Capitolo 3 – Confessioni religiose e ordinamento
3.1. Il concetto di confessione religiosa: impostazione del problema
Finora abbiamo ampiamente parlato di culti e, soprattutto, di confessioni religiose, dando per pacifici e scontati, per motivi di semplificazione espositiva, il contenuto ed il significato di un’espressione, come quella di “confessione religiosa”, che si rivela invece quanto mai difficile da circoscrivere nei suoi precisi confini semantici ed ambiti di identificazione.
Se è vero che questa situazione di incertezza è anche il portato del fondamentale disinteresse, protrattosi per diversi decenni, per la tutela delle religioni di minoranza e, conseguentemente, della messa in disparte dell’art. 8 della Costituzione1), è anche innegabile che quella che, fino a due decenni fa, poteva ancora sembrare una questione eminentemente teorico-speculativa, perché priva di immediati riflessi “pratici”, è venuta a delinearsi, dopo la revisione del Concordato e l’apertura della “stagione delle intese”, come una delle pietre angolari nell’odierno sistema del diritto ecclesiastico italiano.
L’importanza e l’urgenza della questione, infatti, sono state evidenziate, recentemente, dall’emergere di due problematiche: la prima è costituita dalla comparsa sulla scena di “nuovi movimenti religiosi”2), perlopiù di origine orientale – anche a causa dell’importanza che hanno assunto nel nostro Paese i fenomeni migratori -, alcuni dei quali si discostano sensibilmente dai canoni di classificazione elaborati sulla base dell’esperienza delle religioni da noi tradizionalmente più diffuse e praticate3), cosicché risulta difficile, talvolta, ricondurre questi movimenti nell’alveo delle confessioni (a parte la considerazione che, a monte del concetto di confessione, sta la stessa nozione di religione tout court, che è divenuta a tutt’oggi oltremodo controversa); la seconda è data dalla produzione, ormai “alluvionale”, di misure di garanzia, di sostegno e di privilegio rivolte al fenomeno religioso – sia a livello statale che locale -, e dalla conseguente necessità di stabilire quali siano i gruppi legittimati, in concreto, ad avvalersene4) (per evitare possibili abusi dati dal dilagare della “religiosità” delle formazioni sociali finalizzata solamente a fruire delle norme di favore).
Diventa subito evidente come la seconda questione sia legata da un nesso di subordinazione rispetto alla prima, non appena si rifletta sul fatto che il negare, a taluni nuovi movimenti, il carattere di confessioni religiose, non potrà far altro che risolversi nella negazione dell’applicazione, a tali gruppi, delle misure di sostegno e di privilegio di cui si diceva poc’anzi, con la conseguenza di una evidente obliterazione del principio di uguaglianza, ove, nella realtà dei fatti, al problema della sussunzione della fattispecie concreta “gruppo religioso” in quella astratta di “confessione religiosa” non sia stata data una risposta univoca in tutti i casi5).
La dottrina italiana, negli anni, ha percorso diverse vie per giungere ad una definizione del concetto che paia soddisfacente – del resto, “nella totale mancanza di riferimenti legislativi, con notevole approssimazione e pregiudizio”6) -, ma, a tutt’oggi, una soluzione ottimale che trovi d’accordo tutti gli studiosi è ancora ben lungi dall’essere formulata, cosicché il problema, nonostante gli sforzi teorici sottesi a tale operazione, rimane sostanzialmente irrisolto7).
Anche la giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, sebbene con gli strumenti ad essa connaturali, ha cercato di dare il proprio contributo all’annosa questione, e solo ultimamente, come si vedrà, il nostro Giudice della costituzionalità è parso giungere ad una sorta di convergenza – sebbene in un modo quasi inconscio e non del tutto univoco -, con le tesi formulate de iure condendo da una parte autorevole, sebbene ancora minoritaria, della dottrina, che sembra più di ogni altra aver inquadrato la situazione in una accettabile prospettiva.
Nel corso della trattazione che seguirà, cercheremo perciò di adombrare sinteticamente le principali alternative interpretative prospettateci dagli studiosi, che negli anni si sono sforzati, per così dire, di rivestire di carne lo scheletro propostoci dal Costituente con l’oscura, e per certi versi anodina, locuzione di confessione religiosa. Tentando di delineare una summa divisio tra di esse, e valutandone i pregi e le controindicazioni, arriveremo poi a tirare le fila del discorso, dimostrando come la tesi che più di ogni altra ci pare – rebus sic stantibus – cogliere meglio l’essenza del fenomeno, trovi un aggancio proprio in una disposizione ricavabile dall’intesa con l’Unione delle comunità ebraiche, che costituisce proprio l’oggetto della nostra trattazione.
Tuttavia sarà utile, in via preliminare, allargare “furtivamente” lo sguardo, oltre i confini nazionali, sulla giurisprudenza e sulla dottrina straniere – senza peraltro alcuna pretesa di esaustività comparatistica al riguardo, ma unicamente a titolo esemplificativo -, per constatare come l’incertezza regni sovrana sia negli ordinamenti di Paesi più vicini al nostro, come la Francia e la Spagna, sia in quelli d’oltreoceano, nei sistemi separatisti di marca statunitense. Una dimostrazione, questa, della natura oggettiva della difficoltà di definire giuridicamente i concetti sia di confessione8), che di religione, e della necessità – comune a tutti gli ordinamenti in quanto accolgano il principio del favor religionis9) -, di evitare che detto favor sia esteso a ciò che religioso non è, senza per questo venire a conculcare non solo il fondamentale principio di uguaglianza ma, ancor prima, quello della libertà di coscienza, ciò postulando un delicato equilibrio tra valori, un equilibrio la cui effettività, del resto, non sempre è agevolmente verificabile e, se il caso, pacificamente correggibile.
Anche se non è questa la sede più adatta per una disamina della libertà di coscienza, non possiamo esimerci dal rimandare al pensiero di quell’autorevole dottrina che, opportunamente, considera come la libertà di coscienza dei consociati si erga oggi come una delle basi su cui poggiano gli odierni ordinamenti pluralisti, e che anche se “non è stata formalmente e espressamente presa in considerazione da tutti i testi costituzionali”, come è il caso del nostro, tuttavia “non ne mancano il riconoscimento e la tutela”10), configurandosi la libertà di coscienza come il “principio creativo che rende possibile la realtà delle libertà fondamentali dell’uomo”11).
3.2. Il fattore religioso nelle esperienze straniere
Analogamente al sistema italiano, nella legislazione degli Stati Uniti non si rinviene alcuna definizione giuridica né di religione né di confessione, ma, diversamente che da noi, la forte connotazione multirazziale e multietnica della società nordamericana, e la conseguente presenza ab origine di una pluralità di gruppi e di fedi religiose diverse, fin dal secolo scorso hanno imposto alla dottrina, ma soprattutto alla giurisprudenza, un ruolo di supplenza nella ricerca di una soluzione equilibrata al problema12), in un ordinamento fondato essenzialmente sulla common law, in cui l’apporto creativo del giudice, nell’interpretazione della legge, svolge un ruolo di capitale importanza nel continuo processo di adeguamento del diritto ai mutevoli valori ed esigenze della società13): indubbiamente, i giudici, soprattutto della Supreme Court, hanno cercato di colmare tale vacuum, ma con soluzioni non sempre del tutto convincenti, sia sul piano esegetico che su quello sistematico.
Nella sentenza di una delle Court of Appeals del 197914), i giudici ritengono utile, ai fini della risoluzione della questione concreta sottoposta al loro esame, una ricostruzione preliminare, in chiave storica, delle varie posizioni assunte nel tempo dalla Supreme Court degli Stati Uniti, sulla definizione del concetto di religione. Dallo speculum offertoci da questi giudici, emerge chiaramente che quando, sul finire dell’Ottocento, sul continente americano non si erano ancora affermati i movimenti religiosi di matrice orientale, dottrina e giurisprudenza propendevano unanimemente per una concezione per così dire “tradizionale” della definizione de qua, che veniva pertanto ad essere basata su di una percezione teistica della religione, e quindi strettamente legata alla fede in un Dio, creatore di tutte le cose15).
Ma con il passare del tempo, ed il prendere piede sia di religioni di origine orientale, che di nuovi e rivoluzionari valori nella società contemporanea, l’elemento contenutistico ha cominciato via via ad espandersi, per poter arrivare all’accoglimento di una nozione di religione capace di includere in sé anche i movimenti non basati sulla fede in (un) Dio16).
Il passo successivo ha portato, quindi, alla totale dissoluzione, ed alla conseguente inutilità, dell’elemento contenutistico quale criterio discretivo nell’identificazione della religione, con il progressivo affermarsi di nozioni sempre più aperte che etichettavano come religiose delle convinzioni fondate più che altro su imperativi stricto sensu etici o morali residenti nella coscienza di ciascuno: era il passaggio dalla originaria concezione teistico-contenutistica, “all’affermazione di un criterio di qualificazione incentrato sulla funzione (anziché sul contenuto) della religione e sul ruolo che essa gioca nella vita dell’uomo”17).
E la Supreme Court degli Stati Uniti è giunta così a postulare esplicitamente l’esistenza di una relazione di sostanziale equivalenza tra la fede ortodossa in Dio, e una qualsiasi convinzione basata su di una potenza, su di un essere, o su di una fede a cui ogni altra cosa è subordinata, identificando la religione con l’interesse fondamentale – di qualsiasi natura esso sia e qualsiasi contenuto esso abbia -, che guida la vita del singolo18).
Ma anche l’utilità definitoria del cosiddetto criterio funzionale è andata diminuendo, con il tempo, di pari passo alla progressiva dilatazione e disgregazione dello stesso, per la necessità di includervi movimenti e gruppi sempre nuovi e diversi, cosicché una parte della dottrina statunitense è giunta, ormai, a sostenere recisamente che non esiste, oggi, una definizione giuridica di religione che sia pacificamente accettata, ed è molto improbabile che se ne potrà mai elaborare una19), e mentre la Supreme Court tenta la strada del revirement giurisprudenziale, cercando di riproporre, tra le maglie del sistema, l’adozione di una definizione basata sul criterio contenutistico20), la giurisprudenza delle corti inferiori ne approfitta per tentare la costruzione di un modello imperniato sull’applicazione del metodo analogico in stretta correlazione con una indagine conoscitiva volta al riscontro, nella realtà in esame, di determinati indici rivelatori della natura religiosa21).
Se questa è la situazione americana, avvicinando lo sguardo al continente europeo ci accorgiamo che gli apporti dottrinali e giurisprudenziali sull’argomento sono stati finora piuttosto scarsi, e che solo negli ultimi tempi – soprattutto a causa, come già detto, del consistente aumento dei flussi migratori e del conseguente contatto con culture profondamente diverse dalla nostra -, è emersa anche qui da noi la necessità di una più precisa specificazione di taluni concetti, che sono essenziali al fine di distinguere la religione da altri fenomeni di varia origine e consistenza.
