Mauro Perani
Saggio di antiebraismo teologico e di polemica confessionale antigiudaica. A proposito di due libri recenti di André Paul
1. Il Giudaismo antico e la Bibbia, Edizioni Dehoniane Bologna, Collana di Studi religiosi, traduzione dall’originale francese (Parigi 1987) di G. Cestari e A.M. Cantoni, Bologna 1993.
2. Leçons paradoxales sur les Juifs et les Chrétiens, Desclée, Paris 1992.
Premessa
Nel compiere la rassegna dei due volumi in esame, tenendo presente anche altri scritti dell’A., sono stato spinto in maniera diretta – come appare del resto anche dal titolo – dall’impressione in me suscitata da alcune affermazioni contenute nelle quali si configura un antiebraismo di stampo teologico che mi è sembrato doveroso evidenziare. L’A. in realtà nel suo approccio ai testi si muove con uno schema ideologico e teologico precostituito, al quale piega i documenti esaminati, non senza fare loro violenza e passando continuamente dal piano dell’indagine storica alla teologia, in un discorso che necessariamente finisce col non avere né rigore storico, né rigore teologico. Si sarebbe potuto scegliere di discutere e contestare le affermazioni di Paul mantenendosi sul piano esclusivamente storico, ignorando di conseguenza le contaminazioni apologetiche e teologico-confessionali antiebraiche in esse contenute. Allo stesso modo ci si sarebbe anche potuti mantenere su un piano nettamente teologico e contestare le tesi dell’A. riguardo ai rapporti fra giudaismo antico e cristianesimo primitivo, sulla base dei testi neotestamentari e dei documenti del magistero ecclesiastico. Non ho scelto nessuna di queste due piste esclusive, preferendo lasciare allo storico una più articolata disamina storica delle tesi dell’A. e al teologo una contestazione teologica più dettagliata, anche se di fatto nella mia rassegna non mancano critiche puntuali sia sul piano metodologico, sia su quello storico-letterario e teologico. La mia scelta è stata determinata dal fatto che spesso Paul piega la sua interpretazione del dato storico alla tesi apologetica che vuole affermare o alla polemica confessionale e ideologica che intende perseguire. Dunque, senza ripetere alla rovescia la sua discutibile contaminazione metodologica, ho voluto semplicemente mettere a fuoco l’antiebraismo soggiacente a molte sue affermazioni, mettendo in discussione al tempo stesso il presunto rigore scientifico delle tesi su cui esso pretende di basarsi. Scorrendo anche parte della sua precedente produzione, mi pare che questa sua posizione si sia andata accentuando nei suoi scritti più recenti. Può darsi che, soprattutto nella prima delle due opere qui esaminate (anche per il fatto che in larga misura si tratta della riproposta di articoli apparsi negli anni precedenti), Paul non perseguisse in maniera diretta gli obiettivi che a me sembra di rilevare; è comunque fuori dubbio che nelle tesi da lui sostenute sono implicitamente presenti dei nuclei di pensiero che tendono a configurarsi come antigiudaici e possono condurre a posizioni chiaramente antisemite. Ed ora un ultimo accenno preliminare alla questione del metodo, che potrà essere utile per valutare quello adottato da Paul.
Dal punto di vista metodologico oggi gli sviluppi più recenti propongono come primo passo nello studio del giudaismo tra il 300 a.C. e il 200 d.C. una analisi sistemica dei documenti prodotti dai vari tipi di giudaismo, liberandoli dalla struttura dei corporaconfessionali in cui essi sono stati tramandati, al fine di comprenderli in se stessi come sistemi di pensiero, all’interno di un esame comparativo sincronico e diacronico con altri documenti, al fine di giungere ad una loro classificazione ideologica quali espressioni diverse e rivali di giudaismi, ciascuna delle quali nasce e si evolve sulla spinta di una diversa idea generativa. La seconda fase di questa metodologia – messa a punto e illustrata recentemente da G. Boccaccini, Middle Judaism and its contemporary Interpreters (1986-1992): Methodological Foundations for the Study of Judaism, 300 BCE to 200 CE, “Henoch” 15 (1993), pp. 207-234 – consiste in una critica delle fonti che metta in rilievo il modo in cui ogni particolare tipo di giudaismo abbia utilizzato un patrimonio comune, reinterpretandolo e riplasmandolo alla luce della sua originale costruzione ideologica e della propria autocomprensione. Alla fine di questo percorso ritengo che sia possibile una reincorporazione ed una più profonda comprensione del documento stesso all’interno della struttura religiosa che lo ha tramandato e del suo corpus di scritti.
1.
Il primo volume presenta l’edizione italiana di un libro di Paul apparso a Parigi nel 1987 e nel quale egli propone una serie di studi – alcuni dei quali già pubblicati altrove – incentrati su alcuni aspetti del giudaismo e del cristianesimo antichi, con particolare riferimento alla Bibbia. I contributi, tuttavia, non sempre mantengono un andamento unitario, spaziando dall’analisi storica e politica a quella socio-culturale, da valutazioni teologiche ad affermazioni di natura confessionale, sicché alcuni non mostrano in realtà una vera pertinenza con il titolo del libro. Come afferma l’A. nella prefazione, il volume vuole essere “una perorazione a difesa della differenza. Differenza tra giudaismo e cristianesimo – egli prosegue – che definerei falsi gemelli” (p. IX).
L’immagine ed il concetto non sono nuovi. Già nel 1960 J. Parkers in The Foundations of Judaism and Christianity, (Chicago, p. xiii) parlava di “due gemelli dizigotici” che, a causa della loro separazione, cercarono fin dall’inizio di delegittimarsi reciprocamente. Nel 1986 Alan F. Segal pubblicava a Cambridge Rebecca’s Children. Judaism and Christianity in the Roman World nel quale parlava di giudaismo rabbinico e di cristianesimo come di due falsi gemelli nati nella stessa epoca e nutriti dallo stesso ambiente, pur avendo lottato fra loro fin dal loro sorgere, come Giacobbe ed Esaù nel ventre di Rebecca, considerandosi entrambi il vero erede della madre, mentre a suo avviso è difficile stabilire quale delle due religioni sia la più antica. Queste affermazioni negli anni Ottanta, mentre andavano apparendo importanti contributi di J. Neusner e di G. Stemberger, costituivano complessivamente un significativo progresso nello studio del nascente giudaismo rabbinico e cristianesimo. Il libro pubblicato Da Paul nell’’87 letto allora in questo contesto poteva forse apparire in un alone sostanzialmente positivo, pur contenendo molte affermazioni ambigue, comunque più velate e apparentemente meno schierate. Si poteva insomma pensare che l’accento potesse essere posto in positivo sui gemelli, pur restando valida in secondo piano la precisazione falsi relativa alla loro forte diversificazione. Ma la lettura del volume lascia in realtà trasparire soprattutto la preoccupazione di perorare la causa della diversità, sul che nessuno avrebbe alcunché da ridire se non fosse che viene sostanzialmente ripresa la vecchia tesi dell’esistenza prima dell’era volgare di un giudaismo buono e di un giudaismo cattivo, rispettivamente confluiti nel cristianesimo e nel rabbinismo. Alla domanda se il background del cristianesimo fosse il giudaismo o l’ellenismo, che nella prima metà del nostro secolo gli studiosi ancora si ponevano, non dico che l’A. risponda optando per la seconda tesi, ma certo dal suo discorso traspare una indiscutibile simpatia per le ascendenze ellenistiche della religione cristiana. Oggi – come osserva G. Boccaccini, Il medio giudaismo, Genova 1993, p. 36 – c’è ormai un consenso generale tra gli studiosi sulla natura giudaica dell’insegnamento di Gesù e del suo movimento palestinese, mentre molti considerano giudaica anche la prima generazione cristiana e la sua fede messianica in Gesù. Inoltre è accettato che le due tendenze da cui si sarebbero sviluppati cristianesimo e rabbinismo non sono le uniche all’interno del giudaismo – o, come dicono alcuni con Neusner, dei giudaismi – del periodo tardo-antico, pur essendo al suo interno certamente molto importanti. L’approccio dell’A. allo studio del periodo delle origini cristiane e rabbiniche si pone in continuità con la violenta polemica tra queste due religioni, che per secoli ha caratterizzato e fortemente condizionato sulla base di schemi confessionali la comprensione storica. Se, ad ogni modo, alcune tesi potevano in questo primo libro rimanere in una certa misura più sfumate ed implicite, esse vengono svelate nella loro reale portata alla luce del secondo volume del 1992 in cui l’approccio confessionale ed antiebraico dell’A. si manifesta in maniera del tutto scoperta. Ma torniamo all’esame de Il giudaismo antico e la Bibbia.
