Giorgio Berruto
Cento anni fa, la sera del 21 novembre 1916, dopo sessantotto anni di regno ininterrotto, moriva nel castello di Schönbrunn Francesco Giuseppe. Un mondo è finito, crollato un ordine, le porte si aprono al caos. Quel mondo era l’Impero degli Asburgo ed era il suo sovrano, Francesco Giuseppe, a propria volta un po’ come “certe stelle, che si vedono ancora benché non esistano più da migliaia di anni”, come scriverà Musil nell’Uomo senza qualità. Un re e un Impero che si fondono in una figura unica, quella della favola, del mito. “Non una semplice trasfigurazione del reale ma la sua completa sostituzione”, ha scritto Claudio Magris, “la sua deformazione”. Perché questo è un mito che soverchia la realtà, la relega ai margini, la sostituisce appunto. Il mito è letterario, è culturale, ma è tanto forte da imporsi ai fatti della storia, non da ultimo è una risposta alle filosofie della storia monistiche, semplicistiche e in definitiva insufficienti, come alcune di quelle che nel corso del Novecento si sono richiamate alla riflessione di Marx. Questo è un mito che svelle i paletti che segnano frontiere nuove e troppo umane, ignora il cambiamento, lo vince immobilizzando l’istante. Qui Francesco Giuseppe è la chiave di volta che tiene insieme le nazioni che compongono l’Impero, una pietra però – questo il senso della frase di Musil, piccola perla in una delle cattedrali del mito stesso – già frantumata molto prima del 21 novembre 1916. Oppure è una chiave perfettamente intatta ma ormai inutile: tutte le serrature sono state sostituite. L’eccezionalità di questo mito rispetto ad altri non è che prosegua dopo la morte dell’imperatore e la fine dell’Impero, ma che nasca prima, colorando gli ultimi decenni del dominio asburgico con una forte tinta di decadenza, di malessere impossibile da vincere, di sentimento della fine inevitabile, sempre più inevitabile tanto più a lungo si protrae. Paradigma del potere dell’estetica.
Francesco Giuseppe, come l’Impero, vive nel passato e nello spazio immobile del trascendente. È vecchissimo: nella Marcia di Radetzky di Roth confonde tre diverse generazioni di Trotta, è incapace di riconoscere se ha di fronte colui che tanti anni prima lo ha salvato sul campo di Solferino oppure il figlio o il nipote. È l’istituzione, l’Impero senza tempo con cui si relazionano le persone, gli esseri umani che, diversamente da lui, provano sentimenti, che nascono, vivono, muoiono. Francesco Giuseppe non agisce, non cambia, esile e marmoreo insieme si fa garante di qualcosa, ma è sempre meno chiaro di che cosa. Perché lo spazio in cui presenzia, immobile, la sua figura ieratica – spazio scoperto in Italia a partire dal Mito asburgico di Claudio Magris – non è quello della storia. Non solo, della storia è rovesciamento esatto, negazione radicale. È l’illusione dell’armonia, dell’equilibrio di un mondo imbalsamato, sospeso, che termina proprio con l’irruzione della storia: perché, idealmente, l’imperatore non muore nel suo letto a Schönbrunn ma, proprio negli stessi giorni, sulle trincee insanguinate di Verdun.
È illuminante un passo del Frutto del fuoco in cui, all’altezza del 1926, Canetti descrive il suo professore di chimica Hermann Frei. “Quando verrà il mio imperatore, mi trascinerò in ginocchio fino a Schönbrunn!”, esclama il professore a dieci anni dalla morte di Francesco Giuseppe. Continua Canetti: “Mi chiedevo a chi pensasse, quando diceva ‘il mio imperatore’: al giovane Karl, del quale nessuno sapeva immaginare che tipo fosse, o proprio all’imperatore Francesco Giuseppe, redivivo?