In tale quadro, la giurisprudenza spagnola si attesta su una posizione di moderato tradizionalismo, aderendo, nella sostanza, alla tesi teistica, o contenutistica, di cui supra: di conseguenza, il fattore religioso viene ravvisato soltanto in quelle dottrine le cui fondamenta poggino sulla base della fede in un Dio, unitamente alla pratica di culti, o comunque di riti, idonei a costituire un tramite privilegiato tra l’uomo e la divinità22); tutto il resto, per i tribunali spagnoli, esula dal concetto di religione, e non dà quindi alcun titolo per la iscrizione nel “Registro delle Entità Religiose”, previsto dalla legge organica fondamentale sulla libertà religiosa del 5 luglio 1980.
Se, de iure condito, il problema della legittimità di una simile operazione definitoria condotta in sì angusti termini non si pone neppure – dal momento che i requisiti per accertare la finalità religiosa degli enti sono previsti dalla legge stessa -, rimane comunque il dubbio se, de iure condendo, il sistema spagnolo sia il migliore possibile, comportando forse, almeno così come viene inteso dalla giurisprudenza dominante, un’inammissibile ingerenza valutativa del potere secolare nel momento in cui, attraverso l’indagine volta all’accertamento della finalità religiosa dell’ente, si spinge sino alla valutazione del patrimonio dogmatico e dottrinario in un campo che, di per sé, non si presenta affatto delineato in termini così rigorosi, ma è, al contrario, ricco di zone d’ombra, in cui il rischio di un’obliterazione della libertà di coscienza, e di religione, è in agguato dietro ad ogni angolo. Meglio, allora, secondo la proposta di parte della dottrina23), limitare il controllo statale al momento del mero accertamento che le finalità del gruppo religioso non rientrino nell’ambito di attività connesse allo studio dei fenomeni psichici, spiritualisti o parapsicologici, che per la legge spagnola sono estranei all’ambito della religione, senza però arrivare a penetrare, con una valutazione di merito, nel patrimonio dottrinario del gruppo.
In Francia, il primo comma dell’art. 19 della legge del 9 dicembre 1905, emanata dopo la rottura dei rapporti tra Stato e Chiesa, qualifica esplicitamente come associazioni religiose, o di culto, le sole che abbiano per oggetto l’esercizio esclusivo del culto24): la giurisprudenza francese non ha, tuttavia, fornito significativi contributi sull’interpretazione della norma in questione, limitandosi, la maggior parte delle volte, a rilevare se, nel caso sottoposto al suo esame, fosse dato riscontrare la presenza dell’esclusiva finalità dell’esercizio del culto, senza tuttavia spingersi ad indagare quali caratteri dovesse in concreto presentare un’associazione per potersi fregiare di una tale qualifica25).
Quando, invece, tale indagine è stata compiuta, essa si è talvolta spinta troppo in profondità, pervenendo così a conclusioni del tutto inaccettabili, come quando si è giunti a negare il carattere di associazione di culto all’associazione cristiana dei testimoni di Geova di Francia, in conseguenza di un giudizio di merito sulla compatibilità dell’ideologia religiosa con i princìpi di ordine pubblico (nella specie, il contrasto del diritto alla salute con il rifiuto della pratica delle emotrasfusioni, opposto strenuamente dai seguaci della religione di Geova)26).
I tribunali tedeschi, dal canto loro, hanno affermato con forza l’esigenza di una fede in Dio, seppure suscettibile di essere espressa anche in una forma politeista, che deve ricoprire un ruolo centrale nella vita della confessione27), mentre il riconoscimento dello status di corporazione di diritto pubblico viene negato a quelle confessioni la cui fede non presenti i caratteri dell’originalità28) rispetto ad altri credi, o il cui numero di fedeli non sia abbastanza ampio da fondare la presunzione di una certa stabilità e durata nel tempo della Chiesa29).
3.3. La situazione italiana. Dati normativi ed opzioni valutative
Nel porre il principio, consacrato nell’art. 8 della nostra Costituzione, della eguale libertà, il legislatore Costituente introdusse nell’ordinamento italiano il termine di “confessioni religiose” senza peraltro chiarirne la precisa portata, e realizzando così, con la disposizione de qua, una sorta di “disposizione normativa aperta”30), suscettibile per ciò stesso di essere adattata alle più diverse realtà sociali ed istituzionali. L’espressione in parola era completamente nuova ed assolutamente estranea al consueto lessico usato dal legislatore – e veniva preferita a quella di “altre Chiese”, che pure era stata prospettata nel primo progetto di quello che sarebbe poi divenuto l’attuale art. 8 della nostra Carta fondamentale31) -, e segnava per la prima volta l’abbandono della locuzione di “culti”, che fin dal periodo precedente all’unità del Paese era stata utilizzata per definire le diverse Chiese, compresa quella cattolica32).
Evidentemente, non si riuscì a trovare una espressione migliore di questa33), presa di peso, tuttavia, dalla tradizione cristiana e, in particolare, connessa con la “divisione della cristianità conseguente alla Riforma”34), anche se evidentemente adoperata, dalla formulazione costituzionale, “nella accezione traslata di “gruppo religioso””35): infatti, è indubitabile che, con questa espressione, il Costituente volesse fare riferimento sia alla Chiesa cattolica che alle altre religioni, comprese quelle non cristiane, se è vero che – come abbiamo visto nel capitolo precedente -, tra i “culti” già ammessi nello Stato, – e che non potevano, perciò, non essere ricompresi tra le confessioni considerate dal Costituente -, figurava anche quello ebraico, che, tra l’altro, si era rivolto al legislatore presentando progetti e suggerimenti poco più di un mese prima della discussione sul testo del futuro art. 8.
Secondo l’opinione di una nota studiosa, negli anni seguenti all’emanazione della Costituzione, opportunamente il legislatore non si preoccupò di riempire di contenuto quella locuzione, dal momento che la previsione di una formula che indicasse quali, tra le diverse formazioni sociali, avrebbero dovuto essere ricomprese nel concetto di “confessioni religiose”, ex art. 8, avrebbe sostanzialmente svuotato di contenuto il riconoscimento della loro eguale libertà di fronte alla legge, così come contemplato nel primo comma dello stesso art.36).
Resta il fatto che ciò non ha impedito l’apertura di un acceso e travagliato dibattito tra gli studiosi, a proposito del metodo migliore per arrivare a circoscrivere e ad applicare nella realtà concreta il concetto, e che ha visto di volta in volta prevalere soluzioni antitetiche, a seconda dei criteri esegetici utilizzati dagli studiosi, ma senza portare, almeno fino a tempi recentissimi, ad intravedere una soluzione – che, peraltro, non è considerata tale da tutta la dottrina -, in grado di contemperare i diversi – e talora confliggenti – valori, sottesi dalla problematica de qua37).
Indubbiamente, tenersi in equilibrio entro un campo pervaso da opposte tensioni è un esercizio molto difficile, e spesso l’opzione di coscienza sottesa a queste problematiche è rimasta oscurata dalla necessità – che pur esiste, lo abbiamo già visto, così nel nostro come negli altri ordinamenti -, di circoscrivere il numero dei soggetti legittimati ad un trattamento di favore38) e – in modo particolare per quanto riguarda l’ordinamento italiano -, ad addivenire alle intese con lo Stato (che, stando all’incontrovertibile dato costituzionale, si configurano come il presupposto indispensabile per l’accesso dei gruppi religiosi ad un tale trattamento).
Il dibattito – che ha coinvolto sia i costituzionalisti che gli ecclesiasticisti -, ha preso le mosse dall’analisi combinata degli artt. 8 e 19 della nostra Carta costituzionale, e, sulla base della conclusione secondo la quale la Costituzione ha voluto differenziare in modo reciso le confessioni da tutti gli altri raggruppamenti con finalità religiosa, si è incentrato soprattutto sull’enucleazione di un criterio distintivo, che fosse tale da permettere di distinguere nettamente ciò che è una confessione religiosa, da ciò che rimane invece una semplice associazione39).
Partendo dall’affermazione che tra associazioni e confessioni corre un rapporto da genus ad species, gli studiosi hanno postulato quasi unanimemente che tra i due concetti esiste una sorta di gerarchia40), o meglio, che per assurgere alla dignità di confessione, l’associazione religiosa deve essere in possesso di un quid pluris, salvo poi, nella realtà dei fatti, trovarsi in totale disaccordo in ordine all’identificazione di questo “quid“, o al metodo da seguire per arrivare ad identificarlo.
Ad esempio, la dottrina più tradizionale – e più risalente – si è giovata, in un primo tempo, dell’apporto di discipline estranee alla scienza giuridica, facendo affidamento soprattutto sugli strumenti fornitici dalla sociologia41), per giustificare l’assunto secondo il quale dal carattere aperto, e quindi di norma in bianco, dell’art. 8, discenderebbe per forza di cose il riferimento ad una nozione essenzialmente storicistica – non strettamente giuridica – del concetto in parola, e cioè alla confessione così come viene percepita (e recepita) dalla cosiddetta “coscienza comune”42).
Ma se una simile opinione avrebbe potuto, al limite, essere avallata nel primo periodo di attuazione della Costituzione, il processo di trasformazione e di evoluzione della società italiana, connesso al progressivo mutare dei valori ed al diffondersi, anche in Italia, di religioni provenienti da contesti culturali (e cultuali) profondamente altri rispetto al nostro, hanno presto finito col far cadere in rapida obsolescenza l’utilità del richiamo al concetto sociale, tanto da rendere necessaria una ulteriore specificazione della definizione così ricavata43).
Le aporie definitorie intrinseche al concetto sociale hanno portato quindi altra parte della dottrina a porre, alla base della definizione, un elemento più ampio, come quello costituito dalla “opinione pubblica formatasi nella società italiana”44), ma che, proprio a causa di tale sua ampiezza, si è rivelato troppo generico per servire allo scopo e, quindi, anch’esso inutile, ma soprattutto controproducente, se è vero che – come giustamente nota la dottrina più recente -, “il problema della tutela delle confessioni va affrontato, proprio ed innanzi tutto, con riferimento al momento genetico in cui esse, per difficoltà proprie od esterne, non abbiano ancora “sfondato”, non si siano ancora accreditate nell’opinione pubblica”45) (anche a tacere del fatto che l’opinione pubblica è spesso manipolata, o condizionata, dall’opinione dei gruppi dominanti nella società, ed in specie, nel nostro caso, dalla confessione di maggioranza).
