e la sua discendenza: «Il Signore disse: posso Io tener celato ad Abramo ciò che sto per fare? Mentre egli dovrà divenire una nazione grande e potente ed essere il tipo di benedizione per tutte le genti della terra. Poiché Io lo prediligo affinché raccomandi ai suoi figli a alla sua famiglia avvenire di osservare le vie del Signore operando carità e giustizia [tzedaqah umishpat] sì che Io, Signore, compia nei suoi riguardi quello che ho detto».
Rav Sacks[1] nota come in questo passo siano combinate due nozioni che appaiono contrapposte, carità e giustizia, o meglio giustizia punitiva e giustizia distributiva. In italiano è difficile immaginare un atto di carità come un atto di giustizia. Per l’ebraismo invece la tzedaqah è un requisito di legge e può essere persino imposto dai tribunali.
A tale affermazione divina segue la discussione fra D. ed Abramo sulla salvezza di Sodoma. E. Fromm scrive, commentando questo passo: «Il giudice di tutta la terra non giudicherebbe secondo giustizia. Questa frase segna il cambiamento fondamentale del concetto di D. derivante dal patto. Con un linguaggio rispettoso, ma con l’audacia di un eroe, Abramo spinge D. a osservare i principi di giustizia. Il suo non è l’atteggiamento di un umile che supplica, ma di un uomo fiero che il diritto di esigere da D. che osservi il principio di giustizia[2]».
Già nella narrazione della creazione del mondo i Chakhamim individuano due principi fondamentali, la middat ha-din e la middat ha-rachamim, il giudizio rigoroso e l’attributo della misericordia. Dalle differenze fra le due narrazioni i Maestri arrivano alla conclusione che il Signore inizialmente intendeva creare il mondo solo per mezzo del giudizio rigoroso, ma comprese che questo da solo non avrebbe retto, e per questo vi unì la misericordia. Quando si affronta questo tema è sempre bene tenere presenti queste due polarità, perché vi è il rischio di cadere in quello che Riccardo Di Segni definisce marcionismo, la tendenza a teorizzare “l’opposizione terribile e drammatica tra due forme, due concezioni di divinità – una, propria dell’Antico Testamento, il Dio della giustizia, e l’altra, propria del Nuovo, il Dio dell’amore – come se ci fossero due divinità differenti[3]”. Anche nella creazione dell’uomo, allorché gli angeli discussero su questa iniziativa, i due principi vengono raffrontati: «Disse R. Shimon: quando il Santo, Egli sia benedetto, si accinse a creare l’uomo, gli angeli del servizio divino si divisero in gruppi ed in schiere. Alcuni dicevano: Si crei; altri dicevano: Non si crei. Come sta scritto: La misericordia e la verità si incontrarono, e la carità e la pace si baciarono (Sal. 85,11). La misericordia diceva: Si crei, perché sarà misericordioso; la verità diceva: Non si crei, perché sarà tutto falsità; la carità diceva: Si crei, perché è destinato a fare opere di bene; la pace diceva: non si crei, perché sarà tutto liti. Allora che fece il Santo, Egli sia benedetto? Prese la verità e la gettò a terra. Dissero gli angeli del servizio divino al Santo, Egli sia benedetto: Me tu disprezzi il tuo Sigillo. Si rialzi la verità dalla terra come è detto: Germogli la verità dalla terra (Sal. 85,12)[4]» (Bereshit Rabbà 8,5).
Nelle Massime dei padri (I, 18) R. Shim’on ben Gamliel affermava «il mondo si regge su tre cose: sulla verità, sulla giustizia e sulla pace». Nello stesso capitolo Shim’on ha-tzaddiq diceva però che il mondo si reggeva “sulla Torah, sul servizio divino e sulle opere benefiche”. Secondo il Meirì le affermazioni non si contraddicono; infatti quanto diceva Shim’on ha-tzaddiq è la causa della permanenza del mondo, il motivo per cui il mondo ha ragione di esistere, mentre R. Shim’on ben Gamliel fa riferimento alla dimensione dell’ordine sociale e della concordia fra gli uomini e le nazioni. Il Talmud Yeushalmì (Meghillah 3,6, secondo l’interpretazione di Qorban ha-’edah) interpreta le parole di R. Shim’on ben Gamliel nel senso che il modo per stabilire la pace è quello di fare giustizia, perché questa riflette la verità divina.
