Una risposta a rav Giuseppe Laras (Corriere della sera, 13 gennaio) e al priore Enzo Bianchi (La Stampa, 18 gennaio) sul pericolo, da parte cristiana, di una lettura a senso unico delle Scritture
Un articolo di rav Giuseppe Laras pubblicato sul Corriere della Sera del 13 gennaio 2015, puntuale con l’urgenza dei tempi, ha richiamato ad un impegno condivisibile tra ebrei e cristiani: “Riportare la Bibbia a fondamento della cultura e dell’etica”; precisando: “Tuttavia senza il reale riferimento positivo e non ambiguo a Israele non sarà né autentico né produttivo il dialogo tra ebrei e cristiani”. Il riferimento, peraltro generico, a “Israele”, è stato ripreso e precisato il 18 gennaio dal priore Enzo Bianchi, che ha replicato a rav Laras su La Stampa, con alcune considerazioni che meritano attenzione. Bianchi parla di “un tema bruciante e sul quale non pare esserci comprensione; il tema della terra e dello Stato di Israele”. Premette: “Secondo le Scritture del Nuovo Testamento c’è un Israele di Dio, che sono gli ebrei in alleanza con Dio, ma non tutto Israele è l’Israele di Dio, è discendenza di Abramo”. E aggiunge: “È certo che spontaneamente la chiesa di sente legata agli ebrei credenti…ma non identifica questa alleanza …con una dimensione etnica, culturale o politica. Noi cristiani che non abbiamo più terra né patria perché ogni terra straniera è per noi patria…, essendo cittadini del mondo in grado di fare scelte politiche, possiamo volere o non volere lo Stato di Israele, ma teologicamente non abbiamo parole in merito…la mia fede non mi autorizza ad ipotizzare uno Stato d’Israele”
Effettivamente da queste parole emerge l’incomprensione. L’incomprensione di chi, come cristiano, non avrebbe “più terra né patria”, ma che ha sempre avuto terre e patrie, definite cristiane e talora cristianissime, nei confronti di chi – il popolo d’Israele – la terra ce l’aveva, promessa, ma l’ha perduta per millenni, senza tuttavia dimenticare il suo rapporto con essa. A molti cristiani, in quanto cristiani, è stato e viene ancora contestato il diritto di residenza nelle loro terre (persino oggi, nell’indifferenza della maggioranza dei loro fratelli), e ancora di più il diritto di dominio sul loro territorio; ma questo non serve a educare a un rapporto diverso con gli ebrei, ai quali, molto più radicalmente, viene spesso contestato sia il diritto di insediamento in altre terre che quello di ritorno nella propria, per non parlare del diritto di indipendenza.
Lo Stato d’Israele è una struttura politica, ma prima dello Stato c’è “il tema della terra”, che Bianchi cita ma poi non affronta; e il rapporto del popolo d’Israele (anche di chi non è credente) con la terra è qualcosa di ben diverso che precede e sovrasta la politica. La storia ha diverse chiavi di lettura. Parlando in termini laici, con laici non credenti, non ha senso parlare di promesse divine; un interlocutore laico può prendere atto della fede altrui, come forte movente della sua azione storica, ma non la considera causa sufficiente e giustificazione valida. Ma per chi ha fede il discorso è ben diverso. Ci sono le Scritture che possono essere interpretate e reinterpretate, ma non se ne può fare a meno. Dal discorso di Bianchi riemerge la posizione, ben radicata nella storia della sua fede, di una lettura a senso unico delle Scritture. Siccome noi le leggiamo così, fa capire l’autore, il resto non ha senso. Potete essere, voi ebrei (e neppure tutti, solo quelli credenti) nostri fratelli gemelli, ma le categorie interpretative delle Scritture che valgono sono solo quelle nostre. Se il cristiano non ha terra (forse), il rapporto ebraico con una terra (quella terra) non conta teologicamente. Eppure si tratta di un tema fondamentale nelle Scritture (per non parlare della fede successiva). Abramo viene mandato via dal suo luogo di origine non verso un posto qualsiasi, ma verso la terra che verrà promessa ai suoi discendenti. Dimenticare questo significa dimenticare le storie dei Patriarchi, il senso dell’Esodo, la conquista della terra, l’annuncio dell’Esilio e il ritorno dall’Esilio, e poi – nel seguito della storia ebraica – il costante legame di fede e di preghiera verso la terra che venne sottratta. Chi ha una fede che dice di fondarsi sulle Scritture non può dire che tutto questo non ha senso teologico; e non parlo ancora dello Stato, ma del recente ritorno di milioni di ebrei nella terra e la sua rifioritura. Può dargli tutte le interpretazioni che vuole, ma se non lo fa significa che “ha occhi ma non vedono, ha orecchie ma non sentono”. Non si può leggere la Bibbia facendo finta che pagine intere non esistano o non abbiano senso. O che una tradizione religiosa successiva di millenni sia senza significato. Come Bianchi non capisce il rapporto di Israele con la terra d’Israele, così noi non riusciamo a capire (o meglio, troppo bene la comprendiamo…) questa sua ostinata negazione di matrice cristiana (sarebbe meglio dire cattolica) di un elemento fondamentale della fede di Israele, basato sulle Scritture, che pure sono testi che dovremmo condividere.
