La bioetica dei trapianti – Febbraio 2003
Lo scopo di questo intervento è di presentare una testimonianza ebraica su alcuni problemi specifici di bioetica. essendo questa l’unica occasione, nell’ambito del corso organizzato dall’ordine dei medici di Roma e provincia, di parlare dal punto di vista ebraico, sono necessarie alcune premesse generali. In un paese come l’Italia, che ha una sua particolare tradizione culturale e una netta maggioranza, almeno formale, che si collega alla religione cattolica, il dibattito sulle questioni di bioetica si riduce molto spesso all’esposizione del pensiero della Chiesa cattolica, e alle sue possibili opposizioni con l’etica definita laica.
Il ruolo di altre realtà culturali e religiose è praticamente ignorato o sottovalutato. Per quanto riguarda l’Ebraismo, cioè determinato soprattutto dalla scarsa rilevanza numerica della presenza ebraica in Italia. Ma in una società pluralistica non è ammissibile che opinioni potenzialmente diverse siano ignorate, solo in quanto minoritarie, mentre proprio su questioni essenziali per la convivenza civile e la dignità dell’uomo, come quelle che si dibattono in bioetica, è necessario tener conto della diversità, che è uno stimolo alla comprensione e all’arricchimento dei valori, per arrivare a soluzioni comuni di rispetto e promozione.
Gli organizzatori del corso dell’ordine dei medici, invitandomi ad esporre un punto di vista ebraico, hanno manifestato sensibilità per questo aspetto, e meritano un particolare ringraziamento.
L’Ebraismo fonda la sua cultura sulla Bibbia ebraica (l’Antico Testamento) e sulla tradizione dell’insegnamento dei rabbini, i maestri interpreti della scrittura. L’Antico Testamento, non va dimenticato, è anche la radice sacra dalla quale attinge la sua fede il Cristianesimo. Nell’Ebraismo il rapporto con l’insegnamento biblico e con quello rabbinico, che ne sviluppa in una interrotta continuità le premesse, è radicale e fondamentale. Tutti i problemi etici, e in particolare quelli bioetici, vengono affrontati sistematicamente a confronto con la tradizione precedente, cui viene riconosciuta un’origine sacra e un’autorità indiscussa.
Per quanto riguarda i problemi etici nuovi, che si pongono ogni giorno parallelamente allo sviluppo delle tecnologie, la loro soluzione spetta ai rabbini; ma nell’Ebraismo manca ormai da molti secoli un’autorità centrale, che sia in grado di imporre a tutti una soluzione unitaria; per cui può accadere che su determinate questioni particolari e nuove vengano espresse sentenze e opinioni differenti, ciascuna delle quali si giustifica per l’autorità e la competenza di chi l’ha formulata e per il rigore del ragionamento giuridico che la sostiene.
Dopo queste premesse, ecco alcune indicazioni di massima sui problemi in discussione. Per quanto riguarda l’eutanasia e la bioetica degli stadi terminali, non esistono indicazioni chiare e specifiche su questi punti nella Bibbia, ma da questa vengono comunque tratte le basi per il ragionamento successivo della tradizione.
Un caso notevole è quello della morte del re Saul, narrata al cap. 31 di 1 Samuele, e al cap. 1 di 2 Samuele. Saul muore durante una battaglia contro i filistei; accerchiato dai nemici, vede profilarsi la sconfitta, e temendo di cadere prigioniero ed essere esposto a sofferenze intollerabili, chiede allo scudiero di togliergli la vita; lo scudiero si rifiuta, e allora Saul si trafigge da sé con la sua spada. Ma questo non basta a farlo morire, e allora il re in agonia si rivolge a un giovane amalecita, chiedendogli di finirlo.
L’amalecita uccide Saul, e lo va a raccontare a David, rivale di Saul e futuro re; ma David, ascoltato il racconto, condanna l’amalecita. L’episodio è troppo complesso perché se ne possano derivare indicazioni univoche; ma emergono alcune linee tendenziali, che saranno sottolineate dalla tradizione successiva. Il tentato suicidio commesso da Saul potrebbe essere un atto illecito, ma diventa comprensibile e giustificabile per le circostanze; ciò che un uomo fa su di sé, o chiede che gli venga fatto per la realtà o il timore di sofferenze non è punibile; l’uomo che soffre non è pienamente responsabile delle sue azioni. D’altra parte non è consentito aderire alla richiesta suicida del re; lo scudiero si rifiuta, e l’amalecita che lo fa viene per questo punito.
Più in generale, aldilà di questo episodio, la bibbia prescrive di non uccidere e impone a chiunque il sacro rispetto della vita umana. La tradizione rabbinica sviluppa questo principio affermando che nessuno è padrone, e può liberamente decidere non solo della vita altrui, ma anche della propria. E ciò vale anche quando si tratta di un malato terminale o gravemente sofferente.
Il timore è quello della relativizzazione del concetto di santità della vita, e dell’apertura di una breccia che possa progressivamente allargarsi.
Se si diminuisce il valore della vita di un uomo perché questi sta per morire, la vita dell’uomo in generale perde il suo valore assoluto e diventa relativa. (I. Jakobovitz, Jewish Medical Ethics, p. 152 dell’ediz. ebraica, Jerusalem 1966).
Di qui la regola: è proibito ogni atto che possa accelerare la morte di un agonizzante, a nessuno è concesso il diritto di procurare la morte anche se si tratta di un processo irreversibile e imminente, e anche se per i medici non c’è più alcuna speranza di vita, e anche se e’ il malato stesso a richiederlo. Il medico non deve agire direttamente in questo senso, né deve consigliare al malato i modi per togliersi la vita da solo.