Delineando nell’introduzione oggetto e metodo dello studio di quello che egli chiama giudaismo antico, Paul – teologo e storico che ha al suo attivo diverse pubblicazioni nel campo del giudaismo e del cristianesimo antichi – pone come eventi che lo delimitano cronologicamente nientemeno che l’esilio babilonese (sec. VI a.C.) e il sorgere dei grandi commenti talmudici come quello di Rashi in Occidente (sec. XI) e la fine dell’esilarcato in Oriente (sec. XII). “Penso – afferma a p. XXI – che il giudaismo antico abbia inizio con l’esilio a Babilonia e, procedendo sempre in avanti, abbracci il periodo talmudico e quello dei primi commenti al Talmud”. Già questa delimitazione cronologica mi pare inaccettabile, poiché non si capisce come si possa parlare di giudaismo antico ancora al volgere del Medioevo, agglomerando in una sola definizione un coacervo di epoche, tendenze, culture, concezioni e movimenti tanto diversi ed eterogenei fra loro: il risultato non può che essere una schematizzazione semplicistica ed un livellamento che poco giovano alla comprensione storica, ingenerando anzi, come vedremo, una serie di equivoci fonte di grave confusione in ambito storico, sulla base di una tesi teologica preconfezionata. Mi pare più corretto parlare con Neusner e Stemberger di giudaismo classico o rabbinico per il periodo che va dal 70 d.C. al 1040, di cui i primi quattro secoli costituiscono il periodo formativo (formative Judaism); oggi, inoltre, è sempre più accettata la designazione di antico giudaismo per il periodo che va dal VI al IV sec. a.C. e di medio giudaismo per i secoli III a.C.-II d.C. seguendo la terminologia di Boccaccini. In alternativa resta corretta la designazione di giudaismo del secondo tempio per il periodo che va dal VI sec. a.C. al I d.C., adottata ad esempio da P. Sacchi.
L’imprecisione contenuta nella definizione di giudaismo anticosarà continuamente all’origine di un errore di prospettiva storica che rende equivoca l’affermazione per cui il cristianesimo costituirebbe un sistema totalmente diverso ed autonomo rispetto al giudaismo, con il quale non avrebbe nulla da spartire: ora, se si tratta del giudaismo antico nell’accezione corretta del termine, ciò non è affatto vero, poiché, al contrario da esso il cristianesimo deriva come uno sviluppo particolare della tendenza messianica e della linea apocalittico-escatologica; senza il giudaismo dell’antico Israele e quello del secondo tempio, fino al periodo contemporaneo a Gesù, il cristianesimo non solo non sarebbe storicamente pensabile, ma non esisterebbe neppure. “Il primo cristianesimo – come osserva M. Pesce, Il cristianesimo e la sua radice ebraica, Bologna 1994, p. 91 – ha conservato l’ebraismo e ha ebraizzato i gentili”. L’affermazione resta vera in rapporto al giudaismo rabbinico che si è sviluppato contemporaneamente al cristianesimo in una netta differenziazione reciproca. Ma l’A. passa spesso dall’uno all’altro giudaismo. La rilevata imprecisione terminologica genera dei giudizi inesatti, tra l’altro chiaramente venati di una preoccupazione teologico-apologetica nei confronti del cristianesimo. Come l’affermazione che apre la prima parte e che suona così: “A quanto pare, il giudaismo antico fu molto più biblico prima della comparsa del cristianesimo che dopo. (…) La rivendicazione dei cristiani di essere sia i testimoni di fronte a Gesù Cristo, sia gli operatori, con la redazione del Nuovo Testamento, del compimento delle Scritture, fu di certo una delle motivazioni maggiori” (p. 3). Innanzitutto qui l’A. passa ad intendere per giudaismo antico qualcosa di diverso dalla definizione che ne aveva appena dato, ossia il giudaismo fino alla fine del I secolo della nostra èra; in secondo luogo è assolutamente discutibile l’affermazione stessa che con la distruzione del tempio il giudaismo diventi meno biblico, tra l’altro perché – è la tesi implicita di Paul – la Bibbia sarebbe stata monopolizzata, nonché portata a compimento dal cristianesimo. A parte la natura teologica e confessionale di un simile giudizio, allo storico parrebbe esattamante il contrario. Innanzitutto fino agli ultimi secoli prima di Cristo non è che il giudaismo sia “più biblico”, ma semplicemente produce la stessa Bibbia, evidentemente quei libri che, grosso modo, diventeranno l’Antico Testamento dei cristiani. Dopo la catastrofe del 70 il giudaismo certamente ripensa radicalmente la sua identità e si ridefinisce sempre più come giudaismo della Torah – nella duplice forma scritta e orale – e quindi una religione che, avendo perduto il sistema-tempio e tutte le strutture religiose su cui si era retta per secoli, avendo vissuto laceranti delusioni per il vanificarsi delle speranze messianiche di riscatto, si concentra tutta attorno alla sola cosa che le è rimasta, ossia proprio la Scrittura, tanto da essere definita religione del Libro, un concetto che certo non si addice al giudaismo prima del 70. Che il giudaismo rabbinico si formi come commento alla Torahed alla Scrittura mi pare fuori dubbio: così nascono la Mishnah, i Midrashim halakici ed aggadici, la Gemara dei due Talmudim. Certamente si tratta di una rilettura delle Scritture alla luce dei concetti fondamentali che delimitano l’autocomprensione che il giudaismo della duplice Torah ha di sè o, meglio, di sè va elaborando, in maniera del tutto analoga alla rilettura che degli stessi testi compie il nascente cristianesimo alla luce del messia di Nazaret figlio di Dio venuto nella carne, morto, risorto e atteso per la fine dei tempi. Ma non si potrà dire che il giudaismo rabbinico sia “meno biblico” per il ricorso alla Torah orale, più di quanto non lo si possa dire anche del cristianesimo per il ricorso al concetto chiave del Messia crocifisso-salvatore e a tutta la elaborazione concettuale neotestamentaria. A meno che non si parta, appunto, dal postulato confessionale che la “vera Bibbia” è quella cristiana, composta da Antico e Nuovo Testamento. Peraltro, se è innegabile nel giudaismo rabbinico una particolare attenzione verso la halakah, sappiamo che questa linea non è l’unica, ma convive con quella del commento biblico non halakico e con quella della mistica, mentre oggi viene giustamente rifiutata la sua definizione come “giudaismo normativo”. Resta comunque difficile, se si prescinde da giudizi teologici e da argomentazioni dettate dalla propria adesione a questa o a quella religione, stabilire quale dei due sviluppi sia più o meno biblico, il che equivale a dire il migliore. Si potrebbe dire di ciascuno dei due che è più biblico dell’altro in modi e forme diverse, ma da un punto di vista scientifico semplicemente la domanda non ha senso. Scrive al riguardo Neusner: “Proprio come il cristianesimo rilegge l’intera eredità dell’antico Israele alla luce della ‘resurrezione di Gesù Cristo’, così il giudaismo [rabbinico] interpreta le Scritture ebraiche come una parte, quella scritta, dell’ ‘unica Torah di Mosè, nostro maestro’. L’antico Israele non fornisce testimonianze a favore della Torah orale, fissata nella Mishnah e negli scritti rabbinici successivi, più di quanto non faccia di Gesù in quanto Cristo. In entrambi i casi ci troviamo di fronte a circoli religiosi che, nell’ambito del giudaismo della tarda antichità, rileggono tutto il passato alla luce della loro coscienza e delle loro convinzioni” (Judaism and Scripture: The Evidence of Leviticus Rabbah, Chicago – London, 1986, p. XI). D’altra parte l’affermazione sopraccitata dell’A. pare in contrasto con quanto egli stesso afferma poche pagine più avanti a proposito del Midrash: “L’autentico midrash (…) è praticamente nato dopo il 70. Fino ad allora, infatti, solo di rado la Scrittura costituiva la forza spirituale centrale della comunità giudaica. In primo luogo e al di sopra di tutto c’era il tempio con il sacerdozio e le sue tradizioni…” (p. 21).