E’ evidente però che il mondo non può reggere unicamente sulla giustizia. «Il popolo romano sviluppò il diritto in grande misura; e ciò nonostante affermò Summum jus, summa iniuria[5]». L’Ecclesiaste afferma (7,16): «non essere troppo giusto». E’ possibile intendere il verso in questo modo, di agire lifnim mishurat ha-din, oltre a quanto richiesto dalla legge. Secondo il Talmud (Bavà Metzià 30b) «Gerusalemme fu distrutta solamente perché giudicavano secondo la legge della Torah e non agivano superando i requisiti richiesti dalla legge».
Questo tipo di approccio, che richiede il superamento della legge, promuove il miglioramento della società, rafforzando i sentimenti di benevolenza nei confronti del prossimo, ed in modo particolare delle categorie meno protette. Questa è la differenza fra mishpat e tzedaqah; «essa tenta di modificare il mishpat nel caso che questo porti a ingiustizie; inoltre la tzedaqah si sforza di impedire la formazione di quelle condizioni che portano all’ingiustizia. La tzedaqah è ciò che in italiano si chiama giustizia equilibratrice, equità[6].
La tensione fra la richiesta di applicazione letterale della legge e il perseguimento della solidarietà e della pace si riflette in una discussione fra i maestri relativa all’opportunità di cercare il compromesso nel giudizio[7] nelle cause civili: secondo R. Eli’ezer figlio di R. Yosè ha-Galilì è proibito cercare il compromesso fra le parti, per R. Yehoshua’ ben Qorchà è un comportamento meritorio. Secondo R. Eli’ezer quando si arriva ad un compromesso, chi avrebbe avuto ragione nel giudizio viene danneggiato, e l’altro guadagna ingiustamente; pertanto la lode di chi cerca il compromesso è paragonabile ad una bestemmia, alcuni spiegano perché si incomoda senza necessità il Creatore, che dovrà effettuare una compensazione per ristabilire le cose, in base a quanto aveva stabilito. Inoltre, spiega ‘Yiun Ya’aqov, chi opera un compromesso sembra dare maggior peso alla misericordia, quando la Mishnah afferma che la giustizia è una delle colonne portanti del mondo. Per questo, dice R. Eli’ezer “il giudizio buchi la montagna”. Questa predisposizione era propria di Mosheh. Suo fratello, Aharon, anche perché non era un giudice (Tosafot), non era così, perché “ama la pace e persegue la pace”. Secondo gli Avot deRabbì Natan (12,3) per Aharon la ricerca della pace andava persino a discapito della verità, tanto che questo si recava separatamente di ciascuna delle parti, per dire che il contendente era molto dispiaciuto per il litigio, e se ne vergognava, conducendo quindi i contendenti a conciliarsi e rinunciare al giudizio. Il rapporto che si instaura fra Mosheh e Aharon è ben illustrato dal re David nei Salmi (133,1-2): «Canto dei gradini. Di David. Ecco com’è bello e com’è soave che i fratelli se ne stiano uniti insieme. L’accordo tra di loro è come l’olio profumato cosparso sul capo, che scende sulla barba, sulla barba di Aron, che scende sui suoi abiti». I fratelli, Mosheh e Aharon, vengono paragonati all’unione fra la testa e il cuore, fra l’intelletto e il sentimento. L’olio scende dalla testa alla barba, e di lì al cuore. Mosheh è il cervello, colui che guida Israele per mezzo della Torah. Aharon è invece colui che sente pulsare il cuore di Israele per mezzo delle pietre del pettorale del Gran Sacerdote, che sono sul suo cuore e rappresentano tutte le tribù. Il Talmud presenta un terzo modello, che è quello del Re David, che faceva “mishpat e tzedaqah” per tutto il suo popolo. R. Yehoshua’ ben Qorchà ritiene che la ricerca del compromesso sia da lodare, poiché è detto «Verità e giustizia di pace giudicate nelle vostre città»; “Dove c’è giudizio non c’è pace, dove c’è pace non c’è giudizio. Qual è il giudizio che contiene la pace? è il compromesso” (TB Sanhedrin 6b). Il Maharshà (Chiddushè Haggadot, Sanhedrin 6b) scrive che la superiorità del compromesso risiede nel fatto che questo avviene con il pieno accordo delle parti, mentre nel giudizio chi soccombe non si convincerà mai dell’infondatezza delle proprie richieste.