Le stesse obiezioni, sostanzialmente, possono essere mosse ai tentativi effettuati dai sostenitori della tesi che ha fatto riferimento, piuttosto che all’opinione pubblica, al consolidamento della confessione nella “tradizione italiana”46), utile soltanto a circoscrivere in più angusti termini quella dell’opinione pubblica, di modo che, ad esempio, “un gruppo di musulmani riunitosi in Italia per finalità religiose non darebbe vita – nell’àmbito del nostro ordinamento – ad una confessione ma solo ad una associazione in base all’art. 19″47), in cui è in re ipsa quella “diffidenza verso una fenomenologia religiosa diversa da quella cattolica o cristiana, e comunque lontana dalla tradizione istituzionale delle chiese d’occidente”48), e che bene risponde ad una valutazione della società che si vorrebbe sempre uguale a sé stessa.
Inoltre – e l’obiezione ci pare risolutiva -, è stato giustamente osservato che la formula dell’art. 8 parla semplicemente di “confessioni religiose” e non di “confessioni religiose tradizionali”, e che quindi la Costituzione mostra di proteggere tutte le minoranze religiose in quanto tali, e non in quanto consolidatesi nella tradizione italiana, cosicché intendere la formula dell’art. 8 nel secondo senso “importerebbe una restrizione del significato delle norme in esame fuor d’ogni previsione di esse”49).
Nulla autorizza a pensare, del resto, che, in mancanza di indicazioni legislative in tale senso, il tratto distintivo delle confessioni sia rappresentato dalla consistenza numerica, come invece ha fatto chi ha identificato, forse prendendo a prestito l’elaborazione giuridica tedesca (la quale, però, è fondata su precisi dati normativi), la realtà confessionale con una formazione sociale caratterizzata, oltre che dalla “serietà” dei rapporti con gli appartenenti al consesso, soprattutto dall’elemento del “concorso stabile di un certo numero di aderenti”50).
In ultima analisi, non ci sembra accoglibile neppure quella tesi, pur prospettata da una parte autorevolissima della dottrina, che, proponendo l’interpretazione del termine “confessione” in stretta connessione con quella dell’aggettivo “religiosa”, vorrebbe differenziare le confessioni dalle associazioni sulla base dell’assunto secondo cui solo le prime sarebbero caratterizzate da “una propria e originale concezione totale del mondo, che investe, oltre ai rapporti tra uomo e Dio, pure i rapporti tra uomo e uomo”, basata essenzialmente “sull’esistenza di un Essere trascendente, in rapporto con gli uomini”51).
A questa impostazione, infatti, possono essere mosse due obiezioni di fondo. La prima è che, così posto il requisito dell’originalità – o della novità – di concezione del mondo, rimarrebbero esclusi dalla nostra considerazione non solo la maggior parte dei nuovi movimenti religiosi presenti al giorno d’oggi nel nostro Paese – in quanto è sempre più difficile, al loro interno, riscontrare precisi caratteri di originalità idonei a distinguerli nettamente l’uno dall’altro e dalle religioni consolidate52) -, ma anche quelle confessioni “tradizionali”, di origine protestante – tutte derivate dal ceppo ebraico-cristiano -, tra le quali non è dato riscontrare alcuna differenza originale, basandosi esse solamente su di una “diversità di interpretazioni teologiche, e talvolta anche solo esegetiche, della stessa Scrittura, che hanno alimentato diversi modi culturali e tradizioni storiche di vivere la stessa fede”53) (e, sotto questo aspetto, neppure distinguibili dalla stessa Chiesa cattolica); oltretutto, anche in questo caso vale l’obiezione secondo cui il criterio dell’originalità della professione di fede manca del tutto di una base normativa.
Il secondo appunto che possiamo fare alla tesi in esame è, in un certo senso, di più ampio respiro, e muove dalla considerazione del significato attribuito all’aggettivo “religiosa”, che in questo caso verrebbe a presupporre “una univocità del significato di “religione”, che viceversa è caratterizzata dalla polivalenza”54). In altre parole, la religione verrebbe qui ad essere definita – attraverso il riferimento ad un Essere trascendente55) -, grazie all’adesione alla impostazione teistica di cui si è ampiamente parlato in precedenza, trattando della giurisprudenza statunitense e del suo iter evolutivo, evidenziandone d’altro canto la portata troppo riduttiva, poiché l’opinione che ogni religione postuli necessariamente l’esistenza di una divinità è storicamente condizionata dalle religioni teiste di stampo occidentale – che non possono esse sole porsi a base di una definizione della religione e dei fenomeni ad essa connessi che possa aspirare ad avere un’utilità euristica generale anche soltanto nei limiti del nostro ordinamento -, ed è, altrettanto storicamente, contraddetta dalla presenza costante, in altre parti del mondo, di religioni “a-teiste”, come il più volte menzionato buddhismo o il confucianesimo, ma che non per questo vengono considerate come semplici movimenti filosofici.
La stessa critica può essere rivolta a quelle tesi che, partendo ancora una volta dal riferimento al concetto di confessione così come percepito dalla coscienza sociale, hanno cercato di affinarlo unendolo al riscontro di tutta una serie di componenti esteriori, operazione che, se da una lato ha il pregio di essere agganciata ad elementi più oggettivi del puro e semplice riferimento alla coscienza sociale – in quanto la presenza di fattori esteriori è più facilmente, ed oggettivamente, verificabile -, dall’altro lato è suscettibile di portare a dei risultati e conclusioni inaccettabili, se per elementi esteriori vengono presi in considerazione – come, del resto, è stato fatto -, principalmente le pratiche liturgiche e la presenza di ministri di culto56).
Con il che, il criterio sociologico verrebbe a specificarsi anch’esso come tentativo di definizione della religione in sé – piuttosto che della realtà confessionale anche al fine della distinzione dalle associazioni -, ed in particolare come approccio teistico – il culto presupponendo una divinità a cui dedicare dette pratiche -, con il grave difetto di dare per dimostrato proprio l’id demonstrandum, che, cioè, una religione che non contempli riti dedicati ad una divinità non sia da considerare religione in senso proprio, risolvendosi perciò ancora una volta – secondo noi – in una mera petizione di principio57).
In alternativa alle tesi prospettate, è stato proposto, da autorevole parte della dottrina, di porre l’accento sui caratteri più eminentemente strutturali del gruppo religioso, attraverso il riferimento, soprattutto, all’aspetto istituzionale, normativo ed organizzativo della sedicente confessione: sarebbe allora agevole operare una distinzione tra “quelle comunità religiose che nell’ordinamento statale si presentino esistenti e operanti quali pure e semplici associazioni con fini di culto, unite bensì dalla comune fede ma senza né imporre doveri né pretendere diritti dai propri membri e prive, come tali, di ogni organizzazione statutaria propria più o meno istituzionale, in quanto da loro stesse giudicata contrastante con i propri princìpi spirituali o comunque non opportuna”, e le vere e proprie confessioni, che sarebbero da identificare con “quelle comunità religiose sia nazionali, sia supernazionali o straniere che risultino dotate di una positiva organizzazione statutaria e di un assetto istituzionale con una propria normazione”58).
Altre volte, invece, l’aspetto istituzionale è stato preso in considerazione unitamente a quello, funzionalistico, del fine perseguito dal gruppo stesso: così, ad esempio, è stato sostenuto che “la confessione religiosa si differenzia per il carattere istituzionale e l’esistenza di una normazione e di un’organizzazione per il perseguimento di fini religiosi determinati”59), mentre altri, sottolineando esclusivamente l’aspetto funzionalistico, ha asserito che l’unico elemento discriminativo delle confessioni dalle altre formazioni sociali “non può essere che quello del fine specifico perseguito dal gruppo stesso, nel senso che si ha confessione là dove lo scopo finale della collettività – a cui essa è informata ed al cui conseguimento è immutabilmente diretta – è favorire il contatto tra l’individuo e potenze trascendenti”60).
Se le tesi che fanno appello al dato funzionalistico, o della peculiarità del fine religioso – da solo o in varia combinazione con elementi strutturali -, non riescono a cogliere nel segno, dal momento che anche le associazioni hanno un proprio fine specifico – con il che andrebbe smarrita la distinzione di esse dalle confessioni, che le dette tesi si proporrebbero invece di fondare61) -, l’opzione interpretativa secondo la quale il gruppo, per assurgere alla dignità di confessione religiosa, dovrebbe presentare necessariamente un’organizzazione ed una normazione propria, va oltre il dettato costituzionale: infatti, il secondo comma dell’art. 8, prevedendo la possibilità (e non la necessità), per le confessioni religiose, di organizzarsi secondo propri statuti, riconosce a formazioni sociali già esistenti – e, pertanto, già qualificabili come confessioni -, il diritto di darsi un’organizzazione, venendo con ciò, seppure implicitamente, ad ammettere la possibilità dell’esistenza di confessioni religiose non organizzate, ma, comunque, pur sempre qualificabili come confessioni62), e, d’altronde, al giorno d’oggi non è difficile constatare come proprio “alcune confessioni di più recente formazione sono orientate a non darsi norme giuridiche cogenti e sistematiche, e a non seguire modelli gerarchici permanenti, ma tendono ad organizzare la propria esistenza ed attività secondo uno stile comunitario e con forti tratti di spontaneità”63).
3.4. Le confessioni religiose dal paradigma alla autoreferenziazione
Un mutamento di prospettiva, senza dubbio suggestivo, viene oggi prospettato da chi ha preliminarmente constatato come “ogni definizione presuppone la capacità di identificare l’essenza del fenomeno analizzato, cioè uno o più caratteri che siano al tempo stesso sufficienti e necessari a qualificarlo ma, sotto questo profilo, tutti i tentativi compiuti dalla dottrina giuridica (e non solo giuridica: si pensi alla storia ed alla sociologia della religione) hanno largamente dimostrato l’impossibilità di pervenire a questo risultato in relazione alla definizione di religione”64): si è così proposto di andare alla ricerca di un paradigma, anziché di una definizione, della religione.
Così facendo – almeno secondo la dottrina in parola -, non si sarebbe più costretti a ragionare negli angusti termini di appartenenza o di esclusione, bensì in quelli, ben diversi, di vicinanza o lontananza dal paradigma, o modello, di religione (e di confessione), che sarebbe agevole ricavare dall’insieme complessivo delle norme dell’ordinamento giuridico italiano, isolando determinati “caratteri che debbono essere presenti in ogni gruppo che intende qualificarsi come confessione religiosa”65).
E tali caratteri sarebbero da ravvisarsi, principalmente, nella “credenza in una realtà trascendente (non necessariamente un Dio), capace di dare risposta alle domande fondamentali relative all’esistenza dell’uomo e delle cose, atta a fornire un codice morale ed a generare un coinvolgimento esistenziale dei fedeli che si manifesta (tra l’altro) nel culto e nella presenza di una sia pur minimale organizzazione”66).