La prima parte del volume è dedicata a Rabbinismo, qumranismoe caraismo. A parte l’affermazione discutibile relativa alla “superiorità” nel giudaismo rabbinico della tradizione (Torah) orale su quella scritta (p. 10) e l’approccio nell’esposizione della halakah come “sapienza del possibile” incentrata sulla polarità fra “Parola divina” e “attività umana” poiché “esiste nella halakah una grande parte umana che la rende possibile” (p. 14), nonché la trattazione della haggadah come “narrazione al quadrato” che, pur partendo dalla Scrittura è “alimento del mondo dei sentimenti” (p. 17), Paul esalta la Torah una e perfetta dei qumraniti, per i quali il Rotolo del tempio, concepito come nuova Torah escatologica, “veniva non ad abolire la legge, ma a darle compimento” (p.33), naturalmente a differenza del giudaismo rabbinico, il quale non solo non dà compimento a nulla, ma si distacca imperdonabilmente dalla stessa Scrittura. In questo senso vengono contrapposti i qumraniti ai rabbini: i primi “sono dei biblisti nel senso più rigoroso del termine, mentre quelli non lo sono più di tanto” (p. 34). La tesi è così riassunta: Qumran è “un quasi prototipo del modello cristiano”; il cristianesimo ha sintetizzato in sè la posizione di Qumran, per cui “tutto è Scrittura”, e quella dei rabbini per cui “tutto è Dottrina (è il significato del termine “Torah”), ossia Tradizione. Ora il cristianesimo afferma l’esistenza e della Scrittura e della Tradizione come realtà distinte ma necessariamente collegate” (p. 35). Il che sarebbe come dire che il cristianesimo non solo è il verogiudaismo della Scrittura, ma è anche al tempo stesso il vero giudaismo della Tradizione orale: al giudaismo rabbinico non resta più nulla. Inutile pensare ad una analogia anche per il giudaismo rabbinico tra Torah scritta-Scrittura e Torah orale-Tradizione!
Ci sarebbe molto da dire sull’affermazione per cui Qumran sarebbe “un quasi prototipo del cristianesimo”. Come conciliare con quest’ultimo il marcato dualismo essenico che P. Sacchi definisce “dualismo a livello degli spiriti”? (Storia del Secondo Tempio. Israele tra VI secolo a.C. e I secolo d.C., Torino 1994, p. 310) oppure con la rigida chiusura settaria della comunità degli eletti o con il rigoroso predeterminismo? con la sua concezione del male inteso come impurità? e con il suo netto orientamento centripeto, per usare un’espressione con cui Paul definisce il giudaismo? Se, certamente, non mancano affinità con il messaggio di Gesù di Nazaret, la comparazione con l’essenismo va fatta in maniera più articolata e complessa.
La natura teologico-apologetica di un simile modo di argomentare diviene ancor più chiara con il rilievo del ritorno alla solaScriptura ad opera dei Caraiti verso la metà dell’VIII secolo; essi si chiamano “qeraim, letteralmente biblisti (…) La sua [scil. del termine caraiti] traduzione più corretta in italiano è scritturali, vale a dire biblisti” (p. 44s). Dalla presenza nel Talmuddell’espressione tanae Qeryyah, ossia “gli specialisti della Bibbia” e nel Levitico Rabbah dell’altra qerye, ossia “gli esperti della Scrittura”, l’A. conclude che “esistevano probabilmente nel giudaismo degli antichi rabbini, taluni elementi precursori di ciò che più tardi si affermerà come caraismo”. Ancora, la tesi di quella che Paul chiama la “qumranizzazione del caraismo” è spiegata col fatto che la scoperta di documenti nei dintorni di Gerico verso l’anno 800, di cui parla il patriarca di Seleucia Timoteo I, riguarderebbe il Documento di Damasco e altri testi qumraniani, “raccolti, circa venti o trent’anni più tardi, dai caraiti appena insediatisi in Palestina e anche a Gerusalemme”: così “è come se i manoscritti del deserto di Giuda siano stati riportati alla luce due volte, a più di un millennio di intervallo” (p. 48s). I caraiti sono elogiati per la loro lotta a difesa dell’autentica Torah, grazie anche alla loro riscoperta dei qumraniti della sola Scriptura, e per il fatto di aver rigettato il rabbinismo, senza poter tuttavia evitare di rimanerne anche profondamente condizionati (p. 50). Se una certa linea di continuità fra i due movimenti esiste certamente, credo che non si dovrebbe dimenticare che accanto alla Scrittura per i settari di Qumran esistono anche altre fonti di conoscenza. Nella loro ideologia svolge un ruolo importante anche la conoscenza per illuminazione, concessa soprattutto al Maestro di giustizia e da questo rivelata solo ai membri che hanno accettato le verità fondamentali della setta; questi, avendo fede in lui, possono essere liberati dal giudizio. Inoltre, come osserva Sacchi (Storia del Secondo Tempio, cit., p. 300), nel Documento di Damasco si va profilando il concetto di “tradizione garante” costituita da “coloro che conoscono e praticano la giustizia” ai quali esclusivamente l’autore si rivolge.
Nella seconda parte dedicata all’influsso esercitato dal mondo ellenistico sulla nazione giudaica, Paul rileva come la versione dei Settanta sia chiamata per la prima volta Bibbia: essa da un lato sarebbe “la Bibbia autentica dei giudei” (p. 73; ma di tutti i giudei o di quelli di lingua greca?), dall’altro il fatto della traduzione della Torah ebraica in greco non avrebbe nulla da spartire con il fenomeno dei targumim che non sono che il suo falso omologo. Questi “non dipendono dalla scrittura propriamente detta, né sono solidali con una vera produzione letteraria” ma rientrerebbero in un sistema centripeto “con la strutturazione dottrinale dell’ebraico come unica lingua autentica… (…) Gli scritti che possiamo definire come la letteratura dei giudei dopo il 70, vennero redatti nella maggior parte dei casi in ebraico, e i targumim aramaici non ne fanno parte. (…) Ma la produzione e le funzioni della Bibbia greca dipendono da un sistema del tutto diverso, sistema di diaspora, centrifugo e proto-cristiano“. La realizzazione della versione greca dei Settanta viene definita più avanti “momento sorprendente di apertura e di conversione culturale dei giudei” della diaspora alessandrina (p. 221). Le stesse tesi sono sostenute dall’A. nella relazione La Torah sapienziale a confronto con il mondo culturale ellenistico tenuta alla XXIX Settimana Biblica Nazionale dell’Associazione Biblica Italiana e pubblicata alle pp. 49-70 negli atti della stessa intitolati Sapienza e Torah, apparsi a Bologna nel 1987. Paul esalta Aristobulo che attorno agli anni 180-170 a.C. esprime uno dei momenti migliori “di maturità culturale … della corrente nazionale giudaica. Non si tratta più allora di distruggere, di sterminare e quindi di occupare, come lo si era fatto in Canaan al tempo della grande conquista”: ahimè, triste esperienza fondante, peccato originale dell’antico Israele, commesso per di più in obbedienza a Dio! tendenza aggressiva e distruttiva perenne dell’inconscio ebraico! Da tutto ciò al tempo di Aristobulo gli ebrei sono salvati dall’apertura alla cultura greca che offre nuovi e migliori canali alla legge di Mosè: “legge depoliticizzata che, grazie al bagno in questo canale ellenistico, andava in qualche modo trasformandosi in Sapienza” (p. 67). Peccato che, proprio negli stessi anni, Gesù ben Sira componga un libro presente solo nella Bibbia greca, appunto il Siracide, nel quale egli, ebreo forse troppo poco proto-cristiano, compie esattamente il cammino opposto, identificando la Sofia con la Torah di Mosè! Lo stesso si potrebbe dire di un altro ebreo della diaspora alessandrina che, scrivendo poco più di un secolo dopo il libro della Sapienza, identifica quest’ultima con una filosofia religiosa della storia capace di cogliere in essa il governo di Dio, ancorandola in tal modo profondamente alle vicende del passato di Israele.
