Un tentativo di dare peso maggiore alla comunità ebraica in un Paese in cui il passato pesa ancora come un macigno.
Laura Lucchini
BERLINO – Più di sessant’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale e le sinagoghe di Berlino così come i centri di cultura ebraica sono controllati dalla polizia giorno e notte per il rischio di attentati o anche solo atti vandalici, da parte dei neonazi o del terrorismo di matrice islamica. È uno scenario che sembra lasciare poco spazio all’ottimismo, eppure, “al giorno d’oggi la comunità ebraica che cresce più velocemente al mondo è quella tedesca”, assicura lo scrittore e giornalista Rafael Seligmann. Per questa ragione, questo intellettuale che fu tra i primi scrittori ebrei attivi in tedesco dopo la Shoah, ha fondato “The Jewish Voice from Germany”, il primo giornale ebraico in inglese da Berlino.
Alcuni numeri: Fino al 1989, anno della caduta del muro, gli ebrei in Germania erano solo 30.000, di cui la maggior parte erano sopravvissuti ai campi di concentramento e il loro ruolo nella società era troppo spesso limitato alla partecipazione ad atti commemorativi del genocidio. Il grande cambiamento avvenne nel 1990, quando arrivarono in tanti dall’ex Urss. Al giorno d’oggi circa 100.000 ebrei sono iscritti a le comunità religiose locali, mentre sono 200.000 in generale i cittadini di origini ebraiche, 20.000 di loro provengono direttamente da Israele. Prima della seconda guerra mondiale erano 600.000. In nessun altro luogo al mondo la comunità ebraica è aumentata così velocemente come qui.
La volontà di documentare questo rinascimento, e in particolare di farlo conoscere al di fuori dei confini della Germania ha spinto Seligmann a fondare, da casa sua, una pubblicazione che si regge su uno staff di otto giornalisti e tre corrispondenti a Roma, Tel Aviv e New York, oltre che all’incirca 150.000 lettori sparsi tra Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Israele e Germania. Si dirige in particolare a “divulgatori e leader di opinione ebrei e non, tra politici, mezzi di comunicazione, istituzioni accademiche e centri di cultura ebraica”. Uscirà in versione cartacea quattro volte all’anno e sarà aggiornata on line (jewish-voice-from-germany.de) ogni settimana, con articoli di giornalisti e accademici ebrei e non.
Una sola nota in tedesco, sulla pagina web della rivista spiega “Warum?”, cioè il perché di questa pubblicazione. “Torna ad esserci vita ebraica in Germania per il fatto che il legame con questo paese è indissolubile”, scrive la redazione, “però manca un ponte tra la comunità tedesca e le più importanti comunità ebraiche nel mondo: Nord America, Israele e Gran Bretagna, dove vive il 90% degli ebrei nell’attualità”. C’è bisogno cioè di “un organo regolare in inglese che informa su ciò che succede nell’area di lingua tedesca”.
“Ho un sogno”, scrive Seligmann nel suo primo editoriale, “è la rinascita della vita ebraica in Germania. Albert Einstein, Thomas Mann, lo storico Theodor Mommsen e il pittore Max Libermann erano simboli di una fioritura unica delle arti, della cultura e dell’economia. Era importante cosa si faceva e non in cosa si credeva”. Dopo che la fine della vita della comunità ebraica in Germania fu decretata da Leo Baeck dopo la Shoah, oggi, personaggi come il direttore d’orchestra Daniel Baremboin testimoniano la rinascita, secondo lo scrittore.
Tutti gli articoli hanno volutamente un forte taglio di opinione. Nel primo numero, la storia di apertura è firmata da Heribert Prantl, capo redattore di interni del giornale di centro sinistra Süddeutsche Zeitung, non ebreo, ed è un articolo in cui si chiede la proibizione del partito neonazista NPD in Germania. Lo stesso Seligmann firma un saggio breve in cui chiede a Israele il riconoscimento dello stato Palestinese. Altri articoli parlano della crisi dell’Euro, delle ambizioni nucleari dell’Iran e del crescente numero di israeliani, soprattutto giovani, che si trasferiscono a Berlino.