Un simile procedimento avrebbe il pregio, oltretutto, di inquadrare meglio determinate realtà, che sfuggirebbero altrimenti all’occhio classificatore – e indagatore – del giurista, poiché “anziché essere separate da una netta linea di frattura, passibile di essere individuata con sicurezza, le aree del religioso e del non religioso sono unite da un’ampia zona grigia in cui si collocano realtà […] che, senza violare i princìpi della logica giuridica, possono essere definite religiose o non religiose a seconda delle sfumature interpretative con cui si assume questo termine”67); tuttavia, come altri ha osservato, “l’operazione di “estrazione” di un normotipo da una fotografia dello scenario in cui si situa una pluralità di soggetti diversi (che reclamano di restare diversi), non è esente da qualche arbitrarietà e potrebbe anche essere poco funzionale all’accettazione della eterodossia, fenomeno connaturato allo sviluppo delle religioni”68), soprattutto nell’ambito di un Paese, come il nostro, che fino a poco tempo fa era ancora tutto incentrato su di un concetto di religione essenzialmente tradizionalista.
Partendo da questa constatazione, è venuta ad affermarsi, in dottrina, una tesi favorevole a cancellare ogni distinzione tra confessioni ed associazioni, dettata soprattutto dalla preoccupazione, tutta contingente, che, proprio sulla base di questa differenziazione dai confini così labili ed incerti, possa derivare una qualche indebita discrezionalità da parte degli organi dello Stato competenti in materia69): si è così affermato che “le espressioni formazioni sociali e associazioni usate dal costituente negli artt. 2 e 18 costituiscono un genus nell’ambito del quale tutti i gruppi sociali con finalità e carattere religioso rappresentano delle specificazioni. Nella categoria delle formazioni sociali con finalità religiosa, in particolare, è difficile individuare una concreta distinzione tra “associazioni” e “confessioni” religiose, in quanto non ricorre una differenza riguardo alla struttura, ai caratteri ed alla natura delle due indicate formazioni sociali con finalità di culto. […]Sembra quindi doversi concludere che manca qualsiasi sicuro criterio che valga a far distinguere tra loro le confessioni religiose dalle associazioni religiose, e che queste due “associazioni tipiche” rientrano nella generale categoria delle formazioni sociali con finalità religiosa”70).
Ma, come altri ha notato, questa opinione non può essere condivisa, soprattutto per l’inquadramento complessivo del fenomeno confessionale che da essa deriverebbe: infatti, “occorre tenere presente, al riguardo, che esiste una precisa distinzione, nell’articolo 8 della Costituzione, tra la garanzia della eguale libertà che compete a tutte le confessioni religiose, e la previsione delle Intese, di cui al 3° comma, che regolano i rapporti tra Stato e alcune confessioni non cattoliche. La garanzia della eguale libertà, se non si vuole limitarla alla sfera del lecito, assume una precisa qualificazione in ordine a diritti e prerogative che competono alle confessioni in quanto organismi identificabili ed autosufficienti rispetto a qualsiasi altra aggregazione religiosa”71).
A nostro avviso, la gran parte della dottrina ha trascurato di considerare un aspetto del problema che, nella sua apparente banalità, non risulta analizzato nella misura che meriterebbe: infatti, per anni ci si è affannati nella ricerca di elementi oggettivi che ci permettessero di poter contraddistinguere le confessioni religiose, tralasciando completamente l’aspetto soggettivo della questione.
Solo ultimamente ci risulta essere stata presa in seria considerazione, da parte di altra dottrina, l’ipotesi di lavoro secondo la quale “è lo stesso gruppo sociale che deve, se lo ritiene, qualificarsi e definirsi come confessione“72), rendendosi perciò stesso autonomo ed autosufficiente non solo rispetto alle altre confessioni, ma anche, ed in primis, nei confronti delle associazioni73), mentre lo Stato non dovrebbe fare altro che prendere atto della sua esistenza74), o, al più, limitarsi a verificare “l’autonomia strutturale e le finalità generali dell’organizzazione confessionale”75).
Nel secondo capitolo abbiamo visto che, con la sentenza 203/1989, la Corte costituzionale ha avuto occasione di definire il contenuto della laicità dello Stato come “non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”: e proprio grazie alla riconduzione del fenomeno confessionale nell’ambito del pluralismo che informa la nostra Carta costituzionale, le confessioni religiose vengono ad essere ricomprese nel più generale alveo delle formazioni sociali, con le quali fruiscono di alcune particolari garanzie desumibili dall’art. 1876).
Del resto, già con la sentenza 239/1984, tale onnicomprensività era stata affermata nell’ambito di una pronuncia concernente l’illegittimità della norma sull’appartenenza obbligatoria degli ebrei alle comunità77), desumendo la Corte, dal combinato disposto degli artt. 2 e 18 della Costituzione, un principio di libertà di adesione applicabile a tutte le formazioni sociali, “tra le quali si possono ritenere comprese anche le confessioni religiose”.
Secondo alcuni autori, la Corte ha optato per una “nozione espansiva”78) di formazione sociale, capace di ricomprendere in sé aggregazioni sociali più o meno organizzate e strutturate, anche se dotate di un notevole carattere di atipicità rispetto a quelle nominate apertis verbis nella Costituzione. Proprio da questa nozione ampia di formazione sociale, e in conseguenza della prassi sociale pluralistica dello Stato contemporaneo, discende la possibilità, per le confessioni religiose, di autoqualificarsi come tali, dal momento che “nel modello pluralistico si passa da una concezione ontologica delle formazioni sociali ad una concezione funzionale, per cui è famiglia, sindacato, confessione, ecc. quella formazione sociale che – a prescindere dalle dimensioni, dal riconoscimento, dalla tradizione, ecc. -, si mostra in concreto funzionale allo svolgimento della persona umana sotto il profilo familiare, sindacale, religioso: funzionalità, che, contro ogni forma di giurisdizionalismo, si misura in base non a criteri estrinseci, per giunta privi di base normativa, ma all’elemento soggettivo della consapevolezza e della volontà dei consociati di agire come formazione autonoma nel perseguimento di uno scopo religioso”79).
Indubbiamente, il metodo dell’autoqualificazione si presenta, prima facie, come il più rispettoso del dettato costituzionale – dato il carattere di norma aperta dell’art. 8 -, in quanto “nessun elemento aggiunge a quelli tradizionalmente accolti dalla dottrina privatistica”80), e, inoltre, come il più appropriato nel confronto con le nuove esperienze che si vanno diffondendo rapidamente nel campo religioso dell’Europa occidentale, le quali, sulla base di criteri oggettivi, finirebbero invece con l’essere espulse dall’ambito della religione, in conseguenza di una operazione di mero astrattismo giuridico81).
Allo stesso tempo, però, esso si rivela anche come il più pericoloso, almeno in quegli ordinamenti – tra i quali spicca certamente il nostro -, che accolgono il principio del favor religionis82), generando il (fondato) timore che organizzazioni che nulla hanno a che vedere con la religione, come tali vengano ad autoqualificarsi solamente in vista della possibilità di godere di tutta quella serie di agevolazioni normalmente accordate al fenomeno religioso83).
Insomma, nel delicato equilibrio tra valori confliggenti di cui si è fatto cenno all’inizio della trattazione – e costituiti, da un lato, dal rispetto della libertà di coscienza dei componenti del gruppo religioso, e, dal lato contrario, dalla necessità di escludere dai benefici le entità che si “improvvisino” confessioni, al solo scopo di godere delle agevolazioni alle quali non avrebbero invece alcun diritto -, in questo caso l’ago della bilancia, dopo un capovolgimento a favore del polo opposto della tensione dialettica, continuerebbe comunque ad indicare verso una direzione sbagliata, in un circolo vizioso da cui risulterebbe pressoché impossibile uscire.
Da una parte, infatti, l’elaborazione di “indici” via via sempre più penetranti e precisi consentirebbe di evitare possibili abusi insiti in una autoqualificazione religiosa “di comodo”, ma finirebbe anche con il venirsi a configurare come un tentativo di dettare i requisiti necessari84) delle confessioni e di fissarne in modo autoritativo la vera natura85), con palese violazione del postulato dell’incompetenza dello Stato in materia dottrinaria, in quanto esso non può stabilire d’autorità quale sia una “vera” religione e quale non lo sia86). Abbiamo già visto ampiamente, del resto, l’insufficienza e la sterilità intrinseche agli orientamenti tesi a dare una definizione del concetto di confessione (e di religione), tanto che proprio da questa constatazione parte della dottrina ha tratto spunto per elaborare l’approccio “paradigmatico” di cui si è già detto87).
Possiamo ora aggiungere, a quanto rilevato in quella sede, che l’operazione consistente nel partire da una definizione di confessione assunta come “vera”, per poi passare a controllare se il gruppo corrisponde, oppure no, a quella definizione, si risolve sostanzialmente in quella di accertare se i convincimenti interiori degli appartenenti al gruppo corrispondono a quelli che l’interprete accoglie (in quel momento) come gli unici realmente religiosi, comportando perciò un giudizio di valore sulla corrispondenza delle convinzioni di coscienza dei membri della comunità, alla scala assiologica del soggetto che viene a giudicare ab extra l’autenticità di dette convinzioni, con una indubbia – e, soprattutto, inammissibile – intrusione nella sfera della coscienza della persona88): ciò che la dottrina più recente ha avuto modo di definire come metodo intravalutativo, che è la naturale conseguenza dell’orientamento volto alla definizione89).
Il metodo dell’autoqualificazione consentirebbe, invece, di rispettare nel modo più assoluto la libertà di coscienza, e di prescindere del tutto dall’orientamento definitorio, in quanto, nelle sue posizioni estreme, l’autoqualificazione della confessione si porrebbe come una presunzione assoluta, e non suscettibile perciò di prova contraria, con l’evidente difetto, però, come più volte sottolineato, dell’esposizione dello Stato ad ogni sorta di abuso da parte dei gruppi90).
La migliore e più recente dottrina ha osservato che, in questo caso, tertium datur, e, nello sforzo teso a “conciliare le aspettative delle “parti” interessate”91), è approdata alla configurazione del cosiddetto metodo extravalutativo, ossia di un metodo che – secondo la dottrina de qua – “consenta di verificare la “reale natura” del gruppo rispettando la libertà di coscienza delle persone che vi aderiscono”92), grazie ad una procedura in due fasi che sincretisticamente contempli entrambi gli aspetti positivi delle due diverse posizioni or ora richiamate.
