Nella Parashà di Ekev c’è un collegamento testuale apparentemente enigmatico tra due temi separati nel secondo paragrafo dello Shemà: “State attenti a voi stessi, affinché i vostri cuori non siano sedotti e non vi allontaniate e non serviate altri dei e non vi inchiniate a loro. E l’ira del Signore si accenderà contro di voi, ed Egli tratterrà i cieli e non ci sarà pioggia, e la terra non darà il suo prodotto, e sarete rapidamente banditi dalla buona terra che il Signore vi dà. E metterete queste mie parole nei vostri cuori e nelle vostre anime, e le legherete come un segno alle vostre mani e saranno come frontale tra i vostri occhi. E le insegnerete ai vostri figli affinché ne parlino, quando sarete seduti in casa vostra e mentre camminerete per la via e quando vi coricherete e quando vi alzerete. E le scriverete sugli stipiti della vostra casa e sulle vostre porte. Affinché i vostri giorni e i giorni dei vostri figli siano lunghi sulla terra che il Signore ha promesso ai vostri padri di dare loro, come i giorni del cielo sulla terra“.
Quale collegamento c’è tra la minaccia “sarete rapidamente banditi” dalla terra e le istruzioni che seguono immediatamente: “Porrete queste mie parole sui vostri cuori e sulle vostre anime, e le legherete come un segno alle vostre mani e saranno come frontale tra i vostri occhi…”? Perché il testo apparentemente collega lo studio della Torà e l’esecuzione delle mitzvot all’eventualità dell’esilio? I comandamenti non sono eternamente incombenti sul popolo ebraico, che si trovi nella Terra di Israele o nella diaspora?
Numerosi commentatori, tra cui il Netziv, affrontano questa questione e sostengono che le direttive riguardanti l’osservanza delle mitzvot contenute in questo brano riflettono qualcosa di retroattivo piuttosto che qualcosa che avverrà in futuro. L’obbligo di osservare le mitzvot non deve essere visto come un prodotto dell’esilio, ma come qualcosa che previene dall’esilio. Come si può evitare la seduzione, il peccato, la punizione e l’esilio? D-o chiede retoricamente alla nazione. “E tu porrai queste parole…” Osservando i Miei comandamenti, allungherai i tuoi giorni sulla terra – è la risposta. Basandosi sull’ultima frase, relativa alla promessa di lunga vita sulla terra, apparentemente sconnessa con il testo precedente, il Malbim concorda con il Netziv, sostenendo che questa è la prova che l’obbligo di osservare le mitzvot non deve essere visto come un prodotto dell’esilio, ma come qualcosa che previene l’esilio stesso.
In netto contrasto con questi Chachamim, il Midrash abbraccia la semplice connessione testuale tra l’esilio le mitzvot interpretando il messaggio di D-o come: “Anche se vi esilio, continuate a distinguervi nell’osservare le mitzvot in modo che quando tornerete non vi sembreranno nuove. Questa interpretazione, tuttavia, solleva più problemi di quanti ne risolva. I Chachamim stanno davvero suggerendo che l’esecuzione delle mitzvot in esilio sia propedeutica alla redenzione finale? Questa affermazione va contro la nostra comprensione fondamentale della legge ebraica. Ci sono due categorie di obblighi halachici: Le Mitzvot hateluyot ba’aretz (mitzvot che sono collegate alla terra d’Israele), come le leggi di Shemità (il settimo anno sabbatico) e Yovel (l’anno del Giubileo), e le Mitzvot she’enam teluyot ba’aretz (mitzvot che non sono collegate alla terra di Israele), come mezuza, tefillin, kashrut e lo Shabbat, che incombono sugli ebrei ovunque esso si trovino. Come può quindi il Midrash suggerire che questo secondo gruppo di mitzvot siano osservate solo dagli ebrei in esilio in modo che questi comandamenti “non sembrino nuovi” al loro ritorno nella terra di Israele? Questa affermazione sembra contraddire apertamente la realtà halachica secondo cui queste mitzvot sono vincolanti per tutti gli ebrei, ovunque si trovino.
Rashi accetta questa tesi commentando: “[D-o comanda:] ‘Anche dopo essere stato esiliato continua a distinguerti attraverso l’esecuzione delle mitzvot. Indossa i tefillin, affiggi le mezuzot affinché non siano nuove per te quando tornerai.’ Secondo il Maharal di Praga nel suo commento su questo Rashi, il Midrash può essere compreso meglio restringendo il focus della nostra discussione alle due mitzvot menzionate nel secondo paragrafo dello Shema, le mitzvot di tefillin e mezuza. La Torà collega specificamente tefillin e mezuza alla minaccia dell’esilio perché questi comandamenti possiedono caratteristiche che avrebbero potuto logicamente esentare la comunità ebraica della diaspora dalla loro osservanza.