L’incomprensione di Bianchi è in realtà espressione attuale e drammatica di quello che lui chiama e interpreta come “il grande originario scisma” tra ebrei e cristiani “a partire dalle stesse Scritture interpretate in modo diverso”. Stupisce un po’ questa sua semplificazione della storia (ma soprattutto della sua fede), in linea con correnti di pensiero attuale, come se si trattasse dello scisma tra Occidente e Oriente o tra la Chiesa di Roma e quella di Lutero. La rivoluzione cristiana in realtà sconvolge l’essenza dell’Israele originario, affermandosi contemporaneamente al disfacimento della sua unità territoriale intorno a un centro religioso, il Tempio di Gerusalemme. I cristiani costruirono i loro mondi su basi differenti e sostitutive, ma gli ebrei, privati del legame originario, non vi hanno mai rinunciato. Per i cristiani era la punizione che gli spettava per non avere accettato Gesù. Oggi, dopo la Shoah, ogni onesto cristiano si astiene dal dichiarare che la dispersione degli ebrei nel mondo, e la loro sofferenza conseguente, è la pena per la loro colpa originaria, ma fa fatica a interpretare il ritorno ebraico a Sion come qualcosa di teologicamente significativo. Costerebbe troppa fatica teologica, significherebbe mettere in discussione categorie millenarie. Allora ci si rifugia nel rifiuto teologico della politica, che sarebbe forse una scelta valida se fosse coerente. E chissà se lo è, se non riguarda solo lo Stato d’Israele. E poi non si può ignorare che alla base di questa opposizione c’è anche la radicalmente diversa comprensione della messianità, che è comunque sinonimo di regalità e che con tutte le varianti possibili del pensiero ebraico non può essere distinta da una dimensione politica, quale che essa sia. La messianità cristiana è ben differente, ma non può ignorare l’altra faccia della realtà. Se veramente c’è un rapporto tra fratelli gemelli (ma chi è Esaù e chi Giacobbe?) bisognerebbe capirlo meglio questo strano fratello. Il riferimento positivo a Israele, di cui parla rav Laras, comporta la messa in discussione di un’intera tradizione teologica tesa a umiliare e sottomettere, se non proprio eliminare il diverso, l’antico fratello. C’è stato un grande progresso su tanti aspetti di questo rapporto, ma la terra rimane uno scoglio. Eppure il chiarimento e la svolta su questo tema è una necessità teologica, che va chiarita spogliandosi di ostilità ancestrali e senza timore di mettere in discussione la propria fede.
Non ha senso invocare la fratellanza, anche gemellare, con Israele, se non si comprendono e si rispettano le sue basi identitarie, come popolo e non solo fede astratta, per cui tutto Israele è Israele ed è legato a Dio anche se forse non ci crede, ed è legato spiritualmente e materialmente a una terra, anche se ne è lontano.
Se non si accettano queste premesse non stupisce l’invito finale di Bianchi: “occorre restare sempre vigilanti per non giudaizzare da parte dei cristiani”. Invito allarmante, se non meglio chiarito. Cosa dovrebbero fare i cristiani per non giudaizzare? Eliminare dalla loro liturgia i Salmi di Davide, il “Santo, Santo, Santo”, o la Pasqua e la Pentecoste, o il calice del vino, o i Dieci Comandamenti, o il rito del battesimo, o le ore della preghiera scandite dai tempi dei sacrifici nel Tempio di Gerusalemme, o la recente attenzione per la ricchezza dell’esegesi rabbinica? O ci sono cose che vanno bene perché “ebraiche” e altre no perché “giudaiche”? I cristiani non possono togliersi di dosso l’ebraismo/giudaismo senza pregiudicare la loro natura, né ignorare o non dare senso a quanto succede oggi al popolo d’Israele, smettendo di interrogare la loro fede.
*Rabbino capo di Roma
L’Unione Informa del 29.1.2015