In questo quadro, l’indagine non parte dalla definizione di confessione, ma dalla autoqualificazione dello stesso gruppo (prima fase), autoqualificazione che, tuttavia, viene qui a configurarsi non più come una presunzione assoluta, ma come una presunzione meramente relativa (iuris tantum)93), suscettibile perciò stesso di prova contraria da parte del giudice (o, a seconda dei casi, della pubblica amministrazione), attraverso la verifica della rispondenza ad alcuni test “formulati avendo presenti i caratteri che di solito contraddistinguono le confessioni religiose”94) (seconda fase): a questo proposito, potranno bensì venire in considerazione la presenza di riti e cerimonie, di una organizzazione istituzionale o di una originale visione del mondo come, in generale, tutti i criteri proposti nel corso degli anni da parte della dottrina, con la sostanziale differenza, tuttavia, che tali criteri avranno qui una funzione totalmente diversa, “passando da criteri di definizione a test di conferma dell’autoqualificazione”95), in quanto il metodo extravalutativo è caratterizzato dalla “inversione dell’onere della prova”96), per cui spetta al soggetto competente la dimostrazione che il gruppo non è una confessione97), in mancanza della quale rimarrà valida l’autoqualificazione98), e con il duplice vantaggio di fare salvi tanto la necessità, per lo Stato, di evitare quella è stata immaginificamente definita come la “truffa delle etichette”99), che la tutela dei diritti della coscienza, impedendo la formazione di quel “tribunale delle coscienze”100), deputato ad indagare sulla reale consistenza delle motivazioni in una sfera, quella appartenente alla coscienza, appunto, che in quanto tale non tollera alcuna intrusione.
Venendo, ora, ad analizzare gli orientamenti giurisprudenziali sul punto, cercheremo di dimostrare come si possa conciliare quest’ultima impostazione dottrinale, che potremmo chiamare della “autoqualificazione relativa”, con due recenti pronunce del nostro Giudice della costituzionalità.
Ambigue e, per certi versi, non totalmente convincenti, sembrano essere state le considerazioni svolte, nel suo iter argomentativo, dalla Corte costituzionale quando, nel 1992101) – chiamata a pronunciarsi sulla presunta incostituzionalità delle norme tributarie che prevedono una serie di esenzioni fiscali per le associazioni, qualora queste esercitino attività religiose -, ha dovuto preliminarmente dare soluzione al quesito su cosa debba intendersi, almeno ai fini fiscali, con l’espressione di “associazione religiosa” (questione che solleva, a propria volta, quella della definizione di “confessione religiosa”, a causa del rapporto organico che lega le confessioni religiose agli enti da queste promossi)102).
In quella sede, la Corte ha avuto modo di affermare il carattere oggettivo della nozione de qua, che, anche in assenza di determinazioni positive, sarebbe pur sempre possibile ricavare attraverso il rinvio a “criteri desumibili dall’insieme delle norme dell’ordinamento”, non essendo ammissibile “che una associazione sia arbitra della propria tassabilità”, con una pronuncia che, se giunge esplicitamente a negare rilevanza agli “esiti irragionevoli di una incontrollabile autoqualificazione (meramente potestativa) delle associazioni” – e con ciò non discostandosi, sostanzialmente, dall’impostazione dottrinale di cui abbiamo testé discusso -, con il rinvio alle norme dell’ordinamento viene d’altro canto a scontare una buona dose di apoditticità, apparendo piuttosto, dietro le righe, come “un espediente per non farsi carico dell’individuazione dei profili distintivi delle formazioni sociali a carattere fideistico denominate confessioni religiose”103).
Oltre a non avere specificato quali siano queste norme a cui fare riferimento, infatti, la Corte ha impostato la propria pronuncia sul più rigido formalismo giuridico di stampo positivista, non lasciando spazio nemmeno ai dati ricavabili dalla prassi applicativa, “come se la produzione del diritto in materia confessionale si concentrasse in un’unica istanza, quella legislativa, e all’interprete non fosse dato altro compito che una semplice esegesi della legge”104), in contrasto con quello che, sin dall’entrata in funzione della Corte costituzionale, è sempre stato l’orientamento del Consesso, circa l’opportunità di fare ricorso anche al cosiddetto “diritto vivente”, ad integrazione delle norme scritte105), nonché con le moderne acquisizioni sulla funzione anche creativa, e non meramente dichiarativa, che può trovare spazio nel procedimento di interpretazione delle norme da parte dei giudici.
E “che l’insieme delle norme (scritte) dell’ordinamento non sia sufficiente ad individuare (in generale, il diritto vivente e, in particolare), il concetto di confessione”106), è stato dimostrato dalla successiva sentenza 195/1993, in cui la Corte costituzionale, chiamata questa volta ad affrontare la questione della avvenuta discriminazione dei testimoni di Geova da parte di una legge della Regione Abruzzo, non si è più arrestata in apicibus, ma ha individuato quattro criteri concreti alla cui stregua individuare le confessioni religiose107).
In particolare, nel dichiarare affetta da vizio di incostituzionalità – per contrasto con il principio di uguaglianza sancito dal primo comma dell’art. 8 della Costituzione – la legge regionale che subordinava l’accesso ai contributi per l’edilizia di culto alle sole confessioni che avessero stipulato un’intesa con lo Stato, ai sensi del terzo comma dello stesso articolo, la Corte, dopo aver ancora una volta ribadito che, per l’ammissione ai suddetti finanziamenti, non è sufficiente l’autoqualificazione di confessione che eventualmente si dia il gruppo stesso, continua dicendo che “nulla quaestio quando sussista un’intesa con lo Stato. In mancanza di questa, la natura di confessione potrà risultare anche da precedenti riconoscimenti pubblici, dallo statuto che ne esprima chiaramente i caratteri, o comunque dalla comune considerazione”.
Come si concilia il dictum di questa sentenza con quanto affermato in quella del 1992? Come è agevole rilevare anche da un esame sommario dei quattro criteri proposti, solo uno – e precisamente quello costituito dall’intesa con lo Stato, in quanto approvata con un atto che è legge sia sul piano formale che su quello sostanziale – potrebbe essere considerato come un’articolazione, o specificazione, del generico criterio del rinvio all’insieme delle norme dell’ordinamento, così come autorevolmente enunciato meno di un anno prima con la sentenza 467/1992 (che tuttavia non viene neppure richiamata): si rivela però tautologico, e quindi inutile, proprio dove maggiore sarebbe l’esigenza di un sicuro criterio discretivo, e, cioè, nella selezione dell’accesso dei soggetti religiosi alla regolamentazione pattizia dei loro rapporti con lo Stato.
Se, infatti, “a norma dell’art. 8 Cost. lo Stato stipula le intese con le confessioni religiose, è ovvio che se vi è una intesa vi sarà anche una confessione religiosa che l’avrà stipulata, ma questo esercizio lapalissiano non risolve il problema, in quanto non è certo l’intesa che può precedere il riconoscimento di un gruppo come confessione religiosa (e non è, quindi, l’intesa che conferisce al gruppo siffatta qualità), ma è il riconoscimento di detta qualità che deve precedere l’intesa, essendo la condizione primaria per lo stesso avvio delle trattative”108).
Gli altri tre criteri rinviano, invece, non a norme dell’ordinamento, ma a norme statutarie autoprodotte – che non possono, in quanto tali, essere in contrasto con l’ordinamento giuridico, in forza del disposto del secondo comma dell’art. 8 -, alla comune considerazione – criterio eminentemente sociologico di cui si è già vista supra la scarsa pregnanza109) -, ed al riconoscimento pubblico, nella maggior parte dei casi un atto amministrativo: se è vero, infatti, che esso può essere contenuto anche nella stessa legge di approvazione dell’intesa, rimane pur sempre la possibilità che esso venga concesso – secondo la previsione dell’art. 2 della legge 1159/1929 – con decreto del Presidente della Repubblica, e cioè, appunto, per mezzo di un atto amministrativo che, proprio in quanto tale, non può essere emanato contra legem110).
Come giustamente è stato notato da parte della dottrina più autorevole, anche se dagli atti amministrativi di riconoscimento si possono ricavare criteri che non possono non essere applicati in via generale se non al prezzo di cadere nel vizio di eccesso di potere sotto il profilo della disparità di trattamento, tuttavia essi non rientrano comunque nell’insieme delle norme che costituiscono l’ordinamento giuridico, dalle quali poi desumere i caratteri distintivi della confessione religiosa (secondo l’impostazione della sentenza del 1992): ne sono appunto semplicemente un’applicazione, e non possono essere emanati in contrasto con esse111).
Appunto la via amministrativa è stata seguita per il riconoscimento della personalità giuridica all’Unione buddhista italiana112), dopo che il Consiglio di Stato aveva avuto modo di esprimere parere favorevole anche sulla base della considerazione secondo la quale “la circostanza che un’istituzione non svolga riti o li svolga in minima parte, non vale a restringere il campo di operatività dell’articolo 2 della citata legge 24 giugno 1929, n. 1159″113): secondo alcuni autori, tale riconoscimento avrebbe comportato una svolta nel modo di intendere le confessioni religiose, poiché, con l’affermazione del carattere confessionale di una formazione sociale “a-teista”, si sarebbe per così dire ampliato il “paradigma” di religione – e di confessione – rilevante per il nostro ordinamento giuridico114).
Ma, anche a voler accogliere una siffatta nozione “paradigmatica” – di cui si è già sottolineata la scarsa pregnanza -, ed a prescindere dal fatto che il problema del riconoscimento della personalità giuridica è questione diversa dall’identificazione della confessione religiosa, bisogna riconoscere che, per quanto abbiamo appena detto, l’atto amministrativo non ha la forza di innovare l’ordine legislativo, per cui l’ampliamento del paradigma andrebbe comunque ricercato a monte, non nello stesso atto di riconoscimento, bensì in una norma preesistente, che, benché non consacrata in una disposizione testuale, sia “implicitamente ricavabile dall’insieme delle norme prodotte con le intese”115), della quale il decreto non costituisce altro che una semplice applicazione.
In questo senso, l’esame della legge di approvazione dell’intesa con l’Unione delle comunità ebraiche italiane ci fornisce importanti elementi d’indagine: la stessa intesa, infatti, risulta stipulata con una formazione sociale che – come abbiamo ampiamente avuto modo di vedere116) -, “non è riducibile seriamente al concetto di “confessione religiosa””117), presentandosi piuttosto l’ebraismo come un insieme più ampio, e complesso, “di cultura e di religione, di tradizioni e di norme di comportamento, di popolo e di storia”118), e costituendo il popolo ebraico in Italia una minoranza caratterizzata non solamente dall’aspetto religioso, ma anche da quello etnico-linguistico119), tanto che, per alcuni, la questione dei rapporti con la minoranza ebraica in Italia avrebbe potuto agevolmente essere risolta riconducendola interamente nell’ambito dell’art. 6 della Costituzione120).
Tuttavia, intenzionalmente l’Unione delle comunità è venuta ad accettare di autorappresentarsi come una “mera” confessione religiosa, proprio allo scopo di poter stipulare l’intesa con lo Stato121): evidentemente, ciò non sarebbe stato sufficiente a consentirne la stipulazione, se lo Stato l’avesse ritenuta inammissibile perché non concernente i rapporti con una confessione religiosa; invece, l’intesa è stata stipulata sul presupposto che l’ebraismo sia una confessione, presupposto provato unicamente alla stregua dell’autoqualificazione assunta dall’Unione delle comunità122).