La cultura ellenistica – ma l’aggettivo ellenistico andrebbe usato in maniera meno indeterminata, come osserva giustamente M. Hengel, L’”ellenizzazione” della Giudea nel I secolo d.C., [Tübingen 1991] Brescia 1993, p. 130s – non potrebbe essere esaltata con maggior vigore: meno chiaro è capire da quale penosa chiusura e da quale malvagia cultura essa abbia il potere di salvare i suoi adepti, dato che costituisce una conversione. Ho sottolineato di proposito l’ultima espressione, poiché mi pare che la vis apologetica raggiunga veramente uno dei suoi apici appunto definendo gli ebrei della diaspora alessandrina che hanno prodotto la Settanta come non dico i precursori dei cristiani, ma addirittura espressione di un modello proto-cristiano! D’altra parte l’A. in un articolo del 1982 aveva sostenuto che non esiste una Bibbia ebraica. Così scrive in Y a-t-il vraiment une Bible juive? (nel volume miscellaneo “L’Ancien et le Nouveau”, Paris 1982): “…composta di un Antico e di un Nuovo Testamento, la Bibbia è un bene esclusivamente cristiano (p. 47). (…) Anche se le sue radici sono ebraiche, la parola Bibbia è un concetto cristiano. Così, quale che sia la simmetria tra Bibbia e Torah, si può affermare che non c’è alcuna Bibbia ebraica (p. 53)”: infatti – conclude Paul – Torah evoca e corrisponde a una nazione, mentre Bibbia evoca e corrisponde ad una chiesa. Ma – ci vien fatto di osservare – oltre alla Torah, l’Israele antico non ha prodotto anche i Nevi’im ed i Ketuvim? E se è vero che nella teologia rabbinica le ultime due parti non hanno la pienezza di autorevolezza della prima, essendone come il riflesso, non costituiscono pure anche per il rabbinismo tutti insieme la rivelazione di Dio, rispettivamente come luce diretta e come luce riflessa? E al di là del termine di origine greca ta Biblìa, ossia semplicemente “i libri”, che cosa si evoca con esso di così diverso dai termini ebraici Miqra’, Sefer, Sefer Torah, Hamesh Megillot, Megillat Ester e, più tardi, Tanak? Oppure quella ebraica non è una Bibbia perché non comprende il Nuovo Testamento? Ma la logica vorrebbe in tal caso che si dicesse che non è un Antico Testamento poiché non possiede un Nuovo, ed infatti non lo è affatto per un ebreo! In questo senso il concetto di intertestamento è scientificamente inaccettabile per definire il periodo compreso fra la chiusura dell’Antico e la radazione del Nuovo, come del resto l’A. stesso riconosce (p. XXII), pur avendo pubblicato in passato un volume che porta questo titolo (Intertestament, Paris 1975). Si potrebbe poi osservare – come sottolinea E. Norelli, La Bibbia nell’antichità cristiana I, Bologna 1993, p. 12 – che i libri entrati nel Nuovo Testamento non furono composti con la pretesa di essere divinamente ispirati, ad eccezione dell’Apocalisse giovannea, e che Giustino, ancora intorno alla metà del II secolo d.C., nella sua dimostrazione basata sulle Scritture non usa nessun testo estraneo alla Bibbia ebraica. In sintesi l’impressione è che – visto che il discorso è fatto sulla Settanta – non si tratti altro che della solita operazione di “espropriazione” perpetrata contro gli ebrei dei loro libri sacri, comunque li si voglia chiamare, secondo una prassi a cui l’antisemitismo cristiano ci ha abituati da duemila anni!
I tre capitoli che costituiscono la Parte seconda “Il mondo ellenistico aperto alla nazione giudaica” non sembrano avere una pertinenza diretta con il titolo del volume, occupandosi in particolare dell’ellenizzazione di concetti biblico-ebraici, nonché di storia politica e sociale. Ciò vale in modo particolare per il capitolo terzo Il terzo libro dei Maccabei, che ripropone uno studio apparso nel 1984 in “Aufstieg und Niedergang der Römischen Welt”, II.20.1, pp. 298-336.
Perplessità nascono anche dalla lettura dei tre capitoli dedicati a Giuseppe Flavio definito “vero testimone della nazione”, “il giudeo fedele alle tradizioni ancestrali dei padri”; dall’analisi del racconto flaviano della creazione contenuto nelle Antichità giudaiche, Paul definisce Giuseppe come “assai più giudeo, nel senso rabbinico del termine, di quanto non sia fedele alla verità biblica”; in questo modo egli si mostra non solo contemporaneo dei maestri tannaiti (un tanna di lingua greca), ma addirittura un loro complice (p. 198s). Quale sia il misfatto perpetrato è meno chiaro da capire: forse di essere stato ebreo, di aver ragionato con categorie ebraiche, e di non essersi sufficientemente staccato dalla matrice semitica di pensiero, rinnegandola a favore di quella ellenistica che ha il merito di aver prodotto la vera Bibbia, quella “proto-cristiana” di Alessandria che, almeno per la Torah, ha anticipato il cristianesimo e la sua Bibbia di ben tre secoli. A conferma, se qualcuno avesse dei dubbi, si precisa che con l’espressione “la Bibbia greca, intendo dire la Bibbia cristiana col Nuovo Testamento” (p. 207), come pure l’altra che suona “la Bibbia cristiana, vale a dire la Bibbia come tale” (p. 216). D’altra parte per l’A. le Antichità giudaiche sono un manifesto anticristiano. L’opera costituisce “il prodotto del pentimento di Giuseppe”: pentimento rispetto alla sua maggiore apertura a Roma e all’ellenismo presente nella Guerra giudaica che sarebbe stato suscitato dalla visione della comunità giudaica di Roma caratterizzata da una grande “povertà culturale e sociale. (…) A questa miseria locale dei giudei corrispondeva, sul versante opposto la ricchezza letteraria, culturale e dottrinale dei cristiani di Roma” (p. 211s), fin dagli anni Cinquanta con la lettera inviata da Paolo e sulla fine del secolo con quella ai Corinzi attribuita a Clemente. Se Giuseppe Flavio non si fosse “pentito” forse avrebbe potuto essere annoverato tra i “proto-cristiani”!
Nella quarta parte siamo invece informati che la traduzione greca di Aquila vuole essere una reazionaria restaurazione della verità ebraica mediante una interpretazione anti-cristiana, operando una resa etimologicistica dell’ebraico che è una vera trappola ideologica: “egli disarticola in qualche modo il testo al livello delle parole, che restituisce nel loro rispettivo sostrato di significato” (p. 229), critica che Paul rivolge anche alla traduzione francese della Bibbia compiuta da Chouraqui ai nostri giorni. La conclusione è che “in lui (Aquila), artefice e campione di una verità iper-ebraica, la relazione che costituisce la condizione reale della scrittura appare nettamente di ordine ideologico” (p. 230). Ora, se nessuno può mettere in dubbio che in qualsiasi traduzione esista una componente ideologica, e quindi anche in quella di Aquila – benché una tendenza anticristiana in essa non si possa provare -, così come esiste nell’elaborazione rabbinica della ideologia-teologia dell’ebraico come lingua santa, lingua di Dio e lingua di Adamo, quello che non si capisce è perché mai la Settanta invece non sarebbe altrettanto ideologica e teologica, come ogni persona di senno ammette senza problema, nella consapevolezza che decidere quali siano l’ideologia e la teologia giuste è un altro problema che si risolve su un piano diverso e che non può divenire il metro per stabilire la bontà filologica di una versione o lo strumento per esaminarne l’ideologia da un punto di vista storico. Al contrario, per Paul la riaffermazione iper-ebraica di Aquila è espressione del sistema-giudaismo che “dal Libro dei giubilei a Rashi” ci è rivelato con chiarezza come “coerenza nazionale, ideologica, anziché dottrinale!” (p. 249). Mi pare che ogni commento a una simile affermazione sia superfluo.