Nel conflitto di interessi tra tutela della santità della vita e l’esigenza legittima di liberare dalla sofferenza, quest’ultima non può avere la prevalenza. Questo non significa tuttavia che non sia parimenti doveroso preoccuparsi della dignità del malato e lenire al massimo le sue sofferenze. I farmaci antidolorifici sono permessi, anche se possono affrettare la morte, purché non siano dati proprio per questo scopo.
Più in generale la necessaria durezza di una scelta di principio è in qualche modo mitigata da ulteriori analisi e precisazioni. Se infatti esistono ampi spazi eticamente legittimi per l’esercizio della professione medica, perché è stato dato ai medici il permesso di curare, vi sono anche attività di cura illecite, perché curare non significa prolungare le sofferenze. Di qui l’importante distinzione: così come è proibito accelerare la morte di un individuo, parimenti può essere proibito ritardarla con mezzi artificiali. Le fonti medioevali abbondano di strane casistiche in questo senso: ad esempio il rumore ritmico di uno spaccalegna che entra in risonanza con il battito cardiaco di un agonizzante, o il rumore o il pianto nella stanza dove si trova il malato, se ne prolungano l’agonia, possono essere ridotti al silenzio. In altri termini, appare lecito rimuovere ciò che impedisce la morte, mentre è illecito mettere in atto ciò che direttamente la affretta.
La distinzione è molto sottile e di difficile applicazione, per cui sono molte le precisazioni necessarie su problemi attuali. Un esempio riguarda le varie apparecchiature che tengono artificialmente in vita i pazienti nelle sale di rianimazione; c’è chi suggerisce la possibilità di programmare nell’attività di queste apparecchiature delle pause automatiche, che consentano di verificare l’attività spontanea del malato, e in base a queste decidere se far ripartire l’apparecchio. Si parla ovviamente di malati in situazioni irreversibili e senza speranze, legati per loro sopravvivenza al mezzo meccanico, ma ogni situazione e’ un caso a parte e impone scelte difficili dal punto di vista etico-giuridico e sofferte per tutte le loro implicazioni umane.
La bioetica dei trapianti è un altro tema di questo incontro. L’argomento dei trapianti, per la sua complessità, non può essere affrontato neppure per sommi capi in questo spazio, ma si possono dare alcuni orientamenti su un aspetto particolare, collegato al tema precedente, quello del malato terminale. Per l’ebraismo chi salva una vita umana è come se avesse salvato un mondo intero.
La tutela della vita umana passa al disopra di ogni altra legge. Si può violare qualsiasi altra norma per salvare una vita, ma esiste un limite implicito in questo principio, ed è la tutela di un altra vita. il Talmùd dice: il tuo sangue non è più rosso di quello di un altra persona. La tua vita vale quanto la sua. Si può far tutto per salvare una vita, tranne che sacrificarne un’altra. Ed è questo uno dei problemi bioetici principali in quei trapianti, nei quali l’organo donato è un organo vitale, come nel caso del cuore. L’imperativo di salvare una vita umana, o di migliorare in modo significativo la qualità di un’esistenza, rappresenta in linea di massima la giustificazione etica per l’esecuzione dei trapianti, così come il rispetto della vita altrui ne rappresenta il limite.
In altri termini non è assolutamente lecito sopprimere una vita di una persona per estrarre dal suo corpo un organo da donare. Nel caso del trapianto cardiaco il problema si è posto per la necessità di disporre di un organo funzionante. A che punto dell’agonia di un malato terminale è lecito intervenire per prelevarne l’organo vitale? È una domanda alla quale le legislazioni civili cercano di dare una risposta ben precisa, definendo con la massima cura i criteri per la valutazione della morte cerebrale. Ciò che è successo, in parallelo, nel mondo ebraico rappresenta un evento per molti versi straordinario.
Nel 1968, all’epoca dei primi trapianti cardiaci, le valutazioni di molte autorità rabbiniche furono negative, e vennero formulate contro i chirurghi accuse di duplice omicidio dell’accettore, in quanto sottoposto a una procedura che non gli dava garanzie di sopravvivenza, e del donatore, perché il cuore gli era stato tolto mentre ancora batteva. La prima difficolta si è risolta con il progresso tecnico e il controllo delle reazioni di rigetto; oggi il trapianto cardiaco è considerato una valida misura terapeutica.
Ben più complessa la seconda difficoltà, che implica un dibattito sulla definizione del momento della morte. I primi pronunciamenti rabbinici si erano basati su alcune tradizioni che consideravano come criterio certo di morte la cessazione dell’attività cardiaca, e quindi avevano proibito il trapianto, in quanto l’espianto di un cuore battente si identificava con un omicidio.
Ma il dato dell’efficacia clinica del trapianto, ha imposto una completa revisione delle fonti e degli atteggiamenti conseguenti, con il risultato di un nuovo e più approfondito esame, che ha portato a privilegiare, tra le fonti antiche, le linee giuridiche degli autori che identificavano la morte con la cessazione dell’attività respiratoria e quindi con quella cerebrale.
Di qui un pronunciamento ufficiale del Rabbinato centrale israeliano, del 1986, che ha stabilito i criteri per la definizione di morte in base alla cessazione dell’attività cerebrale, e ha aperto la strada per l’autorizzazione, dal punto di vista della norma ebraica, dei trapianti cardiaci.
Non tutti i rabbini hanno accettato questa posizione, ma il caso è dimostrativo dell’atteggiamento che le autorità rabbiniche, e più in generale il pensiero ebraico, hanno su problematiche di bioetica: una grande attenzione agli sviluppi tecnici e ai loro potenziali benefici per l’uomo, insieme a una prudente vigilanza e a una incessante e talora lacerante riflessione, per la tutela dei principi etici su cui si fonda la tradizione dell’ebraismo e la convivenza civile dell’umanità.