Secondo alcuni autori, proprio dalla legge 101/1989, di approvazione dell’intesa con l’Unione delle comunità ebraiche, per quanto abbiamo appena visto, si ricava la norma di cui si diceva supra, e che ha trovato coerente applicazione nell’atto di riconoscimento dell’Unione buddhista con il D.P.R. del 1991: una norma che dà rilievo proprio all’autoqualificazione confessionale della formazione sociale, e che, inoltre – sempre secondo la dottrina de qua -, preclude la possibilità di un sindacato di parte statuale (dal momento che, nel caso dell’intesa ebraica, tale sindacato si sarebbe risolto di certo negativamente, vista l’ordinaria rappresentazione non confessionale che l’ebraismo dà, ed ha, di sé)123).
Ecco che, allora, il criterio dell’autoqualificazione delle confessioni religiose – pur in ipotesi espressamente negato dalla sentenza 467/1992 (almeno nella sua formulazione più “estrema”, di presunzione assoluta che non ammette prova contraria) -, emerge dall’esame appena fatto del contenuto e del significato che può essere attribuito all’elemento del rinvio, operato dalla stessa sentenza, alle norme dell’ordinamento giuridico.
Anche la successiva sentenza 195/1993, del resto, sembra soffrire di qualche difetto di coordinamento, dal momento che, se è vero che pur essa esordisce ribadendo l’esclusione della sufficienza del riferimento alla autoqualificazione confessionale delle formazioni sociali, non si mantiene completamente fedele a questa linea, quando, nell’elencazione dei criteri posti a base dell’individuazione del fenomeno confessionale, giunge ad includere il richiamo allo statuto della – sedicente – confessione religiosa: cioè ad un atto che, rimesso totalmente all’autonomia della formazione sociale, indicandone lo scopo, qualifica quest’ultima come confessione religiosa, sulla base di un procedimento di autoreferenziazione (come è avvenuto, del resto, nel caso dello statuto dell’Unione delle comunità ebraiche)124): volendo conservare alla sentenza in parola una certa coerenza interna, sarà, allora, necessario partire dal presupposto che essa abbia voluto escludere del tutto solamente il criterio della “autoqualificazione estrema”, lasciando, invece, impregiudicata la possibilità di fare riferimento ad una “autoqualificazione relativa”, alla cui stregua i criteri indicati dalla Corte si porrebbero come indici di conferma della natura confessionale dell’ente, in quel procedimento caratterizzato dall’inversione dell’onere della prova di cui si è detto supra125).
La Corte di cassazione126), dal canto suo, ha avuto modo di applicare i criteri proposti dalla Consulta quando è stata chiamata a giudicare dell’applicabilità della qualifica di confessione religiosa alla Chiesa di Scientology, a conclusione di un travagliata vicenda giudiziaria che ha conosciuto fasi alterne nei diversi gradi del giudizio127): rilevando come la mancanza di una definizione legale di religione, e di confessione, siano chiari indici dell’intenzione del Costituente di costruire una nozione la più inclusiva possibile – in modo da non precludere ad alcuno, in via pregiudiziale, l’esercizio della libertà di religione -, la Cassazione ha accolto una interpretazione piuttosto aperta e “flessibile” dei criteri qualificativi proposti dalla Consulta, ma tale da rendere possibile una individuazione dei soggetti confessionali, seppure “in via di prima approssimazione”128).
In particolare, la Suprema corte ha avuto modo di osservare come, per quanto riguarda il criterio dell’esistenza di “precedenti riconoscimenti pubblici”, non sia possibile negare valore, in via pregiudiziale, alle dichiarazioni degli stessi appartenenti alla comunità religiosa; per quanto concerne la “comune considerazione”, invece, la Corte ha chiarito come l’espressione sia diversa – e sottenda altro concetto -, da quella di “opinione pubblica”, mentre per il riferimento allo statuto che esprima chiaramente i caratteri del gruppo, la Cassazione ha ritenuto irrilevanti tanto il sincretismo delle dottrine, quanto la mancanza di originalità e, comunque, di esclusività del credo religioso.
Sembra, allora, che “l’unica via per ascrivere un gruppo alla categoria delle “confessioni religiose” sia di fatto quella empirica, che probabilmente si presta meglio di ogni altra (soprattutto avuto riguardo alla particolare elasticità assegnata dalla Cassazione ai criteri di qualificazione individuati dalla Consulta) a massimizzare la capacità inclusiva del concetto di confessione religiosa elaborato dal Costituente”, e che “in ultima analisi sarà comunque l’autoreferenzialità a rimanere il criterio fondamentale (e l’imprescindibile punto di partenza di ogni processo valutativo) per il riconoscimento della qualità di confessione ai gruppi religiosi”129).
- Cfr. N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., specialmente p. 20 ss., secondo il quale “l’interpretazione dell’art. 8 non può dirsi compiuta, avendo avuto anzi vita grama per lo stato di evidente inferiorità in cui fin dal primo momento quella norma s’era venuta a trovare rispetto al “maggiore” art. 7: non solo perché durante tutti i lavori della Costituente non ne rappresentò che un’umile propaggine, ricevendo autonomia solo dopo l’approvazione dei due commi che costituiscono da soli l’attuale art. 7, ma anche e conseguentemente per la visione riduttiva che ne ebbe la dottrina al cospetto dell’art. 7, interpretato in sé isolatamente, come un hortus conclusus indifferente all’influenza non solo delle altre norme ma anche dei valori della Costituzione materiale”.
- È doveroso rimanere avvertiti che l’espressione de qua, sebbene ormai invalsa, sconta una buona dose di genericità e di ambiguità, intendendosi per “nuovi” anche taluni movimenti di recente introduzione nel nostro Paese, ma di antica e risalente origine in altri contesti, come l’Islam o gli Hare Krishna, ai quali sarebbe certo più confacente riferirsi con la locuzione di “minoranze religiose”: cfr., in tal senso, N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 24, in nota. Nello stesso senso, S. Ferrari, Comportamenti “eterodossi” e libertà religiosa. I movimenti religiosi marginali nell’esperienza giuridica più recente, in FI, 1991, I, c. 271.
- Infatti, almeno fino a tempi recenti, in Italia l’esperienza religiosa è stata limitata a quelle confessioni derivanti dal ceppo ebraico-cristiano, per cui molta è stata la diffidenza verso quelle religioni che professano valori e seguono modelli di comportamento sostanzialmente difformi da quelli recepiti dalla nostra tradizione religiosa: cfr. S. Ferrari, Comportamenti “eterodossi” e libertà religiosa, cit., cc. 271 s., e C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 187.
- Cfr. G. Di cosimo, Alla ricerca delle confessioni religiose, cit., p. 421.
- Cfr. ancora G. Di Cosimo, Alla ricerca delle confessioni religiose, cit., p. 421.
- Così N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa, cit., c. 2988.
- Cfr. M. Tedeschi, I nuovi movimenti religiosi in Italia. Problemi giuridici, in Id., Vecchi e nuovi saggi di diritto ecclesiastico, Milano, 1990, pp. 89 ss.
- Su questa oggettiva difficoltà, cfr. S. Ferrari, La nozione giuridica di confessione religiosa (come sopravvivere senza conoscerla), in Aa. Vv., Principio pattizio e realtà religiose minoritarie, a cura di V. Parlato – G. B. Varnier, Torino, 1995, p. 20. Si veda. anche D. Barillaro, Considerazioni preliminari sulle confessioni religiose diverse dalla cattolica, Milano, 1968, p. 78.
- A proposito del favor religionis, a cui la nostra Carta costituzionale appare ispirata, cfr. G. Dalla Torre, Il fattore religioso nella Costituzione. Analisi e interpretazioni, Torino, 1995, p. 29, secondo il quale, a monte di tale attitudine troviamo la scelta del nostro legislatore costituente di inserire il fatto religioso nel novero delle questioni salienti dell’odierna società, mentre a valle si colloca la produzione del diritto cosiddetto “promozionale”, il cui scopo è quello di allargare le diverse aree di opportunità offerte a cittadini nell’ambito di quelle questioni e di quei punti salienti che il Costituente, con una sua scelta insindacabile, ha inteso privilegiare.
- Così R. Bertolino, L’obiezione di coscienza moderna. Per una fondazione costituzionale del diritto di obiezione, Torino, 1994, pp. 48 s.
- Corte cost., sent. 19 dicembre 1991, n. 467, in Giur. cost., 1991, p. 3807.
- Cfr. S. Ferrari, La nozione giuridica di confessione religiosa, cit., p. 21.
- Cfr. F. Moretti, La dottrina del precedente giudiziario nel sistema inglese, in Contratto e impresa, 1990/2, pp. 680 ss.
- Si tratta della decisione resa nella causa Malnak vs. Yogi, in Federal Reporter, 2d series, 1979, vol. 592, pp. 197 ss.
- Cfr. Malnak vs. Yogi, cit., p. 201, dove i giudici affermano che “the traditional definition was grounded upon a Theistic perception of religion“, e che “the original definition of religion prevalent in this country was closely tied to a belief in God“. Cfr. anche la causa Davis vs. Beason, in U. S. Reports, 1890, vol. 133, pp. 333 ss., specialmente a p. 342, dove la Supreme Court dichiara che il termine di “religione” “has reference to one’s views of his relations to his Creator, and to the obligations they impose of reverence for his being and character, and obedience to his will“. E, ancora nel 1931, il concetto era lo stesso, come risulta dalla sentenza resa in causa United States vs. Macintosh, in U. S. Reports, 1931, vol. 283, pp. 605 ss., specialmente a pp. 633 s., ove viene affermata l’essenza della religione come “belief in a relation to God involving duties superior to those arising from any human relation“.
- Cfr. la decisione Torcaso vs. Watkins, in U. S. Reports, 1961, vol. 367, pp. 488 ss., a p. 495, in cui la considerazione della Supreme Court secondo cui lo Stato non può favorire le religioni fondate sulla fede nell’esistenza di Dio a scapito di quelle basate su altre convinzioni, è accompagnata da un interessante dictum (ivi, in nota), dal quale si evince il rigetto dell’opinione tradizionale per la quale non si ha religione se non c’è la credenza in un essere superiore: e giustamente la Corte porta, a titolo di esempio, il buddhismo ed il taoismo, dichiaratamente di origine orientale, ma non si ferma qui, e si spinge ad affermare – anticipando così quella che sarà la futura evoluzione del concetto, comportante la totale dissoluzione dell’elemento contenutistico -, la natura essenzialmente religiosa di alcuni movimenti presenti nel Paese, la cui riconducibilità alla categoria di movimenti religiosi era dubbia, proprio in forza della detta opinione tradizionale (“Ethical Culture, Secular Humanism and others“).
