Sulla matrilinearità nell’ebraismo
In un recente numero di Ha Keillah (febb. 2005), nella lettera intitolata “Limpieza de sangre”, Claudio Canarutto ha riproposto il problema della trasmissione matrilineare dell’appartenenza all’ebraismo e ha messo a confronto la visione ortodossa con quella riformata, che sarebbe, a suo dire, più moderna perché considera ebrei anche coloro che abbiano il padre ebreo ma non la madre. Sorvolando sulla sgradevolezza di certe sue espressioni, Canarutto sostiene che il popolo ebraico, rifiutando i figli di solo padre ebreo, si priverebbe “dell’innegabile apporto differenziante e vivificante del sangue” degli altri popoli. La “bella norma rabbinica”, che accetta figli di “mamma ebrea, anche se di padre ignoto o, peggio, stupratore”, è “pericolosamente limitativa”. Canarutto afferma, senza rendersi conto di cadere in contraddizione, che “i nostri Rabbini, che si dichiarano tutti ortodossi, perseguono una impossibile politica di ‘purezza’ e di incontaminazione generazionale”. La conclusione, secondo Canarutto, è che “il razzismo, come sempre, è il nostro peggior nemico, anche, e forse più, quello che alligna tra le nostre fila”. E i razzisti sarebbero, evidentemente, i rabbini ortodossi.
In realtà, mi sembra ovvio che se i figli di madre ebrea e di “padri ignoti, o peggio stupratori”, o – più comunemente – ben noti ma di altro “sangue”, sono considerati ebrei dai rabbini ortodossi, significa che non esiste affatto una presunta politica improntata alla “purezza”. Se veramente ci fosse questa politica, per essere ebrei bisognerebbe avere entrambi i genitori ebrei (non solo la madre) e non sarebbero previste conversioni. È invece noto a tutti che moltissimi fra gli ebrei ortodossi sono convertiti o figli di madre ebrea ma di padre non-ebreo.
Concetti simili a quelli di Canarutto sono espressi nell’intervista a Barbara Aiello, rabbino riformato di Milano, pubblicata nell’ultimo numero di Keshet (genn. 2005), dove la Aiello candidamente afferma: “Noi teniamo più in considerazione il desiderio di vivere in modo ebraico, che non l’eredità del sangue” e “noi non siamo una razza! Non puoi diventare nero o asiatico, ma ebreo sì…”. Tutto ciò è in contrasto, a detta dell’Aiello, con l’ebraismo ortodosso italiano che, soprattutto negli ultimi anni, si sarebbe irrigidito nei confronti delle conversioni. In realtà, tanto tenero non sembra neanche l’ebraismo riformato, se, come dice la stessa Aiello, a coloro che desiderano “vivere in modo ebraico”, “noi [riformati] diamo aiuto in un cammino che è faticoso, impegnativo e non facile” della durata anche di “un anno e mezzo” (corsivo mio). Non si capisce bene perché le (presunte) difficoltà imposte dal rabbinato ortodosso ai candidati alla conversione siano da criticare, mentre quelle dei riformati siano legittime.
A queste argomentazioni, che non brillano per coerenza logica, la redazione di Ha Keillah ha già ben risposto, succintamente, sostenendo che “dire che è ebreo chi ha almeno un genitore ebreo è proprio solo limpieza de sangre” e che la conversione è “un procedimento psicologico, giuridico, sociale, ma per nulla biologico”. Scopo di questo articolo è appunto spiegare perché la matrilinearità nell’ebraismo non ha niente a che vedere con la genetica e con il “sangue” ma è, semmai, una questione di educazione e di cultura, anche se in un senso tutto particolare. Sostenere l’equivalenza dei due genitori nella trasmissione dell’ebraicità è, questo sì, un concetto biologico e, al limite, razzistico, se si volesse usare l’antipatica terminologia che i riformati italiani appiccicano, un po’ spudoratamente, agli ortodossi.
