Incontri, gli studi di storia e letteratura, l’antifascismo, le condanne. Per la prima volta il figlio Carlo racconta Leone, a cento anni dalla nascita
Dino Messina
Le leggi razziali gli apparvero una ferita all’ eredità risorgimentale cui si sentiva fortemente legato. Prima di morire, ucciso dalle SS, confidò: non odio i tedeschi. Sognava un continente diverso
BOLOGNA – «Mi terrò lontano dall’ ambito del privato». Con questa precisa indicazione comincia la prima intervista che Carlo Ginzburg, uno dei maggiori storici italiani, il più noto in campo internazionale, abbia mai dedicato a suo padre Leone. Figura cruciale dell’ antifascismo e della cultura italiana fra le due guerre, uno di quei personaggi che hanno avuto una vita breve e intensa, come Piero Gobetti (che non conobbe) e Giaime Pintor, che invece incontrò nei primi anni Quaranta, Leone Ginzburg nacque a Odessa il 4 aprile 1909 e morì il 5 febbraio 1944 nell’ infermeria del carcere romano di Regina Coeli, in seguito alle percosse subite durante gli interrogatori da parte dei nazisti.
Trasferitosi a Torino con la famiglia, superò gli esami di ammissione al liceo Massimo D’ Azeglio e continuò il brillante percorso di studi con ragazzi che si chiamavano Norberto Bobbio, compagno di classe e coetaneo, Cesare Pavese, di un anno più grande, che lo avrebbe considerato come il suo migliore amico, Massimo Mila, Giorgio Agosti, Vittorio Foa, Carlo Dionisotti, Giulio Einaudi, col quale avrebbe dato un impulso decisivo alla costruzione della casa editrice. Un gruppo in cui svolgeva una funzione di maestro e guida spirituale Augusto Monti. «Monti – dice Carlo Ginzburg – commentava il Breviario di estetica di Benedetto Croce, che per quei ragazzi fu la via verso l’ antifascismo». Come ha notato Norberto Bobbio nella introduzione agli Scritti di Leone Ginzburg editi nel 1964 (poi ristampati nel 2000 con un’ importante prefazione di Luisa Mangoni), «l’ adesione a Croce ci faceva sentire estranei alle convenzioni». La precocità intellettuale, politica e persino morale di Leone è sottolineata in questo saggio di Bobbio: «La sua sicurezza era frutto non soltanto di una cultura più ampia e più solida, ma anche di una consapevolezza del proprio compito». In giovanissima età tradusse Taras Bul’ ba di Nikolaj Gogol, Anna Karenina di Lev Tolstoj e cominciò a pubblicare saggi sulla letteratura russa.
Si laureò con una tesi su Guy de Maupassant e incontrò Carlo Rosselli esule a Parigi. Ma prima del 1931, anno in cui ottenne la cittadinanza italiana, non volle impegnarsi nella cospirazione antifascista. «Fu Vittorio Foa – ricorda Carlo – a segnalarmi l’ importanza di questo punto. Leone Ginzburg non era venuto in Italia per caso. Il suo padre naturale era un ebreo italiano, e da bambino aveva vissuto alcuni anni a Viareggio. Ma la decisione di diventare italiano fu fondamentale nella costruzione della sua personalità intellettuale e politica. Aveva un legame fortissimo con la tradizione risorgimentale, come Vittorio Foa, che ne parla ripetutamente nelle lettere dal carcere. Quando era a Pizzoli, il paese vicino all’ Aquila dove era stato internato dopo lo scoppio della guerra, lavorava a una raccolta di scritti sul Risorgimento, di cui è rimasto il saggio incompiuto La tradizione del Risorgimento. Immagino che anche mio padre, come Vittorio Foa, abbia reagito all’ ignominia delle leggi razziali come a una cesura rispetto alla tradizione risorgimentale». L’ attenzione al Risorgimento andava di pari passo con gli studi sulla letteratura italiana dell’ Ottocento: curò l’ edizione dei Canti di Leopardi per la collana Scrittori d’ Italia di Laterza fondata da Croce. Nel periodo di internamento passato a Pizzoli stava raccogliendo materiale per un libro su Manzoni, che è andato perduto quando, dopo il 25 luglio 1943, lasciò Pizzoli per andare a Roma, dove durante l’ occupazione tedesca diresse l’ edizione clandestina dell’ Italia Libera, giornale del Partito d’ Azione. Gli studi sull’ Ottocento italiano s’ intrecciavano con quelli sull’ Ottocento russo: così nacquero l’ accostamento tra Puskin e Manzoni e il saggio Garibaldi e Herzen. La scelta di essere italiano venne rinnovata quando, dopo le leggi razziali, gli arrivò dagli Stati Uniti, credo attraverso Max Ascoli e la fondazione Rockefeller, l’ offerta di espatriare. Lui rifiutò, disse che il suo posto era qui»