- S. Ferrari, La nozione giuridica di confessione religiosa, cit., p. 21.
- In tal senso, è interessante la sentenza resa in causa United States vs. Seeger, in U. S. Reports, 1965, vol. 380, pp. 163 ss. – riguardante un caso di obiezione di coscienza al servizio militare -, a p. 176, in cui la questione dell’interpretazione dell’Universal Military Service and Training Act, nella parte in cui contempla il beneficio dell’esenzione dal servizio militare obbligatorio soltanto quando l’obiezione di coscienza del soggetto discenda direttamente dalla sua formazione o fede religiosa (“religious training and belief“, nel testo della legge), è stata risolta mediante una interpretazione estensiva della norma, sulla base della considerazione secondo la quale l’espressione di “religious training and belief” è suscettibile di ricomprendere in sé anche un credo non teista, purché sia, comunque, una sincera convinzione basata su di un essere o su di una fede a cui ogni altra cosa è subordinata o da cui ogni altra cosa è in ultima analisi dipendente (“sincere religious beliefs which [are] based upon a power, or being, or upon a faith, to which all else is subordinate or upon which all else is ultimately dependent“), legittimando così una nozione di religione incentrata su di un credo puramente etico o morale (secondo le asserzioni del convenuto, che aveva esplicitamente affermato le proprie ragioni come “belief in and devotion to goodness and virtue for their own sakes, and a religious faith in a purely ethical creed“, ivi, p. 166). Sulla stessa sentenza, cfr. anche la ricostruzione offertaci da J. A. Robilliard, Religion and the law. Religious liberty in modern English law, Manchester, 1984, p. 62. Le stesse considerazioni si possono riscontrare, sostanzialmente, anche in un’altra sentenza di poco posteriore, nel caso Welsh vs. United States, in U. S. Reports, 1970, vol. 398, pp. 333 ss., in cui l’attore dichiarava semplicemente la propria “opposizione morale” (“moral opposition“) alla guerra (anche se, in questo caso, ci furono tra i giudici opinioni contrastanti). Cfr. anche S. Ferrari, La nozione giuridica di confessione religiosa, cit., pp. 21 s.
- Cfr. P. E. Johnson, Concepts and Compromise in First Amendment Religious Doctrine, in California Law Review, 1984/5, p. 821, secondo il quale “there is no accepted definition of “religion” for constitutional purposes, and no satisfactory definition is likely to be conceived“.
- Cfr., infatti, la decisione della causa Wisconsin vs. Yoder, in U. S. Reports, 1972, vol. 406, pp. 205 ss., in modo particolare a p. 216: “Thoreau’s choice was philosophical and personal rather than religious, and such belief does not rise to the demands of the Religion Clauses. Giving no weight to such secular considerations, however, we see that the record in this case abundantly supports the claim that the traditional way of life of the Amish is not merely a matter of personal preference, but one of deep religious convinction, shared by an organized group, and intimately related to daily living“, dove i giudici – nel vagliare la consistenza dei motivi che, per gli appartenenti alla comunità degli Old Order Amish, giustificano una deroga alle leggi dello Stato sull’istruzione obbligatoria fino ad una certa età -, sembrano tornare ad applicare la distinzione fondamentale tra religione e convinzioni filosofiche e personali.
- Questo, infatti, è il criterio seguito dalla Court of Appeals per la decisione della causa Malnak vs. Yogi, cit., che consiste nel verificare se, nel caso concreto, esistano significativi punti di contatto della sedicente religione con altre la cui qualifica come tali sia, invece, tranquillamente accettata, principalmente con l’ausilio del riferimento a tre indici: la natura fondamentale delle idee presentate, la loro ampiezza ed, infine, l’esistenza di un apparato formale (quale può estrinsecarsi, ad esempio, nella presenza di un’organizzazione, di un clero, o di riti e cerimonie, costituenti stricto sensu il culto).
- I tribunali spagnoli si sono pronunciati diverse volte sul caso Scientology – che tante dispute dottrinali e giurisprudenziali ha sollevato, non solamente in Spagna -, per concludere sempre nel senso dell’inammissibilità dell’iscrizione nel “Registro delle Entità Religiose” della cosiddetta Chiesa scientologica spagnola, per mancanza dei requisiti richiesti dalla legge. Cfr., ad esempio, la decisione del Tribunale supremo, Sala III, del 25 giugno 1990 (in QDPE, 1991-92/1, pp. 356 ss.), in cui il diniego di iscrizione è giustificato sulla base della considerazione secondo cui la Chiesa di Scientologia di Spagna non ha una vera e propria finalità religiosa, in quanto non è basata sulla relazione dell’uomo, come essere spirituale, con un Dio trascendente, ma accetta l’esistenza di un Dio creatore soltanto come componente essenziale dell’essere umano, da cui deriva una filosofia morale puramente umanistica tendente al controllo della soggettività: la finalità religiosa, richiesta dalla legge per ottenere l’iscrizione nel registro suddetto, esclude dal suo ambito tutto ciò che abbia relazione con lo studio dei fenomeni psichici, parapsicologici o spiritualistici. Nello stesso senso si è pronunciato anche il Tribunale costituzionale, Sez. II, con la sentenza 29 giugno 1988 (in QDPE, 1989/1, pp. 347 ss.), secondo la quale è legittimo e costituzionale il diniego d’iscrizione, poiché dal raffronto delle norme statutarie dell’ente con i requisiti richiesti dalla legge, non è possibile riconoscere allo stesso natura e finalità essenzialmente religiose.
- Cfr., in questo senso, A. Motilla, Aproximación á la categoria de confesión religiosa en el derecho español, in DE, 1989, I, pp. 145 ss.
- Cfr. J. Robert, Note de jurisprudence, in Revue du droit public et de la science politique en France et a l’étranger, 1985/2, p. 502.
- Cfr. G. Koubi, Droit et religions: dérives ou inconséquences de la logique de conciliation, in Revue du droit public et de la science politique en France et a l’étranger, 1992/3, pp. 725 ss., specialmente a p. 729, dove la studiosa si richiama, a titolo esemplificativo, a due pronunce del Conseil d’Etat, la prima del 6 giugno 1986, che rigettò la richiesta dell’associazione “Troisième église du Christ Scientiste” in quanto, a detta del Consiglio, il gruppo non aveva finalità esclusivamente cultuali; la seconda, del 29 ottobre 1990, che respinse la richiesta della “Ass. cultuelle de l’Église apostologique arménienne de Paris“, sulla base della considerazione secondo cui l’associazione in parola aveva per oggetto non tanto il fine di culto in quanto tale, ma piuttosto “la promozione della vita spirituale, educativa, sociale e cultuale della comunità armena”. In tal senso, più di recente, cfr. anche la decisione del Conseil d’Etat del 17 giugno 1989 (in QDPE, 1990/1, pp. 505 s.), secondo la quale, ai sensi della legge del 1905, non è qualificabile come associazione di culto quella che non ha il fine di provvedere alle spese per il mantenimento o per l’esercizio pubblico di un culto.
- Si tratta della pronuncia del Conseil d’Etat del 1 febbraio 1985, in Revue du droit public et de la science politique en France et a l’étranger, 1985/2, pp. 508 s., ampiamente commentata da J. Robert, Note de jurisprudence, cit., pp. 497 ss. Osserva qui il commentatore (pp. 507 s.), che le motivazioni addotte dal Consiglio non possono essere poste a base di una simile decisione, se non al prezzo di mettere in discussione il principio della laicità della Repubblica francese, poiché tale principio è incompatibile con il sindacato, di parte statuale, sulla meritevolezza del contenuto dei dogmi, delle pratiche, e del credo di una data religione. Indubbiamente, prosegue l’A., è questa una strada estremamente pericolosa, ma allora sarà legittimo supporre, in nome dell’ordine pubblico, che anche la religione musulmana non abbia titolo ad essere considerata come tale, dallo Stato francese, perché prevede l’uso del digiuno nel mese del Ramadan – uso che sarebbe contrario all’ordine pubblico in quanto metterebbe in pericolo la salute dei singoli fedeli -, per non parlare, poi, della pratica secolare dell’escissione, o “circoncisione faraonica”, sulle donne, questa sì suscettibile di mettere in serio pericolo la vita umana, e quindi più facilmente passibile di contrastare con i diritti alla salute ed alla vita costituzionalmente garantiti. E che dire, poi, riguardo alla Chiesa cattolica, che è notoriamente ostile all’aborto ed alla contraccezione, anche se adottati in via profilattica a protezione della vita della donna che non possa portare avanti una (ennesima) gravidanza senza mettere a repentaglio la propria vita? Eppure, in questi due casi, non si è ragionato sulla base del contrasto di siffatti princìpi dottrinali con quelli dell’ordine pubblico dello Stato, come, invece, è stato fatto nel caso dei testimoni di Geova. Nasce, allora, il sospetto che siano stati utilizzati due pesi e due misure, o che, piuttosto, la ratio decidendi della sentenza del Conseil d’Etat, così come enunciata, sia puramente retorica, e adottata ex post per giustificare un dispositivo a cui si sia arrivati per altre vie e per altri motivi, non enunciati espressamente nella decisione, perché privi di un autonomo rilievo giuridico. Valgono, anche qui, le considerazioni avanzate a proposito della situazione spagnola.
- Cfr. la decisione del Tribunale amministrativo federale del 19 novembre 1980, citata da F. Messner, Peut-on définir juridiquement la religion? L’exemple de la République Fédérale d’Allemagne, in L’année canonique, 1988, p. 341.
- Cfr. C. Mirabelli, Chiese e confessioni religiose nell’ordinamento costituzionale della Repubblica federale tedesca. Spunti comparativistici, in Aa. Vv., Individuo, gruppi, confessioni religiose nello Stato democratico, Milano, 1973, pp. 515 ss., in cui l’A. riporta il caso della Concordia Gemeinde, che nel 1954 chiese il riconoscimento pubblicistico e se lo vide negare dal Landesverwaltungsgericht di Hannover, sulla base dell’assunto secondo cui nel caso in esame mancava il requisito della peculiarità della credenza religiosa, la Concordia Gemeinde non distinguendosi sostanzialmente dalla LandesKirche evangelico-luterana, alla quale in precedenza era appartenuta.
- Cfr. ancora C. Mirabelli, Chiese e confessioni religiose nell’ordinamento costituzionale della Repubblica federale tedesca, cit., p. 513. Cfr. anche F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 72, in nota.
- La definizione è di R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico. Valori religiosi e società civile, Torino, 1998, p. 70, che sottolinea il fatto che così la disposizione sarebbe stata “applicabile non solo nei confronti delle confessioni (a quel tempo) venerate e conosciute ma anche nei confronti di quelle che in futuro avrebbero potuto sorgere e svilupparsi”. Sostanzialmente, nello stesso senso, cfr. N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 38, secondo il quale “in presenza di trasformazioni sociali e culturali così profonde da investire anche la dimensione “religiosa” della persona umana la proposizione di un modello di confessione storicamente determinato e datato all’età della Costituente si risolverebbe in un’opposizione pregiudiziale a tali processi, aderente ad una visione continuista con il vecchio ordinamento e incompatibile con il nuovo modello di tutela prefigurato dall’art. 2 della Costituzione”.