Sebbene queste mitzvot siano indipendenti dalla terra di Israele e siano quindi certamente obbligatorie, la realtà dell’esilio potrebbe facilmente impedirne la corretta osservanza. La mitzvà della mezuza comporta diritti di proprietà della casa, spesso negati agli ebrei della diaspora. I tefillin devono essere indossati senza distrazioni mentali. “Come è possibile”, chiede il Maharal, “[quando si vive in esilio tra nazioni straniere] non essere distratti quando si indossano i tefillin?” Se queste mitzvot fondamentali fossero cadute in disuso a causa di queste realtà della diaspora, tuttavia, gli ebrei avrebbero perso la capacità di eseguire correttamente questi comandamenti anche al loro ritorno nella terra di Israele. La Torà quindi esorta a fare tutti gli sforzi per superare gli ostacoli ed osservare questi comandamenti anche nella diaspora. Anche se potremmo essere legittimamente esentati da queste mitzvot a causa dell’esilio, D-o ci comanda di trovare il modo di osservarle.
Il Ramban dal canto suo collega l’osservare le mitzvot alla Terra di Israele, sostenendo che tutte le mitzvot adempiute al di fuori della Terra di Israele sono fondamentalmente incomplete. Questa connessione, sostiene il Ramban, è riconosciuta all’alba della storia ebraica dal patriarca Yaakov. La mattina successiva al suo sogno di una scala che si estende dalla terra verso il cielo, mentre si prepara a lasciare la terra di Canaan per la prima volta, Yaakov pronuncia un voto: “Se D-o sarà con me e mi proteggerà su questa strada che percorro, e [se] mi darà pane da mangiare e vestiti da indossare, e [se] tornerò in pace alla casa di mio padre e il Signore sarà il mio D-o, allora questa pietra che ho eretto come pilastro sarà come una casa di D-o; e tutto ciò che Tu mi darai, io Ti restituirò come decima”. Questo voto sembra essere problematico in quanto sembra che Yaakov condizioni la sua fede in D-o al guadagno materiale. Il Ramban, risolve il problema coerentemente con la sua posizione sulla centralità della Terra di Israele. La frase “e il Signore sarà il mio D-o”, sostiene, non è una condizione ma riflette una nuova consapevolezza di Yaakov del risultato sicurero della promessa di D-o di riportarlo nella terra di Israele. Ora, riconosco, dichiara Yaakov, che il Signore sarà pienamente il mio D-o solo al mio ritorno nella Terra di Israele. Io e la mia progenie possiamo essere completi con D-o solo quando siamo lì. Il Ramban accetta quindi il Midrash che collega l’esilio e le mitzvot alla lettera. D-o comanda agli ebrei di osservare mitzvot come tefillin e mezuza in esilio, non solo in adempimento al loro obbligo fondamentale di farlo ovunque si trovino, ma anche in preparazione per un altro momento, il momento della redenzione finale in cui saranno in grado di osservare questi comandamenti nella loro pienezza, al ritorno nella terra di Israele.
Andando oltre l’approccio midrashico, si può offrire un’altra spiegazione, dal punto di vista della retrospettiva storica, per la connessione tracciata nel testo tra i temi dell’esilio e dell’osservare le mitzvot, e da una prospettiva più individuale. A livello storico, dopo secoli di esilio e persecuzioni inimmaginabili, un ebreo oggi può entrare in una comunità ebraica ovunque nel mondo e sentirsi a casa. Le tradizioni possono variare da luogo a luogo, l’atmosfera sarà diversa, ma l’esperienza essenziale sarà familiare e l’accoglienza che riceverà sarà reale. Questo fenomeno è niente meno che miracoloso. Una nazione molto tempo fa liquidata dai suoi nemici come distrutta continua a prosperare dopo che quei nemici non esistono più. A livello individuale, questo ci insegna che anche in tempi bui abbiamo il modo di “accendere la luce”, abbiamo modo di sperare, di non disperare e di restare legati. Le istruzioni per farlo sono proprio nel brano dello Shemà, che viene considerato uno dei passi fondamentali della fede ebraica, e che recitiamo quotidianamente più volte al giorno.