Ancora più strabilianti sono le affermazioni che Paul fa nel capitolo Dal mito di Masada all’ideologia del terzo tempio. Possiamo riassumerle così: il movimento dei resistenti di Masada rappresenta “l’ostinato riemergere dell’ideale della regalità ereditaria degli asmonei” (p. 267); l’ideale nazionalistico è fortemente radicato nel subconscio di ogni giudeo (p. 268); del resto “in ogni tempo i giudei lontani dalla Palestina non furono più sventurati dei loro dominatori politici, ad esempio i musulmani, né dei loro concorrenti religiosi, vale a dire i cristiani” (Ibid.,: l’A., che tiene corsi alla École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, dovrebbe essere a conoscenza della storia dell’antisemitismo, dall’Antichità alle Crociate, dall’Inquisizione spagnola a quella della Controriforma, dai pogrom dell’Europa orientale alla Shoah!); “i governanti dei paesi del loro esilio erano ai loro occhi degli usurpatori, e quindi dei nemici da combattere”; la loro sventura era l’esilio, cioè la mancanza dell’esercizio diretto del potere politico, ma ciononostante i giudei “credevano più che mai di essere destinati a dominare, un giorno, l’insieme del mondo (…) perciò in ogni epoca il loro scopo primo e ultimo fu quello di conquistare il controllo del territorio nazionale … e di conseguenza di essere i dominatori della gentilità” (p. 269: affermazioni che sembrano una citazione puntuale ripresa da I protocolli degli anziani di Sion!); ciò è dimostrato dai ben settantacinque pretesi messia computati da Zunz, otto dei quali “imperversarono” durante le tre prime crociate (le quali, risaputamente, riservarono un trattamento di favore agli ebrei, come a Magonza e in altre località europee!); pur nella loro marginalità, i sicari di Masada “ebbero di fatto la funzione obiettiva di far percepire la voce più segreta e quindi l’elemento immortale del subconscio giudaico”, pur costituendo un fenomeno reazionario “epifenomeno ideologico o bubbone sociale … uno spirito collettivo di integralismo nazionale che … diede vita talvolta a forme di aggregazione di tipo terroristico” (p. 270s); eppure, nonostante quanto detto, il vero nemico di Masada fu il rabbinismo: quest’ultimo, che prima era stato definito l’essenza del giudaismo, ora sconfigge Masada, che però pure aveva espresso la voce più segreta e quindi l’elemento immortale del subconscio giudaico! E’ sorprendente notare come, mentre una volta lo stereotipo classico dell’antisemitismo era il concetto teologico di “popolo deicida maledetto” e, poi, quello di “razza inferiore”, l’antiebraismo nella sua inculturazione nel moderno si serve di un importante concetto psicoanalitico come il subconscio, della cui scoperta siamo debitori proprio ad un ebreo.
Nell’indagine storica di Paul Masada si collega senza problemi alla monarchia di Davide, al regno asmoneo e alla politica dello stato d’Israele soprattutto prima della Guerra dei sei giorni; dopo di essa infatti il riferimento di continuità col passato glorioso non è più Masada, ma il riconquistato muro del pianto (quasi che prima del 1967, esso fosse pressoché ignorato dagli ebrei!) il quale apre la strada alla nuova ideologia del terzo tempio: il passaggio è chiaro: Davide, gli asmonei, Masada, i falsi messia sparsi per i secoli, la politica israeliana degli ultimi decenni e, finalmente, la conquista del muro occidentale! La giustificazione che l’A. si dà per questo sconfinamento è che “la storia di un periodo o di un fatto antico è formata anche della sua posterità” (p. 331). Ma il caleidoscopio della deformazione storica non è finito: infatti, la visita di Sadat a Gerusalemme nello stesso anno, e soprattutto gli accordi israelo-egiziani siglati a Camp David nel 1979 sanciscono un’alleanza “che non poteva non ricordare le fasi ahimè brillanti della storia asmonea”: il vero nemico resta la Siria e, infatti, poco dopo c’è l’annessione del Golan! Parallelamente a ciò il già menzionato A. Chouraqui promuove una “enorme impresa di pan-sionismo letterario” (p. 288) con la ricordata traduzione in francese della Bibbia!
A parte che si fatica a comprendere cosa c’entri tutto ciò con Il giudaismo antico e la Bibbia, titolo del libro in esame, per fortuna arriva l’apocalittica, oggetto dell’ultimo capitolo. Ora “senza indulgere a un’apologetica troppo accentratrice [un barlume di consapevolezza, almeno come rischio, pare non manchi all’A.!], sottolineo tuttavia che il sostantivo apocalisse … è nato cristiano” (p. 326): contrariamente al rabbinismo, all’ideologia della Torah, a Masada ecc., l’apocalittica infatti secondo Paul esprime nel giudaismo “una solidarietà profonda e obbligata col vasto universo di cui faceva parte”. Almeno nell’apocalittica, dunque, il giudaismo non ha complessi di superiorità, si integra col mondo circostante e, anzi, in esso si perde. Il risultato è che anche di essa l’A. lo espropria, attribuendone la creazione ai cristiani: “Il nome apocalisse è scaturito per così dire dalla loro [scil. della dottrina e della forma apocalittiche] sintesi cristiana, con l’Apocalisse di S. Giovanni, libro destinato a chiudere, non senza fatica, la Bibbia o Apocalisse cristiana. Si può dire che nel cristianesimo la pseudonimia apocalittica si è sistematizzata con la firma Gesù Cristo” (p. 327). Sappia dunque chi ha dedicato la sua vita a studiare l’apocalittica giudaica che essa fino all’Apocalisse di Giovanni non è che “pseudonimia apocalittica”, come a dire falsa apocalittica, designata impropriamente mediante uno pseudonimo. Superfluo esplicitare l’argomento teologico soggiacente, fin troppo chiaro: l’unica vera apocalittica è la apo-kalypsis della salvezza portata da Gesù Cristo, così come la sola vera apocalisse è la rivelazione del compimento escatologico cristiano di Giovanni, il veggente di Patmos. Dunque tutta l’altra apocalittica, che non reca la firma di Cristo, o non è tale, o al massimo sarà un abbozzo asistematico, una preparazione implicita proto-cristiana o pre-cristiana nella misura in cui conterrà elementi di convergenza con la sola vera apocalisse, quella cristiana che costituisce “la maturità apocalittica” (p. 301) preparata da Geremia, Ezechiele, Isaia secondo e terzo. “Si potrebbe dimostrare facilmente – conclude l’A. a p. 326 – che questa stessa Bibbia (cristiana) è un’immensa apocalisse, la quale riunisce la totalità delle dimensioni e caratteristiche che abbiamo detto essere quelle di un’autentica apocalittica e, parallelamente, che Gesù Cristo soddisfa a tutte le condizioni e possiede tutti i tratti del perfetto apocalittico”. Cosa ci sia di apocalittico nel libro della Genesi, nel Levitico, nei Proverbi o in Qohelet, che pure in quanto parte dell’Antico Testamento cristiano sono Bibbia, ma anche negli Atti, e in molte parti degli stessi Vangeli, compreso Giovanni, attenderemo di saperlo meglio in un prossimo libro di Paul! Ancora una volta un giudizio teologico, che andrebbe rispettato se si mantenesse consapevole della sua natura di adesione religiosa ad una fede (pur connotandosi di spirito settario e di assolutismo culturale), pretende di sostituirsi all’indagine storico-letteraria facendo violenza ai testi. In realtà l’apologeta cristiano Paul, che nessuno vuole spingere a considerare ispirato e canonico il Libro dei giubilei e tanto meno a convertirsi al giudaismo, pure non può dire che l’apocalittica giudaica non è apocalittica perché non è cristiana, o che tutta la Bibbia è apocalittica, e soprattutto comprenderà meglio la stessa Apocalisse di Giovanni anche studiando il Libro dei giubilei e le altre opere prodotte da questa importante tendenza del giudaismo. A proposito di questi testi, e di quelli impropriamente indicati come intertestamentari, meraviglia vedere citata dall’A. (p. XXII) l’opera di J.H. Charlesworth Gli pseudoepigrafi dell’Antico Testamento e il Nuovo Testamento (Cambridge 1985; ed. italiana Brescia 1990) come contenente “giudiziose messe a punto sull’argomento” quando Paul sembra esattamente ricadere in quel “pregiudizio confessionale” riguardo a questi testi “considerati importanti unicamente e a motivo del ponte che essi tendevano a gettare … tra le ‘due sacre e canoniche raccolte della santa parola di Dio’ ” denunciato da Charlesworth nel suo libro (p. 38s) come tipico del periodo buio della ricerca su di essi negli anni 1914-1949.