Nonostante tutto, Seligmann ha riconosciuto, in varie interviste comparse in questi giorni sui media tedeschi, che il peso politico della sua comunità in Germania è praticamente nullo, e la discriminazione, in particolare nell’est dove è tanto forte l’NPD da riuscire ad accedere ai parlamenti regionali, si fa ancora sentire. Daniel Alter, il primo rabbino ordinato in Germania dopo l’Olocausto circa quattro anni fa, aveva raccontato a Reuters che portava sempre un berretto da baseball sopra la kippah quando camminava per strada. E ancora, pochi mesi fa, alle elezioni di Berlino, Udo Voigt, dell’NPD ha fatto campagna con cartelloni che lo ritraevano su una moto e la frase “Gas geben”, cioè “dare gas” con una doppia allusione all’acceleratore della moto (che poco e niente centra con le elezioni) e, ovviamente, alle camere a gas.
Per tutte queste ragioni, il giornale, che pur parte da una spinta ottimista, ospita opinioni che lasciano poco spazio alla speranza, come quella dello storico Moshe Zimmermann che scrive: “Solo pochi ebrei in Germania si considerano oggi ebrei-tedeschi. (…) La maggior parte sono immigrati dall’Europa dell’Est: ebrei, ma non tedeschi. La prognosi è chiara ma frustrante: non ci sarà nessuna rinascita di ebrei tedeschi”.
I giovani ebrei che si trasferiscono a Berlino oggi hanno storie come quelle della regista Yael Reuveny, 31 anni, che si è trasferita sei anni fa in Germania per girare il suo Tales of the Defeated e ci è rimasta a vivere. Il film documentario tratta della storia che ha diviso la sua famiglia: sua nonna è emigrata a Israele dopo la seconda guerra mondiale, il fratello di lei si è cambiato nome, ha rinunciato alla fede, ed è rimasto nella Germania comunista. “In Israele c’è stato per anni una specie di boicottaggio nei confronti della Germania: non si viaggiava qui e si tendeva a non comprare prodotti tedeschi. Quando mi sono trasferita, nel 2006, era ancora un tema, e c’erano persone che chiedevano ‘cosa ci vai a fare?’”, racconta a Linkiesta. La situazione però è cambiata radicalmente negli ultimi anni secondo Reuveny, “per esempio durante l’ultima coppa del mondo, c’era una specie di moda nell’ambiente hipster in Israele di tifare Germania”, racconta.
Il successo relativo del partito neonazista non la spaventa. Crede, anzi, che da questo punto di vista la Germania sia “il paese più sicuro in europa, perché ha affrontato il suo passato più di altri”. Lo scarso peso politico della comunità ebraica, si deve al fatto che è una comunità ancora molto piccola, secondo questa regista, che lavora ora a un nuovo documentario “Farewell Herr Schwartz”, che è in qualche modo la continuazione del primo film. “Se si presentasse alle elezioni un candidato ebreo non avrebbe problemi ad essere eletto. Credo che sia fuori discussione”, assicura. Eppure ammette di avere qualche dubbio sul suo futuro personale. “Tanto più a lungo rimango, tanto maggiore è la possibilità di formare una famiglia qui. Però sarebbe strano per me avere un figlio tedesco, è una cosa che ancora mi dà da pensare.”
La volontà di documentare questo rinascimento, e in particolare di farlo conoscere al di fuori dei confini della Germania ha spinto Seligmann a fondare, da casa sua, una pubblicazione che si regge su uno staff di otto giornalisti e tre corrispondenti a Roma, Tel Aviv e New York, oltre che all’incirca 150.000 lettori sparsi tra Stati Uniti, Canada, Gran Bretagna, Israele e Germania. Si dirige in particolare a “divulgatori e leader di opinione ebrei e non, tra politici, mezzi di comunicazione, istituzioni accademiche e centri di cultura ebraica”. Uscirà in versione cartacea quattro volte all’anno e sarà aggiornata on line (jewish-voice-from-germany.de) ogni settimana, con articoli di giornalisti e accademici ebrei e non.
Una sola nota in tedesco, sulla pagina web della rivista spiega “Warum?”, cioè il perché di questa pubblicazione. “Torna ad esserci vita ebraica in Germania per il fatto che il legame con questo paese è indissolubile”, scrive la redazione, “però manca un ponte tra la comunità tedesca e le più importanti comunità ebraiche nel mondo: Nord America, Israele e Gran Bretagna, dove vive il 90% degli ebrei nell’attualità”. C’è bisogno cioè di “un organo regolare in inglese che informa su ciò che succede nell’area di lingua tedesca”.