Le fonti bibliche su cui si basa la regola per cui è ebreo chi nasce da madre ebrea (indipendentemente da chi sia il padre) o si converte secondo la procedura prevista dalla halakhà (normativa giuridica ebraica) sono, essenzialmente, il Deuteronomio (cap. 7:3-4 e altrove) e il libro di Ruth (cap. 1). Si ricordi che Ruth, la progenitrice del re David e del futuro Messia, è l’ebrea convertita per eccellenza. Nella Mishnà, che riporta le applicazioni della normativa della Torà tramandate dapprima oralmente e poi messe per iscritto nel II secolo dell’e.v., la regola è indicata nel trattato di Qiddushìn, cap. 3:12. È importante sottolineare che l’opinione di rabbì Aqivà (non recepita dalla halakhà finale) è che, affinché il figlio sia considerato ebreo kasher a tutti gli effetti, entrambi i genitori devono essere ebrei. Questa non è però un’idea razzistica o nazionalistica, dato che rabbì Aqivà era egli stesso figlio di ebrei convertiti. Per lui, quindi, non può certo essere un problema di “sangue”. Analfabeta fino all’età di quarant’anni, Aqivà fu spinto dalla moglie, un’amante della cultura, ad andare a studiare lontano da casa, dove divenne la personalità più notevole e innovativa nello studio della Torà dopo Mosè.
Perché la madre ebrea è preferita rispetto al (solo) padre ebreo? Perché una madre ebrea è sufficiente mentre il padre ebreo no? A questa domanda si possono dare varie risposte (per un’approfondita trattazione, vedi lo studio di rav Riccardo Di Segni, “Il padre assente. La trasmissione matrilineare dell’appartenenza all’ebraismo”, Quaderni storici 70,1989, pp. 143-204). Qui vorrei esporre in particolare la tesi che vede nello stretto legame fra madre e figlio, ben più che in quello intercorrente fra padre e figlio, la base della diversa rilevanza dei due genitori nella trasmissione dell’ebraicità. Il legame con la madre non nasce però dalla consanguineità, bensì dalla gravidanza e dalla nascita, nonché dal rapporto che s’instaura nei primi tempi dopo il parto.
A supporto di questa concezione si possono portare varie prove dalle fonti tradizionali. Mi limito qui a presentarne una dalla halakhà e una dalla aggadà (la componente non-legale del Talmùd). La prima si basa su un caso di attualità, ossia la cosiddetta madre “surrogata” o “in affitto”. È oggi possibile, con le tecniche di procreazione assistita, prelevare l’ovulo da una donna, fecondarlo con il seme di un uomo e impiantarlo nell’utero di un’altra donna. Di chi sarà figlio il bambino? Della madre “genetica” (quella che ha fornito l’ovulo, e quindi i cromosomi) o della donna che ha portato avanti la gravidanza e l’ha poi partorito (madre uterina)? Benché su questa questione ci siano opinioni diverse fra i rabbini contemporanei, l’idea della maggior parte di essi è che la madre giuridica sia quella uterina. Questo significa, fra l’altro, che se la madre genetica non è ebrea, ma lo è quella uterina, il bambino – in virtù del fatto di essere nato da un “ventre ebraico” – sarà, secondo l’opinione di molti decisori, ebreo per nascita, pur avendo i cromosomi (il “sangue”) non ebraici. (Sarebbe interessante sapere come è la halakhà riformata su questo problema.
La prova aggadica deriva dall’episodio della nascita di Dina, figlia di Giacobbe e di Lea (Genesi 30:21). Il midrash amplia il racconto biblico e spiega che sia Lea sia la sorella Rachele erano incinte contemporaneamente, Lea di un maschio e Rachele di una femmina. Poiché la nascita di una figlia femmina (anziché di un maschio) sarebbe stata considerata, a quell’epoca, una ingiustizia nei confronti di Rachele, che ancora non aveva avuto figli ed era evidente che non avrebbe potuto averne molti (e infatti ne ebbe solo due), Lea pregò e – racconta il midrash, almeno in alcune sue versioni – avvenne un miracolo: il feto (maschio) di Lea si trasferì nel grembo di Rachele e il feto (femmina) di Rachele si trasferì nel ventre di Lea. Così Rachele partorì Giuseppe e Lea partorì Dina, il cui nome deriverebbe da din, giudizio. Al di là dell’aspetto miracolistico del racconto, che i Maestri stessi del Talmùd affermano non essere possibile al giorno d’oggi (ma con le nuove tecniche mediche, chissà…), ciò che conta è che i due figli sono attribuiti alla madre che partorisce piuttosto che a quella che ha concepito: Giuseppe è figlio di Rachele e Dina figlia di Lea. È vero che il midrash, in genere, non può essere utilizzato per argomentazioni halakhiche, però questo racconto è indice della mentalità dei Maestri del Talmùd, secondo i quali la madre che partorisce è più importante di quella che fornisce i cromosomi. (Per un’esposizione dettagliata di queste due prove e di altre, vedi A. Steinberg, Encyclopedia of Jewish Medical Ethics, vol. 2, pp. 129-138 dell’ed. ebraica, 1991, e vol. 2, pp.577-580 della trad. inglese curata da F. Rosner, Feldheim 2003; in ital., vedi un mio articolo, “La tradizione ebraica: questione di genetica o di educazione?”, Ha-Tikwà, ottobre 2000.