Ed eccoci alle conclusioni del libro: il giudaismo è una nazione di esiliati, anzi dopo il 70 può esistere solo come “gruppo di esilio e religione di esilio” (p. 332); ciò in conseguenza della scomparsa del tempio. E veniamo ora all’ultima espropriazione compiuta dall’A.: tutti pensano che la diaspora sia una caratteristica del giudaismo? Errato. Infatti la diaspora presuppone un tempio unico, condizione che non può più essere giudaica dopo il 70: gli ebrei, che sono stati in diaspora fino a questa data, saranno d’ora in avanti solo esuli, mentre in diaspora sono i cristiani, poiché hanno il tempio, ossia il tempio del suo (di Cristo) corpo, ed una terra santa che tuttavia non è nazionale. “Se il giudaismo si è costituito come sistema social-dottrinale di esilio, il cristianesimo invece è l’erede social-letterario della diaspora …Si può dire che la qualità e la funzione di diaspora sono fondamentalmente costitutive dell’anima e della forza propulsiva del cristianesimo” (p. 332s). Dello stesso tema l’A. si era occupato nell’articolo Une voie d’approche du fait juif: Diaspora et Galut, apparso nella miscellanea dedicata a H. Cazelles De la Tôrah au Messie, apparsa a Parigi nel 1981 (pp. 369-380). In esso aggiunge che la situazione di galut termina nel 1948: se è così allora emerge anche un altro equivoco, poiché allora il giudaismo o l’ebraismo vengono fatti coincidere con lo Stato d’Israele, come entità politica definita.
Per chi non lo avesse ancora capito giudaismo e cristianesimo non solo sono falsi gemelli, ma forse nemmeno fratelli ed hanno per madre una “realtà ambigua”. Ma chi mai sosterrebbe – precisando che ci si riferisce al giudaismo rabbinico – che si tratti di gemelli, tanto più monozigoti? Chi non è in grado di cogliere la profonda diversificazione che ne ha caratterizzato la nascita e lo sviluppo? Chi vuole sostenerne l’identità? Dunque la perorazione di Paul a difesa della differenza mi pare del tutto superflua. Sarebbe utile e, comunque, innocua se in realtà non nascondesse la tesi che il cristianesimo non ha nulla a che spartire non dico con il giudaismo rabbinico, ma con il giudaismo antico che per l’A. inizia con il postesilio quasi seicento anni prima di Cristo. Del cristianesimo tutto è originale e cristiano, nulla mutuato da quello che più correttamente potremmo definire giudaismo del secondo tempio: la Bibbia è solo cristiana, così come l’apocalittica, la diaspora, il tempio-corpo. Gli ebrei di qualche valore sono quelli che sostanzialmente rinunciano non alla loro dottrina (poiché il giudaismo non ha una dottrina!) ma alla loro ideologia e al concetto di nazione (ma nel senso di stato o in quello spirituale di nazione santa?), si aprono, si “convertono” all’ellenismo, traducono la Bibbia in greco, si integrano bene nella sapienza internazionale dell’epoca ellenistica, presentando Mosè come fonte di una sapienza autonoma, senza l’eteronomia della rivelazione del Sinai.
Paul continua ancora oggi quello che è stato il tentativo che giudaismo rabbinico e cristianesimo hanno fatto per secoli fin dalla loro nascita, ossia “diseredare l’altro e negare un legame di consanguineità divenuto ben presto per entrambi scomodo e imbarazzante. Ma una scomunica reciproca non può cancellare la realtà di una origine comune… fra i molti giudaismi possibili, il cristianesimo è semplicemente uno di quelli che si sono realizzati” (Boccaccini, Il medio giudaismo, cit., p. 38). Dal punto di vista storico rabbinismo e cristianesimo sono entrambi due sviluppi coerenti del giudaismo antico, ciascuno dei quali si pone al tempo stesso in continuità e in discontinuità con la tradizione; “L’interrogativo su quale dei due sia lo sviluppo più autentico (vale a dire il vero Israele) appartiene alla polemica confessionale” (ibid., p. 39). Ed è proprio in questa che Paul impegna le sue forze, mascherandosi da storico. Si sperava che oggi tutto ciò fosse un dato acquisito e la bimillenaria polemica superata, ma così non è. Sembra che ancora una volta la via scelta dal “migliore” dei falsi gemelli per affermare la propria peculiarità sia quella del disprezzo dell’altro, fatto che, da parte del cristianesimo, si concretizza in una sorta di damnatio memoriae delle proprie radici giudaiche.
Infine alcune osservazioni sul testo dell’edizione italiana (e dell’originale). Mi pare preferibile “giudaicità” a giudaità che compare alcune volte alle pp. 165 e 289. Nelle note di pp. 171-183 (e altrove) per ben cinquanta volte si cita di seguito La guerra giudaica, tr. it., ecc.: non si poteva alleggerire l’apparato con l’usuale Ibid.? Riguardo alla trascrizione ebraica una nota editoriale avverte che nell’edizione italiana ci si attiene in genere a quella adottata nella Piccola enciclopedia dell’ebraismo di J. Maier e P. Schäfer [Stuttgart 1981, ediz. italiana Casale Monferrato 1985]. Non si capisce allora perché spesso venga reso lo shewa quiescente come nei termini Miqera invece di Miqra (p. 42-45 varie volte; ma corretto a p. 15, nota 29), nigeleh-nigelot invece di nigleh-niglot (pp. 26-28 alcune volte). Risulta poi incomprensibile – se non con una lettura errata del testo ebraico non vocalizzato ywnyt – la resa due volte di “sapienza greca” con hokmah yônîtinvece di yewanit (pp. 219-220): pensavo che l’errore potesse dipendere da una resa maldestra del traduttore italiano, ma è puntualmente presente – come quasi tutti gli altri qui segnalati – nell’originale francese (nel caso particolare pp. 193s). Ancora alla p. 47 Torah Mosheh va corretto in Torat Mosheh, nella trascrizione del titolo ebraico a p. 107, in nota b) ha-Hizoniyym va corretto in ha-Hizonim mentre a p. 217 compare “joudaïsme” invece di judaïsme.
2.
La tela delle argomentazioni di Paul si scopre in maniera più palese nella seconda opera in esame, dove le tesi non hanno più paura di svelarsi pienamente in un antiebraismo e un antigiudaismo oramai consci di sé. Perché lezioni paradossali? Perché, spiega Paul, vanno contro la doxa diffusa anche presso la gerarchia cattolica, a cominciare dal cardinal Lustiger arcivescovo di Parigi.
Ma veniamo all’antefatto narrato dallo stesso A. Nel giugno del 1990 Paul scrive un articolo intitolato Les faux jumeaux sulla rivista “Esprit” in relazione ai fatti accaduti a Carpentras, dove un cimitero ebraico era stato gravemente profanato. In esso egli contestava decisamente alcune affermazioni correnti anche fra uomini di chiesa, come quella del menzionato arcivescovo di Parigi secondo il quale “Le Christianisme est un fruit du judaïsme” (p. 14). Che Lustiger pensasse ad una derivazione del cristianesimo dal giudaismo rabbinico? Fatto sta che un prete di Tolosa scrive una lettera a Paul in cui si complimenta per il contributo liberatore delle sue parole, perché “… si finiva col domandarsi se noi [cristiani] non eravamo altro che un semplice fratello bastardo del giudaismo”.
Ecco che allora Paul parte con tutto il suo impegno per dimostrare che, al contrario, il fratello bastardo è il giudaismo, poiché il vero erede dell’antico Israele (o meglio di quello di buono, cioè di proto-cristiano, che in esso era presente) è il cristianesimo, che dunque alla fine è anche il vero giudaismo ed il verus Israel. La tesi soggiacente è che essi non solo sono gemelli falsi, ma che in realtà non lo sono affatto: al massimo potranno essere considerati fratelli, come Caino e Abele, dove il cristianesimo è al tempo stesso primogenito e vittima. Infatti – precisa Paul – il cristianesimo è “anteriore al giudaismo: il giudaismo, non i giudei”. E prosegue: “È questo il paradosso centrale di queste ‘lezioni paradossali’. L’insegnamento banalizzato della gerarchia cattolica e la coscienza dei cristiani in generale sono largamente nella linea di queste dichiarazioni dell’attuale arcivescovo di Parigi” (p. 15). Sullo stesso piano è parimenti contestata con decisione l’affermazione del comitato episcopale per le relazioni col giudaismo secondo la quale “Dal popolo ebraico noi abbiamo ereditato la memoria”. È fin troppo chiaro che tali affermazioni si riferiscono alla radice ebraica del cristianesimo, costituita dall’Israele biblico e dal giudaismo fino all’epoca di Gesù; Paul, negando la verità di tale assioma in primis in relazione al giudaismo rabbinico, di fatto ne estende la portata anche al giudaismo prerabbinico.