“Ho un sogno”, scrive Seligmann nel suo primo editoriale, “è la rinascita della vita ebraica in Germania. Albert Einstein, Thomas Mann, lo storico Theodor Mommsen e il pittore Max Libermann erano simboli di una fioritura unica delle arti, della cultura e dell’economia. Era importante cosa si faceva e non in cosa si credeva”. Dopo che la fine della vita della comunità ebraica in Germania fu decretata da Leo Baeck dopo la Shoah, oggi, personaggi come il direttore d’orchestra Daniel Baremboin testimoniano la rinascita, secondo lo scrittore.
Tutti gli articoli hanno volutamente un forte taglio di opinione. Nel primo numero, la storia di apertura è firmata da Heribert Prantl, capo redattore di interni del giornale di centro sinistra Süddeutsche Zeitung, non ebreo, ed è un articolo in cui si chiede la proibizione del partito neonazista NPD in Germania. Lo stesso Seligmann firma un saggio breve in cui chiede a Israele il riconoscimento dello stato Palestinese. Altri articoli parlano della crisi dell’Euro, delle ambizioni nucleari dell’Iran e del crescente numero di israeliani, soprattutto giovani, che si trasferiscono a Berlino.
Nonostante tutto, Seligmann ha riconosciuto, in varie interviste comparse in questi giorni sui media tedeschi, che il peso politico della sua comunità in Germania è praticamente nullo, e la discriminazione, in particolare nell’est dove è tanto forte l’NPD da riuscire ad accedere ai parlamenti regionali, si fa ancora sentire. Daniel Alter, il primo rabbino ordinato in Germania dopo l’Olocausto circa quattro anni fa, aveva raccontato a Reuters che portava sempre un berretto da baseball sopra la kippah quando camminava per strada. E ancora, pochi mesi fa, alle elezioni di Berlino, Udo Voigt, dell’NPD ha fatto campagna con cartelloni che lo ritraevano su una moto e la frase “Gas geben”, cioè “dare gas” con una doppia allusione all’acceleratore della moto (che poco e niente centra con le elezioni) e, ovviamente, alle camere a gas.
Per tutte queste ragioni, il giornale, che pur parte da una spinta ottimista, ospita opinioni che lasciano poco spazio alla speranza, come quella dello storico Moshe Zimmermann che scrive: “Solo pochi ebrei in Germania si considerano oggi ebrei-tedeschi. (…) La maggior parte sono immigrati dall’Europa dell’Est: ebrei, ma non tedeschi. La prognosi è chiara ma frustrante: non ci sarà nessuna rinascita di ebrei tedeschi”.
I giovani ebrei che si trasferiscono a Berlino oggi hanno storie come quelle della regista Yael Reuveny, 31 anni, che si è trasferita sei anni fa in Germania per girare il suo Tales of the Defeated e ci è rimasta a vivere. Il film documentario tratta della storia che ha diviso la sua famiglia: sua nonna è emigrata a Israele dopo la seconda guerra mondiale, il fratello di lei si è cambiato nome, ha rinunciato alla fede, ed è rimasto nella Germania comunista. “In Israele c’è stato per anni una specie di boicottaggio nei confronti della Germania: non si viaggiava qui e si tendeva a non comprare prodotti tedeschi. Quando mi sono trasferita, nel 2006, era ancora un tema, e c’erano persone che chiedevano ‘cosa ci vai a fare?’”, racconta a Linkiesta. La situazione però è cambiata radicalmente negli ultimi anni secondo Reuveny, “per esempio durante l’ultima coppa del mondo, c’era una specie di moda nell’ambiente hipster in Israele di tifare Germania”, racconta.
Il successo relativo del partito neonazista non la spaventa. Crede, anzi, che da questo punto di vista la Germania sia “il paese più sicuro in europa, perché ha affrontato il suo passato più di altri”. Lo scarso peso politico della comunità ebraica, si deve al fatto che è una comunità ancora molto piccola, secondo questa regista, che lavora ora a un nuovo documentario “Farewell Herr Schwartz”, che è in qualche modo la continuazione del primo film. “Se si presentasse alle elezioni un candidato ebreo non avrebbe problemi ad essere eletto. Credo che sia fuori discussione”, assicura. Eppure ammette di avere qualche dubbio sul suo futuro personale. “Tanto più a lungo rimango, tanto maggiore è la possibilità di formare una famiglia qui. Però sarebbe strano per me avere un figlio tedesco, è una cosa che ancora mi dà da pensare.”