Di quel periodo a Pizzoli Carlo Ginzburg conserva una foto, appesa di fianco a una delle librerie della grande casa bolognese, che lo ritrae bambino di due anni, con una matita in mano, in braccio al padre. Sul retro c’ è un messaggio di Leone al filologo Santorre Debenedetti, che in quel periodo (come risulta dalle Lettere dal confino curate da Luisa Mangoni) era il direttore occulto, per via dei divieti razziali, della raccolta di classici Einaudi. A Pizzoli Leone era stato raggiunto dalla moglie Natalia, la scrittrice da cui ebbe tre figli. «Leone, la sua passione vera era la politica – scrive Natalia in Lessico famigliare -. Tuttavia aveva, oltre a questa vocazione essenziale, altre appassionate vocazioni, la poesia, la filologia e la storia». Quale di queste vocazioni era la più forte? «Il letterato e lo storico erano molto intrecciati. Resta il problema di capire se la vocazione politica fosse imposta dalle circostanze, dall’ esigenza morale di contrapporsi al fascismo, o se fosse qualcosa di originario. Per rispondere a questa domanda di nuovo mi viene in mente Vittorio Foa e quel che mi disse una volta parlandomi di Piero Gobetti. “A differenza di Gobetti tuo padre era un filologo”, mi disse. Questa vocazione alla filologia non emerse subito, ma negli anni, anche grazie al decisivo incontro con Santorre Debenedetti, che dopo Croce, con cui mio padre ebbe un rapporto intenso e diretto, divenne il suo secondo maestro. Forse “il maestro”. La vocazione di filologo in qualche modo definisce un atteggiamento che si può trovare sia negli studi sulla letteratura sia in quelli di storia, e forse, paradossalmente, anche nell’ azione politica. Mi spiego: qui non penso alla filologia in senso tecnico ma alla filologia in senso ampio di cui parla Giambattista Vico (qui tra i libri di mio padre conservo una copia dell’ edizione 1744 della Scienza nuova): un abito mentale che consente di ascoltare e interpretare la voce degli altri, del passato ma anche dei contemporanei, senza prevaricare. Mi è parso di ritrovare questo atteggiamento anche nello scritto politico del 1932, Viatico ai nuovi fascisti, di cui parlò Carlo Dionisotti (lo ricorda Giorgio Panizza nell’ introduzione agli Scritti sul fascismo e sulla Resistenza di Dionisotti). A proposito delle iscrizioni forzate al Partito nazionale fascista dei dipendenti pubblici mio padre scriveva: “Le settecentomila persone, che sentono come un marchio quest’ iscrizione forzata (al Partito nazionale fascista, ndr) hanno modo di non dare al fascismo che il guadagno del prezzo annuale della tessera. Dinanzi alla loro vendetta, Mussolini si avvedrà di quel che significhi ridurre la gente per bene alla vergogna e alla disperazione”. Era un discorso duro e generoso: io non faccio le vostre scelte ma non le condanno moralisticamente; esse però non devono diventare un alibi per una vita di compromessi».
Nel 1934 Leone Ginzburg avrebbe lasciato il posto di libero docente di letteratura russa rifiutando di prestare giuramento al fascismo. Nel novembre di quell’ anno sarebbe stato arrestato, accusato di cospirazione antifascista e condannato a quattro anni (ne scontò due nel carcere di Civitavecchia). Il rigore filologico e la capacità di guida intellettuale di Leone Ginzburg si vedono soprattutto nella collaborazione alla neonata Einaudi: «Gli studi di Luisa Mangoni hanno dimostrato inequivocabilmente ciò che lo stesso Giulio Einaudi riconobbe più volte: mio padre, uscito di prigione nel 1936, diede un’ impronta decisiva alla casa editrice con la creazione di collane come la Biblioteca di cultura storica, i Narratori stranieri tradotti, i Saggi, la Nuova raccolta di classici italiani annotati. La severità dell’ atteggiamento filologico di mio padre traspare anche nella critica alle straordinarie traduzioni che Giaime Pintor aveva fatto delle poesie di Rainer Maria Rilke». Giaime sarebbe morto il 1° dicembre 1943 nel tentativo di attraversare sul Volturno le linee naziste e unirsi alla Resistenza romana. Leone era stato catturato il 20 novembre nella tipografia dell’ Italia Libera. Diede il falso nome di Leonida Gianturco, ma fu riconosciuto, perché schedato come antifascista, e consegnato ai nazisti. «Sandro Pertini – ricorda Carlo – ha scritto nella sua autobiografia Sei condanne e due evasioni che mio padre, che aveva incontrato sanguinante dopo l’ ultimo interrogatorio, gli disse “che non bisognerà, in avvenire, avere odio per i tedeschi”. Perché questa frase? Io mi sono dato due spiegazioni. La prima rinvia alle sue convinzioni politiche: nella costruzione di una federazione europea la Germania avrebbe naturalmente avuto un posto importante. La seconda rinvia a un imperativo di genere diverso: la necessità di distinguere tra tedeschi e nazisti. Anche in quel momento, penso, imponeva a se stesso il distacco critico di cui parla nell’ ultima lettera scritta a mia madre, poi raccolta nel volume Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana. Dal carcere scriveva: “Una delle cose che più mi addolora è la facilità con cui le persone intorno a me (e qualche volta io stesso) perdono il gusto dei problemi generali dinanzi al pericolo personale”».
Copyright – Il Corriere della Sera – 1/05/2009