Il volume è sostanzialmente diviso in due parti dedicate rispettivamente al “primo nato dei falsi gemelli”, il cristianesimo, e alla sua pre-istoria o proto-storia, e al secondogenito, che non solo non ha la primogenitura e il diritto all’eredità, ma ha radicalmente deviato da quello che di più autentico, cioè di proto-cristiano, era presente nella matrice veterotestamentaria, condannandosi inesorabilmente alla condizione di figlio bastardo, diseredato, esule e peregrino come Caino il fratricida. La tesi di fondo ripercorre quelle già esaminate: non è, come ogni studioso reputa, il cristianesimo che si sviluppa come una delle tendenze particolari presenti nel giudaismo degli ultimi secoli prima dell’èra volgare e quindi rispecchia in sé la sua radice ebraica, ma, al contrario, esso è la meta ultima, la tappa definitiva di uno sviluppo che proietta la sua impronta sul passato, sulla stessa religione dell’antico Israele e del postesilio, qualificando gli elementi di continuità come proto-cristiani. Mentre la logica dice che senza la religione dell’Israele biblico e il giudaismo del secondo tempio non ci sarebbe stato il cristianesimo, qui l’affermazione viene esattamente rovesciata: senza il cristianesimo, non ci sarebbe stato un proto-cristianesimo, ossia il giudaismo più in linea con il successivo sviluppo cristiano di cui esso conteneva le premesse.
C’è dunque un passaggio dall’implicito all’esplicito: “i risultati di questo passaggio sono acquisiti una volta per tutte: l’èra cristiana è, come tale, definitiva ed essa è anche, a suo modo, l’ultima” (p. 17). L’A. afferma che “la comparsa del cristianesimo nella storia è anteriore a quella del giudaismo” (p. 19) evidentemente rabbinico. Ciò si basa sul fatto che egli considera come data di nascita del giudaismo rabbinico il 200 d.C., data della redazione definitiva della Mishnah ad opera di Yehudah ha-Nasi. Ma oggi gli studiosi – in particolare Neusner per la letteratura rabbinica, Charlesworth per gli apocrifi e Sacchi per l’apocalittica – hanno mostrato come il medio giudaismo, ossia quello che va dal III sec. a.C. al II d.C., sia un insieme di sistemi ideologici in tensione fra loro, una pluralità frammentaria di gruppi, movimenti e tradizioni in rapporto dialettico, e che tra questi in particolare il cristianesimo e il rabbinismo ebbero un lungo periodo di formazione all’inizio del quale non erano neppure nettamente e consapevolamente distinti fra loro: solo a partire dal II sec. della nostra èra essi si configurarono come sistemi chiaramente distinti, prima non essendo stati che due tra i molti giudaismi allora esistenti, come osserva a ragione Boccaccini (Il medio giudaismo, cit., p. 35). Essi nascono e trovano la loro identità distinguendosi reciprocamente, e di conseguenza la loro nascita è sostanzialmente contemporanea. Se poi si accetta la tesi – oggi peraltro da alcuni contestata – che il rabbinismo è lo sviluppo della linea farisaica, allora i farisei sono contemporanei se non anteriori a Gesù.
Nella parte dedicata al cristianesimo, il primo nato dei falsi gemelli, Paul riafferma che l’apocalittica è proto-cristiana, poiché, citando Käsemann, essa è divenuta la madre di tutta la teologia cristiana (p. 25). Dunque – l’avevamo già visto – egli compie una appropriazione cristiana dell’apocalittica, il che è diverso dal rilevare che in essa, come in realtà è, sono presenti elementi di continuità e di affinità con quella forma particolare di apocalittica che è il cristianesimo. Per l’A. dalla società del secondo tempio uscirà l’embrione e il programma della struttura cristiana: “Là collocheremo la matrice e la gestazione del nuovo sistema, sempre vivo, che si chiama cristianesimo e che precederà nella storia il suo falso gemello” (ibid.,). Così lo sviluppo della concezione del tempio celeste presente in I Enoc “è significare, simbolicamente ma anche nell’insieme dei dati concreti della storia … l’avvenimento irresistibile di un ordine nuovo, proto-cristiano prima e cristiano poi” (p. 29). Così pure per Paul l’instaurazione polemica (ossia anti-rabbinica) della Scrittura celeste, delle tavole ispirate dallo scriba celeste, della legge ispirata a Mosè trasfigurato, presenti in I Enoc, nei Giubilei e nei Testamenti dei dodici patriarchi, costituiscono un processo di vera e propria anticipazione del cristianesimo: “Noi possiamo senza riserve denominare proto-cristianesimo questo largo processo di interpretazione e poi di trasformazione che vide progressivamente e irresistibilmente levarsi l’asse della verticalità, della trascendenza e anche della mediazione”. Anche il Testamento di Giobbe è da considerarsi per l’A. un testo proto-cristiano, che mostra una maturità proto-cristiana in quanto l’eredità dell’uomo da terrena diviene celeste. Lo schema di argomentazione in cui Paul si muove gli permette di dedicare anche un excursus a “Il proto-cristianesimo culturale di Erode il grande“.
Cristianesimo e giudaismo rabbinico (ma Paul omette sempre questa fondamentale precisazione) sono nella sua visione due figli che uccidono il padre o, semplicemente, lo negano. Infatti, prima della loro nascita non c’era un giudaismo antico e medio con le sue variegate tendenze, ma solo le due anticipazioni dei fratelli: “Allo stesso modo in cui prima del cristianesimo si trova un vasto e vigoroso proto-cristianesimo, prima del giudaismo si trova parallelamente un proto-giudaismo. Ma la simmetria è solo apparente. Infatti, prima del giudaismo c’erano certo dei giudei, giudei proto-cristiani così come giudei proto-giudei; ma prima del cristianesimo di cristiani non ce n’erano affatto” (p. 97), mentre, corollario ovvio, prima del rabbinismo di rabbi ce n’erano e come! Che prima del cristianesimo di cristiani non ce ne fossero è la sola affermazione sensata; che cosa sia un giudeo proto-giudeo sarebbe difficilissimo da capire se non avessimo scoperto che vuol dire già rabbino.
E veniamo alla nascita del secondo falso gemello, collocata alla fine del II secolo della nostra èra. Il suo battesimo o, meglio, il suo peccato originale si consuma mediante la rottura che la Mishnah compie con la Scrittura, come l’A. spiega con queste parole: “All’opposto del proto-cristianesimo e poi del cristianesimo, … l’ermeneutica o l’interpretazione come tale non ha spazio nella bella casa che è la Mishnah. Si può dire anche che c’è incompatibilità tra il sistema che rappresenta la Scrittura e il sistema che rappresenta la Mishnah. Questo determinò profondamente il giudaismo a non essere affatto biblico” (p. 120), riducendosi all’edificazione di un’utopia culturale che ignora la salvezza. Del resto nella stessa pagina Paul scrive queste testuali parole: “Fino alla fine del XVIII° sec., la Bibbia e le tradizioni bibliche … ebbero poco credito presso gli ebrei”. Dunque niente Bibbia nel giudaismo rabbinico e niente salvezza, ma al massimo mera santificazione! Sicuramente niente salvezza intesa in senso cristiano come operata dalla morte e resurrezione di Gesù che rende il battezzato creatura nuova e gli toglie il peccato originale. Ma se fosse presente un altro concetto di salvezza come frutto dell’osservanza dei precetti, in continuità con quella che Sacchi chiama l’antica teologia del patto? No! per Paul è pura utopia culturale dove non c’è neppure posto per la fede poiché “La fede, sia in senso oggettivo come soggettivo, non è che cristiana: essa non saprebbe essere una cosa ebraica” (p. 133).
Come già aveva usato i concetti di centripeto e centrifugo per qualificare rispettivamente giudaismo e cristianesimo, ora Paul introduce quelli di orizzontalità e verticalità: evidentemente il giudaismo, come era grettamente incentrato su se stesso cioè centripeto, ora sarà anche orizzontale, più preoccupato degli uomini che di Dio. Ciò sarebbe dimostrato dalla reinvenzione della Torah come duplice, ossia scritta e orale: “Questa trasformazione non è affatto quella della verticalità propria, come abbiamo visto, del proto-cristianesimo e soprattutto del cristianesimo. Essa riposa al contrario su ciò che potremmo chiamare l’orizzontalità rabbinica” (p. 128). Mi pare che l’affermazione risulti semplicemente ridicola.
