Ugo Volli
Come è noto, storia nel linguaggio della Torah si dice “generazioni”, toledot, e spesso ci imbattiamo in elenchi di generazioni (o dei loro “nomi”, shemot), il cui destino è tipicamente definito nella forma verbale di questa loro denominazione. Accade anche, come abbiamo visto nella parashà letta ieri, che questi destini siano definiti più esplicitamente da un atto profetico che benedice o in altri casi maledice, spesso usando ancora la paraetimologia della forma linguistica come guida del senso.
Dato che popoli e città sono identificati coi loro fondatori, vi è dunque in questa concezione una continuità fra vicende familiari e storie politiche. Il limite è soprattutto quantitativo: una famiglia diventa un popolo quando si estende e si suddivide, come avviene nella discendenza di Jaakov, includendo elementi diversi – il che non era accaduto nelle generazioni precedenti, da cui la diversità era stata consapevolmente espulsa.
Ogni popolo è comunque considerato da questo pensiero innanzitutto una discendenza, la cui condizione deriva da quella degli antenati. Ciò è particolarmente evidente nel nostro caso, essendo gli ebrei chiamati per tutta la Torah chiamati spesso “bené Israel”, figli di Israele: non una metafora ma un riconoscimento di paternità. Del resto noi ancora preghiamo, non solo a Kippur, ma tutti i giorni, proprio invocando il merito dei Patriarchi come argomento a nostro favore. Questo modo di pensare non identifica semplicisticamente una comunità genetica – una “razza” – perché si tratta di un clan allargato, che può includere “stranieri” (gherim), considerati a loro volta come discendenti dei padri eponimi, a patto che vi si identifichino.
Il popolo/discendenza contiene anche diversità, conflitti, possibili scissioni ed è suscettibile di perdite. Non è “organico” e votato all’unanimità, al contrario è litigioso e dispersivo. E’ a rischio costante di annullarsi, di perdere la sua identità, per l’azione delle altre culture o per le divisioni interne. Ma finché dura si definisce per la continuità consapevolmente conservata, per il filo ininterrotto dei riferimenti all’anteriorità che intesse le narrazioni storiche, in cui il passato spesso anticipa e spiega il presente e ogni generazione si assume il compito di conservare la memoria delle precedenti – dunque della sua storia e della sua origine.
Vi è sul fondo della nostra identità un legame fra ascendenza e condizione politica, che si estende molto spesso anche al rapporto con la trascendenza: per esempio quando la stessa teofania del roveto, che farà ripartire il ciclo della storia ebraica, si presenterà innanzitutto a Mosé come la Divinità “dei tuoi padri”. Perché la discendenza diventi popolo vero e proprio e sia chiamato dalla Torah così sarà necessario l’elemento in più dell’autocoscienza, dell’assunzione (almeno da parte di un leader) di se stessi come un soggetto politico collettivo, con un’origine (i patriarchi) uno scopo preciso (la terra) e un patto fondativo con la divinità.
Questa teologia politica non è sostanzialmente mutata e determina ancora la nostra vicenda. Fino a che abbiamo una storia come Israele, portiamo il nome di Jaakov e siamo definiti dalle sue generazioni e dal suo progetto, pur attraverso tutte le trasformazioni storiche e culturali. Ogni volta che attiviamo la memoria sociale delle nostre “generazioni”, dei pensieri e delle vicissitudini che costituiscono la nostra storia, ogni volta che ripercorriamo un rito direttamente o anche solo leggendone la descrizione (come avviene per la birkat kohanim o per il rito di Kippur), ritessiamo questo filo di continuità, che ci lega col passato, unisce le diverse comunità in cui ilo popolo si è disperso e oggi congiunge soprattutto ogni ebreo consapevole con lo stato di Israele.
Chiunque tenti di depotenziare o “universalizzare” questa autocoscienza, in un’etica per tutti (kath’olos, cattolica o comunista), o più debolmente nel senso postmoderno della “società liquida”, magari travestita da “accoglienza etica dell’altro”, o infine da società laica e neutra, indifferente rispetto a un ambito che sarebbe separato della “religione”, definita modernamente come una semplice fede privata – costui propone in sostanza di cancellare questo vincolo e sostituirlo con altre e incompatibili concezioni della storia e dell’identità – in sostanza propone un progetto di assimilazione e cancellazione della nostra specificità storica – cioè delle generazioni.
Dalla newsletter L’Unione Informa