L’ebraicità è quindi sì una questione di nascita, ma non di genetica. In termini medici, si potrebbe dire che è “congenita”. Non conta il DNA (il “sangue”), ma il ventre da cui si nasce, il che esclude automaticamente il padre (almeno finché non sarà realizzabile la gravidanza maschile…). Nei mesi all’interno del grembo materno il figlio inizia a ricevere una sorta di educazione ebraica, che non è fatta di parole ma di sensazioni: si crea un forte legame fra la madre e il bambino che continuerà nei primi mesi e anni successivi alla nascita. Questo stretto legame madre-figlio, ben più intenso di quello normalmente presente fra il padre e il figlio, è il prerequisito per la trasmissione della ebraicità. Se anche il padre è ebreo, tanto meglio, perché sicuramente la trasmissione culturale dell’ebraismo sarà ancora più efficace, soprattutto quando anche il padre inizierà ad avere un rapporto intenso con il figlio. Se però c’è un solo genitore ebreo, questo deve almeno essere il genitore che fin dalla nascita (e anche prima) ha uno stretto contatto con il figlio, ossia la madre. Il padre da solo non basta. (Sul diverso rapporto della madre con il figlio rispetto a quello del padre, suggerisco la lettura di Le madri non sbagliano mai, Feltrinelli 2004, di Giovanni Bollea, il padre della neuro-psichiatria infantile in Italia.)
Nel caso dei convertiti non c’è un ventre ebraico “fisico”, ma se ne crea uno simbolico, caratterizzato dall’immersione nel miqvè (il bagno rituale), che giustamente è stato assimilato a una sorta di “liquido amniotico”. Il bagno deve essere preceduto dallo studio (non a caso, per un periodo in genere non molto più lungo della gravidanza), studio che poi prosegue e viene approfondito dopo la conversione. La conversione è considerata una sorta di “nuova nascita” (nel linguaggio talmudico, gher ke-qatàn she-nolàd damè).
Questa è la visione ebraica cosiddetta ortodossa. La razza e i quarti di sangue non c’entrano niente. Paradossalmente, un’agevolazione dei rabbini, ossia l’ammettere che per essere ebrei basta la sola madre ebrea senza la necessità che lo sia anche il padre (proprio perché il sangue non è rilevante), si è rivelata un motivo di critica ricorrente e aspra nei confronti della halakhà e dei rabbini, i quali non sono sempre super-rigorosi come si vuole far credere, ma a volte anche facilitanti. Forse, se i Maestri del Talmùd avessero stabilito che per essere ebrei si devono avere entrambi i genitori ebrei (oppure convertirsi), oggi ci sarebbero state meno polemiche!
Un midrash molto bello racconta che nel grembo materno il bambino impara tutta la Torà, ma appena esce fuori viene un angelo che gli dà uno schiaffetto sulla bocca, facendogliela dimenticare (da cui deriverebbe il segno che abbiamo sul labbro superiore). Il compito del bambino, crescendo, è cercare di recuperare tutta la Torà studiata nel ventre materno e poi dimenticata.
http://www.hakeillah.com/3_05_31.htm
Ringraziamo gli amici di Hakeillah per la gentile concessione.