Abbiamo già visto nell’esame del primo libro l’uso che l’A. fa dei concetti di diaspora e galut come categorie per definire l’essenza dei falsi gemelli. La diaspora, che caratterizzò il giudaismo fino al 70, è intrinsecamente conversione culturale come seppero fare gli ebrei di Alessandria, in un equilibrio dialettico tra cultura locale (ellenismo) e cultura di riferimento (giudaismo). Ma dopo questa data tale condizione non può più essere giudaica e passa al cristianesimo. La nuova categoria che definisce il giudaismo fino alla fondazione dello Stato d’Israele è il concetto di esilio. Esso configura una condizione che, contrariamente alla spinta centrifuga del cristianesimo, è fortemente centripeta e centralizzata attorno all’autorità rabbinica centrale. Del papato e dei concilii, del magistero e del ruolo della gerarchia nessuna menzione! Gli ebrei in galut si organizzano in comunità o kahal. Con gli interventi del concilio Laterano IV nel 1215 – prosegue Paul – e la bolla di Paolo IV Cum nimis absurdum del 1555 al kahal si sostituisce il ghetto, istituzione che così viene da lui commentata: “Per quanto doloroso possa essere stato per gli ebrei e per quanto intollerabile sembri la discriminazione che esso significava, il ghetto fu tuttavia utile al mantenimento del kahal” (p. 144s). Ora, benché questa tesi sia accolta anche da alcuni storici ebrei, non può essere accettata in senso assoluto, senza riserve e senza una valutazione più articolata. Innanzitutto la storia non si può fare con i se: se non ci fosse stato il ghetto, le comunità ebraiche sarebbero scomparse. Ciò si potrebbe affermare se, laddove non vi fu il ghetto, le comunità si fossero effettivamente disgregate. Se il giudizio storico di Paul può avere in parte un qualche valore per situazioni in cui gli ebrei, come in Italia, rischiavano una certa assimilazione, non è valido per altre regioni. Anche per l’Italia ho detto in parte, poiché ci furono nella Penisola città come Pisa e Livorno dove non ci fu mai il ghetto e dove ugualmente gli ebrei mantennero un forte senso di identità in grandi comunità, passate alla storia per il loro splendore culturale. In altri casi, in città sede di grandi e importanti comunità come Modena, il ghetto fu eretto nel 1638 quasi cent’anni dopo la bolla papale, senza che per questo nei decenni precedenti il kahal si disgregasse. Il ghetto inoltre non fu un istituto generalizzato in tutta Europa; anzi in molte regioni orientali non fu applicato, eppure gli ebrei in esse residenti mantennero forse nella maniera più forte la loro coesione e una solida identità culturale che lo sterminio nazista avrebbe quasi completamente distrutto quattro secoli più tardi.
Per Paul il sionismo, pronto a espandersi in un imperialismo mondiale, è un istinto indelebile di ogni ebreo: “La prima mèta attesa dagli … ebrei era di conquistare il controllo della Palestina e, da essa, di diventare padroni di tutto il mondo abitato” (p. 172); e, quanto al sionismo, “Anche se politicamente ostile allo Stato nazionale d’Israele, ogni ebreo è inconsciamente o malgrado se stesso sionista. Anche se convertito al cristianesimo e da qualsiasi luogo egli provenga, ogni ebreo è un marrano che ignora se stesso” (p. 191): la tesi evoca in maniera diretta la teoria della limpieza de sangre di sventurata memoria propugnata dall’inquisizione spagnola.
Concludendo le sue disinvolte carrellate storiche da Davide a Camp David (ma almeno il nome dice continuità!), Paul asserisce che tra la fine del sec. XVIII e il XIX l’illuminismo ebraico o haskalah costituisce la destabilizzazione o, meglio, la fine dell’èra giudaica. Quello che i padri della Chiesa dei primi secoli si aspettavano come prossimo, ossia la scomparsa del popolo deicida, ha dovuto aspettare diversi secoli, ma si è infine compiuto! Dopo ci sarà solo un post-giudaismo – immaginiamo noi in parallelo con il proto-giudaismo – cioè dei semplici juifs che hanno perso sia il judaïsme sia la judéité (p. 98).
D’altra parte, a conclusione delle sue Leçons davvero paradoxales, perché non accetterebbero mai la doxa dell’attuale successore di Pietro, che nella visita alla sinagoga di Roma nell’aprile del 1986 ha definito gli ebrei fratelli maggiori, nè tanto meno quanto afferma la dichiarazione conciliare Nostra aetate, al n. 4 sui rapporti del cristianesimo con la religione ebraica, Paul ritiene che l’eroe ancestrale eponimo della nazione giudaica in diaspora sia Caino, destinato a vagare con la sua maledizione a causa del fratricidio: se si pensa ad Abele come l’innocente ucciso tipo di Cristo, l’accusa di deicidio è presto ristabilita, anche se poi si dice che Davide è il fondatore politico del primo stato e Mosè il fondatore della religione. Del resto la conferma ci viene dallo stesso A. che afferma: “Io non ho paura di dire che è insito nel destino degli ebrei di uccidere o di essere uccisi. (…) Io sottolineerei quanto la figura che guida storicamente ed irresistibilmente gli ebrei, quella che significa e annuncia la risposta necessaria della storia è certamente quella di Caino” (p. 196s). La conseguenza logica che ne deriva sembra dunque essere la seguente: uccidiamoli o loro uccideranno noi, difendiamoci dall’assassino! Allora la secolare persecuzione contro i figli di Caino, culminata nella soluzione finale e nella Shoah, altro non sarebbe che la risposta necessaria della storia all’irrefrenabile istinto omicida che cova nel subconscio giudaico ed è tragicamente “insito nel destino degli ebrei”. Fra tante altre, la vicenda di “San Simonino” di Trento – che alla luce di siffatte affermazioni potrebbe rischiare di ripetersi – insegni!
Al contrario la figura ancestrale eponima del cristianesimo è Isacco, figlio della promessa, figlio di Abramo, veramente sacrificato, da cui dipende la posterità tutta. Ai poveri ebrei non resta più nemmeno un po’ di Abramo: che sia opportuno dare una lezione paradossale anche a Gesù che nel Vangelo di Giovanni afferma la salvezza viene dai giudei? o a Paolo che nella Lettera ai Romani parla dell’ammissione dei gentili alla salvezza mediante il loro innesto, quali rami selvatici, sul tronco dell’olivo buono che è Israele? Peraltro il concatenamento storico non ha più per Paul un gran valore poiché “per il cristiano, a differenza dell’ebreo, la genealogia è spezzata e spezzata due volte: una per la nascita a-genealogica di Gesù (il puntiglioso concatenamento delle genealogie dei Sinottici che si snoda con ritmo martellante è allora probabilmente superfluo!), l’altra per la morte del secondo figlio della promessa, dichiaratosi figlio di Dio” (p. 202).
Alla fine di questa defatigante rassegna delle tesi elencate, rileggendo le righe che precedono, mi è venuto da chiedermi se valesse la pena di occuparsene, e forte è stata la tentazione di rispondere di no. Ma poiché forse ad alcuni lettori, meno attenti o meno addentro all’argomento, potrebbero sfuggire alcune delle implicazioni contenute nei due volumi presi in esame, ho pensato che ne valesse la pena.
Post scriptum
Avevo terminato di scrivere queste pagine quando Carmine di Sante del SIDIC di Roma mi ha segnalato una nota assai più breve relativa al secondo volume da me esaminato intitolata Vers une théologie révisionniste antijudaïque? A propos d’un ouvrage récent apparsa a firma di Menahem R. Macina in “Service international de documentation judéo-chrétienne”, vol. XXVI – N. 3 (1993), pp. 29-32. Oltre ad alcune recensioni, l’A. vi segnala la netta denuncia delle tesi di Paul compiuta da Jean-Miguel Garrigues nella sua recensione delle Leçons paradoxales apparsa in “Nouvelle Revue Théologique” 115 (1993), pp. 356-365 con il titolo Juifs et chrétiens: identité et difference. Réflexions sur les thèses de M. A. Paul; ad essa è seguita una replica di Paul Nouveau plaidoyer pour les “faux jumeaux”. Réponse au R.P. Jean-Miguel Garrigues, Ibid., pp. 730-741.
Mauro Perani
Pubblicato in “Rivista Biblica” (it.) 44 (1996), pp. 455-473 con il titolo: Giudaismo e cristianesimo “falsi gemelli”: saggio di antiebraismo teologico e di polemica confessionale antigiudaica. A proposito di due libri recenti di André Paul, CONTRO IL RISORGENTE ANTIGIUDAISMO TEOLOGICO.