Il compromesso però per propria natura ha la manchevolezza di sacrificare la verità e la giustizia, non salvaguardando completamente l’oppresso da parte del suo oppressore (Yi’un Ya’aqov, Sanhedrin 6b). Nonostante ciò il Maimonide (Mishneh Torah, Sanhedrin 22,4) scrive: «E’ mitzwah chiedere alle due parti prima dell’inizio del procedimento: – Volete andare ad un giudizio o ad un compromesso? – Se scelgono il compromesso allora si proceda, ed ogni tribunale che riuscirà sempre ad attuare il compromesso sarà degno di lode». Scrive Rav Soloveitchik, circa l’assenza di pace propria del giudizio rigoroso[8] «Il giudice laico è indifferente, a quanto pare, davanti a tale fallimento, dato che il suo obiettivo consiste nell’emettere la sentenza e non nel restaurare l’armonia. La pace è ritenuta una faccenda da operatori sociali e da psicologi, al di là della sfera di competenze del giudice. La Torah, al contrario, vuole che il giudice non sia soltanto un amministratore di giustizia, ma anche un maestro ed un terapeuta: a lui spetta il compito di cercare di convincere le due parti a rinunciare alle pretese di vantaggi immaginari, di spiegare loro l’influenza che può avere sull’ambiente in cui vivono, sia a livello di singolo che di comunità, un odio inestinto».
La ricerca della pace non deve però a sua volta mettere a repentaglio la ricerca della verità: uno degli elementi maggiormente caratterizzanti della letteratura rabbinica è la sussistenza di dispute fra i Maestri. Le Massime dei Padri distinguono fra due tipi di dispute, quelle in nome del Cielo, come quelle di Hillel e Shammay, che è destinata a persistere, e quelle non in nome del Cielo, come quella di Qorach ed i suoi seguaci, che invece non avrà seguito. Ma verrà un giorno in cui anche queste dispute in nome del cielo saranno risolte (Is. 11,3-5): «(il ramo che uscirà dal tronco di Isciai) … non giudicherà secondo quello che vedono i suoi occhi, né deciderà secondo quanto odono i suoi orecchi; egli giudicherà con giustizia i miseri, e deciderà con dirittura a favore degli umili della terra… sarà la giustizia cintura dei suoi lombi e la rettitudine cintura dei suoi fianchi». In attesa di quel momento dobbiamo far nostro l’ideale dei profeti: «Un gesto singolo di ingiustizia è per noi poca cosa, per il profeta è un disastro[9]»; «I profeti provavano disgusto verso coloro per i quali Dio era conforto e sicurezza. Per i profeti Dio è sfida, domanda incessante. Egli è compassione ma non compromesso; giustizia ma non inclemenza. L’anima del profeta non sa cos’è la tranquillità. Le miserie del mondo non gli danno requie. Mentre altri sono insensibili, refrattari persino alla loro insensibilità e inconsapevoli della propria durezza, i profeti restano esempi di impazienza suprema di fronte al male, non distratti né dal potere né dall’applauso, né dal successo né dalla magnificenza. La loro ipersensibilità al giusto e all’ingiusto è dovuta alla loro ipersensibilità all’interesse che Dio nutre verso ciò che è giusto e ingiusto. Nutrono una sensibilità feroce perché ascoltano in profondità[10]».
[1] J. SACKS, La dignità della differenza, Milano 2004, pp. 128-129.
[2] E. FROMM, Voi sarete come dei, Roma 1970, p. 22.
[3] R. DI SEGNI, Pace e guerra nella storia e nel diritto di Israele, inP. STEFANI e G. MENESTRINA (a cura di), Pace e guerra nella Bibbia e nel Corano, Morcelliana, Brescia, 2002 , p. 29.
[4] A. RAVENNA, Bereshit Rabbà (a cura di T. FEDERICI), Torino 1978, p. 73.
[5] A. BARTH, I problemi eterni dell’ebraismo nella nostra generazione, Milano 1980 (2° ed.), p. 244.
[6] A. BARTH, cit., p. 245.
[7] Si consiglia la lettura della raccolta di fonti (in ebraico) del prof. Nachum Rakover sul tema Ghishur ufishur o Yqqov ha-din et ha-ar nel sito mishpativri.org.
[8] J. B. Soloveitchick, Riflessioni sull’ebraismo, Firenze 1998, p. 66.
[9] A. J. Heschel, Il canto della libertà, p. 40.
[10] Idem, pp. 42-43.