Due ipotesi per un’assenza importante
Dichiariamolo dall’inizio. È difficilissimo trovare in Italia ebrei che almeno una volta l’anno non mettano piede in un tempio. Quindi non stiamo parlando di “ebrei laici” nel senso stretto del termine, anche perché qui l’osservanza stessa dei precetti ebraici nel senso della Halakhà gode della massima varietà.
Difatti il nostro paese può contare fin dal difficile dopoguerra su decine di vivaci istituzioni non strettamente legate al culto o alla tradizione, ma che contribuiscono però in maniera determinante al rafforzamento dell’identità ebraica. Anzi, è proprio questa varietà che assicura che anche ebrei più lontani dai riti religiosi possano trovare il proprio posto in un sistema comunitario ebraico che è “ortodosso” spesso per statuto e sentimento.
Così abbiamo per esempio a Torino una testata giornalistica ebraica indipendente, a Genova un Centro culturale dedicato a Primo Levi, a Venezia e Bologna dei musei ebraici, a Roma un Centro di Cultura ebraica con biblioteca e il “Pitigliani”, un centro comunitario con attività culturali e sociali per tutte le età. A queste “pietre miliari” si aggiungono ovviamente le decine di iniziative culturali locali e nazionali dell’Unione delle Comunità e molte altre ancora a diverso titolo, come diversi festival della Cultura ebraica spesso in collaborazione con gli enti sul territorio.
Chi invece rimane indietro rispetto alla vivacità della cultura ebraica che abbiamo definito “laica”, sembrerebbe proprio Milano. A parte due istituzioni, quella storica del Centro di Documentazione Ebraica e il più recente Memoriale della Shoah, entrambe orientate alla Memoria, la seconda Comunità d’Italia non ha una biblioteca degna di questi nome, non ha alcun centro culturale e soprattutto (a parte la breve parentesi di un Festival originale fatto subito morire), non riesce a organizzare eventi culturali capaci di superare il trafiletto nella cronaca cittadina, nemmeno in occasione della Giornata della Cultura ebraica.
Eppure, se giriamo lo sguardo e consideriamo stavolta gli iscritti più legati alle tradizioni religiose, Milano conta invece numerose e spesso recenti istituzioni. Due scuole che affiancano quella comunitaria, diversi Bet Hamidrash, una biblioteca religiosa molto ricca e soprattutto centinaia di lezioni all’anno sugli argomenti di Torà più disparati e per tutti i pubblici; da quello meno preparato, alla lezione di Talmud forse più ad alto livello in Italia, con un rav che viene apposta da Lione ogni settimana, senza contare cene e eventi sociali in occasione della festività. Dietro a tutto questo, a parte il Rabbinato milanese, ci sono gli onnipresenti Lubavitch, il centro Noam e quello degli ebrei di origine libanese. Milano infine, e non a caso, è anche il centro dell’editoria ebraica religiosa.
Quali possono essere allora le ragioni della debolezza dell’ebraismo laico milanese? Proviamo ad avanzare due ipotesi.
La prima è che questa visione dell’ebraismo proprio a Milano combatta una battaglia identitaria di retroguardia che si fonda principalmente sul tentativo di opporsi culturalmente e più spesso politicamente in Consiglio, alle numerose iniziative più religiose, piuttosto che a proporre qualcosa per il proprio pubblico. E siccome la maggior parte delle iniziative religiose sono di fatto “extra-comunitarie” cioè private, ci si oppone spesso a quelle che nascono sotto la guida di rav Arbib. A volte anche in maniera ossessiva. Budget in ritardo, richiesta di dettagli burocratici spesso insignificanti, estenuanti discussioni che si protraggono per mesi. Per carità tutte schermaglie politiche legittime in democrazia, ma che succedono quando nessun rappresentante delle liste più tradizionaliste perderebbe tempo a situazione inversa. Se solo ci fossero queste situazioni…
Le seconda ipotesi è che l’ebraismo laico milanese soffra nel suo insieme (con notevoli eccezioni) di una lontananza anche dalle conoscenze ebraiche di base. Sembra strano come un pubblico tanto colto e avido consumatore di libri, spettacoli di teatro e concerti non riesca a esprimere, nei dibattiti comunitari e negli articoli sulla stampa, delle conoscenze non per forza di minuzie ritualistiche, ma almeno provenienti da letture di testi fondamentali della tradizione e del pensiero ebraico. Ma l’ebraismo laico non ha mai professato l’ignoranza ebraica! I miscredenti Ben Gurion e Moshè Dayan conoscevano il Tanakh quasi a memoria, per non parlare della forte cultura tradizionale di Bialik, Achad Ha’am fino a Jonathan Safran Foer.
Eppure a Milano, tanti anni fa era stato chiamato a tenere niente meno che una lezione di Talmud, proprio Amos Luzzatto, che della cultura ebraica laica è uno dei rappresentanti più stimati. Ma quanti ebrei laici milanesi hanno frequentato almeno una delle numerose lezioni di Talmud aperte al pubblico?
Se queste due ipotesi fossero confermate, vorrebbe dire che Milano avrebbe un forte bisogno di ritrovare un ebraismo laico impegnato a costruire le istituzioni che le mancano, pensando positivamente più al proprio futuro e meno ai fantasmi del passato. Tutto questo dovrebbe però passare dall’elaborazione della propria visione ebraica a partire dallo studio dei testi comuni a tutti gli ebrei. Perché se no, dell’ “ebraismo laico” resterebbe solo il “laico” e sarebbe tutta un’altra storia.