Tra Ottocento e Novecento il fiore della cultura danubiana si fa portatrice del mito e contribuisce alla sua cristallizzazione, con un’opera che prosegue e si accentua dopo il crollo politico dell’ideale imperialregio, ma che era in atto già da decenni. Questa cultura della decadenza non solo vede il contributo e la partecipazione di numerosi ebrei ma, soprattutto, fatto propri alcuni aspetti centrali della tradizione ebraica. Come il sole imperiale è sempre quello, malinconico, del tramonto, così l’ordine di Francesco Giuseppe è copia, anche se pallida, della legge ebraica in esilio. È la ripetizione di un rituale, farmaco contro l’oblio, ed è un primo elemento intensamente ebraico. La sacralità della cerimonia, la liturgia del rito non si ergono ad argine contro la fine, intuita con fatalità ben prima che si verifichi ed evasa ancora a lungo dopo la disgregazione. Al contrario, vedono la fine e la estendono a coprire elasticamente il paesaggio di decenni in un istante senza tempo.
Francesco Giuseppe, in particolare nei romanzi di Roth, è una figura lirica e mitologica, esprime epica solitudine, impotenza, saggezza. Come i violinisti fluttuanti nell’aria nelle tele di Chagall, anche il garante dell’ordine imperiale è portato dal vento. Un fantasma, un’idea rassegnata che non si muove per volontà propria e sa bene che la sua sopravvivenza dipende dal vento stesso. La sua cifra è l’attesa.
L’impero degli Asburgo, inoltre, è fondato su un ideale superiore, la sovranazionalità, che non può reggere all’urto della storia – degli Stati nazionali, delle mitragliatrici della Grande Guerra. Francesco Giuseppe, come Ciro il Grande venticinque secoli prima, si rivolge “ai miei popoli”, una formula che non ha tempo. Ma di fronte all’incedere della storia il destino è scritto. La via di fuga è allora non già la lotta contro la storia, ma l’uscita da essa, nella regione inattaccabile del mito. Ecco dunque, ancora con Roth, il turbinio magico e agghiacciante di Fuga senza fine e della Milleduesima notte. Perso è il santuario nello spazio, rimane quello nel tempo; davanti alle rovine di un mondo distrutto dalla storia resta il sentimento di un impossibile ritorno. Una piccola costellazione di elementi tipicamente ebraici.
E poi i protagonisti. Schnitzler scandaglia l’instabilità dei valori e la loro dissoluzione. Hofmannsthal, di fronte al presagio ossessivo della fine imminente e inevitabile, tenta di salvare frammenti di un mondo che non c’è già più – ancora con Musil, astro ancora visibile, ma spento da secoli – e sceglie l’evasione dalla realtà. Kraus vede con lucidità la crisi e l’ipocrisia che la circonda, e impugnando la fiaccola della negazione si fa fustigatore della Vienna “stazione meteorologica della fine del mondo”, una capitale ormai senza Impero. Il raffinato Zweig colleziona fotografie del “mondo di ieri” mentre Werfel rimpiange l’ecumene asburgica quando ormai nazionalismi e odio antisemita si diffondono a macchia d’olio in Europa. E naturalmente Joseph Roth, il più grande tra i costruttori del mito, e i tanti personaggi ebrei che popolano i suoi libri. Piccoli ebrei orientali: i cittadini per eccellenza dell’Impero di Francesco Giuseppe.
Della dissoluzione babelica dell’Impero asburgico dà una rappresentazione anche Franz Theodor Csokor con il dramma 3 novembre 1918, scritto nel 1936. Al funerale del colonnello – ancora una volta immagine per il funerale di Francesco Giuseppe e dell’Impero – gli ufficiali ungheresi, sloveni, cechi, polacchi e italiani gettano ciascuno una manciata di terra a nome della propria piccola, nuovissima Patria. L’unico che getta la sua alle parole “terra dell’Austria” è il dottor Grün, ebreo: l’unico a rimanere asburgico dopo gli Asburgo. L’orfano dell’Impero smembrato, e suo erede, l’unico che ha perso un Paese senza per questo averne ottenuto un altro.
http://www.hakeillah.com/5_16_18.htm
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