- Cfr. P. Sassi, Quid est vera religio? I giudici italiani e la Chiesa di Scientology, in Corr. giur., 1997/10, p. 1213. Cfr. anche G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 66.
- Cfr. A. Vitale, Corso di diritto ecclesiastico. Ordinamento giuridico e interessi religiosi, Milano, 1998, p. 120. Anche se, a causa della posizione da sempre ricoperta dalla Chiesa cattolica, nel sistema dello Statuto albertino ci si riferiva più facilmente ad essa come alla “religione dello Stato”, e nelle disposizioni della legge delle guarentigie come alla “Chiesa” tout court, riservando così il termine di “culti” alle minoranze religiose. Cfr. anche N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 32.
- Cfr. P. Sassi, Quid est vera religio?, cit., p. 1214.
- Così A. Vitale, Corso di diritto ecclesiastico, cit., p. 120. In senso conforme a quanto specificato nel testo, cfr. anche N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., pp. 32 ss.
- N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 34.
- Cfr. A. Ravà, Contributo allo studio dei diritti individuali e collettivi di libertà religiosa nella Costituzione italiana, Milano, 1959, pp. 106 s.
- Cfr. P. Sassi, Quid est vera religio?, cit., p. 1214.
- Cfr. S. Ferrari, La nozione giuridica di confessione religiosa, cit., p. 20, secondo il quale “entrambi i profili vanno tenuti presenti, ma senza inquinare con la preoccupazione pratica di evitare possibili abusi il lavoro teorico di qualificazione della nozione giuridica di confessione religiosa”.
- Cfr., per tutti, P. A. d’Avack, Trattato di diritto ecclesiastico italiano. Parte generale, Milano, 1978, p. 335: “le comunità religiose non cattoliche vanno distinte (e su ciò tutti sono d’accordo) in due grandi categorie diverse, e cioè nelle associazioni e nelle confessioni”; Id., Introduzione, in Aa. Vv., Le intese tra Stato e confessioni religiose, cit., p. 11. V. anche P. Gismondi, Lezioni di diritto ecclesiastico. Stato e confessioni religiose, Milano, 1975, p. 95, secondo il quale la contrapposizione tra associazioni e confessioni emerge all’evidenza “anche da una superficiale indagine degli art. 8 e 19 Cost.”.
- Contra, C. Mirabelli, L’appartenenza confessionale. Contributo allo studio delle persone giuridiche nel diritto ecclesiastico italiano, Padova, 1975, pp. 140 s., secondo il quale le due tipologie di formazioni sociali “muovono su piani diversi e diverso è l’interesse tutelato dalle disposizioni costituzionali che ad esse fanno riferimento, pur se comune è il bene protetto”. Cfr. anche G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 66, che, se può essere d’accordo, in linea di massima, sulla distinzione tra confessioni ed associazioni, per lo meno a fini interpretativi, dichiara però che “non è convincente la collocazione in scala gerarchica di questi due concetti, per cui l’associazione è senza dubbio un minus rispetto alla confessione, e viceversa”:
- Cfr., al riguardo, A. C. Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, Milano, 1979, p. 95: “il concetto di confessione religiosa non è in sé giuridico, ma è piuttosto assunto dal diritto cogliendolo nel campo della sociologia”.
- Così A. C. Jemolo, Le libertà garantite dagli artt. 8, 19 e 21 della Costituzione, cit., p. 407: “non c’è mai stato dubbio che il legislatore adopera questi termini, confessione religiosa, culto, chiese, assumendoli col significato che hanno nella coscienza comune, rifacendosi cioè, si potrebbe dire, alle relative entità sociali”. Nello stesso senso, cfr. T. Mauro, Considerazioni sulla posizione dei ministri dei culti acattolici nel diritto vigente, in Aa. Vv., Studi in onore di Vincenzo Del Giudice, Milano, 1953, II, pp. 111 s., che tuttavia continua dicendo che non sembra del tutto impossibile l’individuazione di un criterio più sicuro, e più concreto, di quello del riferimento alla coscienza sociale. Secondo C. Mirabelli, L’appartenenza confessionale, cit., p. 140, “trattandosi della disciplina giuridica di una manifestazione della vita sociale, storicamente mutevole, sembra legittimo il ricorso al comune sentire”.
- Cfr. N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 41.
- D. Barillaro, Considerazioni preliminari sulle confessioni religiose diverse dalla cattolica, cit., pp. 120 s., che continua dicendo che “la realtà sociale che il legislatore cerca è quella cui egli deve riferirsi e che deve regolare”
- N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 43. Cfr. anche C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 188, secondo il quale accogliendo la tesi criticata nel testo, finirebbe sostanzialmente trascurata, ed emarginata, “la fase di formazione o di sviluppo, che ogni confessione religiosa attraversa prima di affermarsi con caratteri di stabilità ed autosufficienza: dimodoché, prevedere una soglia, prima della quale non sono operanti le garanzie ordinamentali, implica la attenuazione arbitraria di diritti e prerogative che sono diretti a tutelare la dinamica religiosa e confessionale”.
- F. Bolognini, I rapporti tra Stato e confessioni religiose nell’art. 8 della Costituzione, Milano, 1981, p. 47,: cfr. ancora N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., pp. 42 s.
- P. Gismondi, Lezioni di diritto ecclesiastico, cit., p. 98, il quale tuttavia considera, insieme al carattere tradizionale, anche determinati requisiti istituzionali. Contra, C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1976, II, p. 1178, per il quale questa tesi circoscriverebbe “eccessivamente ed in modo inaccettabile il concetto”.
- C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico , cit., p. 188.
- Così F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 74. Cfr. anche C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 189.
- Così C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, cit., p. 1178, che ritiene che “quindi, contrariamente a quanto sostiene il Gismondi, nulla sarebbe da opporre al riconoscimento della qualifica [di confessione] […] di gruppi di mussulmani, se essi riuscissero a radicarsi stabilmente ed a raccogliere intorno a loro schiere non troppo esigue di fedeli. Nello stesso senso, A. C. Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, cit., p. 104, che afferma che “possono aversi nuove confessioni o penetrare in Italia confessioni che fin qui esistevano in altri Stati. Peraltro riteniamo che debba esigersi perché possa parlarsi di una confessione religiosa di un minimo di durata, ed anche un minimo, sia pur ristretto, di appartenenti; non ogni bizzarria che duri l’espace d’un matin, non ogni gruppo di una dozzina di persone, pure dandosi regole scritte, sarà a considerarsi una confessione”. Contra, F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., pp. 72 s., che auspica che gli interpreti facciano leva su altri, e più pregnanti, criteri. Cfr. anche R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 71.
- Così F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., pp. 74 s. della stessa opinione è G. Dalla Torre, Il fattore religioso nella Costituzione, cit., p. 67. Cfr. anche G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 67, che parla di “unicità di credo”, rispecchiata da una “originale visione del mondo”.
- Un’interessante impostazione della questione è rinvenibile in G. Filoramo, I nuovi movimenti religiosi. Metamorfosi del sacro, Roma-Bari, 1986, p. 14, secondo il quale, nella soluzione di questo complesso problema in cui entrano in gioco molteplici varianti, si possono dare almeno quattro possibilità, che, per usare una metafora, sarebbero le seguenti: “può darsi il caso di un vino vecchio in un otre nuovo (novità dello stile di vita, di tipo formale o sociologico); di un vino nuovo in un otre vecchio (novità di tipo dottrinale, che può presentarsi in forme sociologiche tradizionali); di vino nuovo in otre nuovo (è il caso, raro, di vere e proprie religioni); o, infine, di vino vecchio in otre vecchio (risposte di tipo neotradizionalista)”. Secondo N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 49, seguendo questa classificazione l’originalità potrebbe essere riconosciuta, oltre che ai movimenti del terzo gruppo, al più a quelli del secondo, che comunque non sarebbero originali stricto sensu, dato che fondono insieme vari elementi di teologie preesistenti.
- N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 48. Come abbiamo osservato nel precedente paragrafo, talvolta la giurisprudenza tedesca ha fatto ricorso proprio a questo criterio, dell’originalità della fede professata, per giustificare il diniego di concessione del riconoscimento pubblicistico: cfr. C. Mirabelli, Chiese e confessioni religiose nell’ordinamento costituzionale della Repubblica federale tedesca, cit., p. 517.
- N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 53, che prosegue dicendo che “il fatto religioso è diverso non meno che universale e rende difficile, se non impossibile, l’individuazione dell’elemento comune alle diverse forme religiose, che consenta di definirle come tali”.
- Cfr. C. Magni, Avviamento allo studio analitico del diritto ecclesiastico, Milano, 1956, specialmente p. 77.
- Per l’importanza dell’elemento liturgico nella qualificazione di una confessione propende decisamente A. C. Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, cit., pp. 104 s. Cfr. anche, in senso sostanzialmente conforme, T. Mauro, Considerazioni sulla posizione dei ministri dei culti acattolici nel diritto vigente, cit., p. 112, che precisa come “a caratterizzare un “culto”, o meglio una confessione religiosa, occorre il concorso di due elementi (princìpi e riti): il che significa, in ultima analisi, che, ove non voglia tenersi conto della natura speciale che presentano i princìpi essenzialmente religiosi, diretti cioè a regolare i rapporti tra l’uomo e Dio, il fattore decisivo per identificare una confessione religiosa consista precisamente nell’esistenza di un complesso di riti e quindi di un culto in senso stretto, onde l’uso di tale termine per indicare qualunque confessione religiosa sarebbe da ritenere quasi sintomatico”. Cfr. F. Finocchiaro, Art. 8, cit., p. 389, che definisce la religione come “quel complesso di dottrine costruito intorno al presupposto dell’esistenza di un Essere trascendente, che sia in rapporto con gli uomini, al quale è dovuto rispetto, obbedienza ed anche, secondo alcune di tali dottrine, amore. La comunità, che faccia propria una fede trascendente, la esterna attraverso riti ed atti di culto, diretti a manifestare l’ossequio (adorazione, venerazione, ecc.) verso l’eccellenza di quest’Essere supremo, al quale la comunità si sente legata e al quale, attraverso tali riti, chiede un atteggiamento benevolo”.
- Conforme sul punto, N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 45, secondo il quale “il problema della nozione delle confessioni religiose si pone non per le religioni tradizionali, ormai comunemente considerate come tali, ma per quelle non tradizionali”.
- P. A. d’Avack, Trattato di diritto ecclesiastico italiano, cit., p. 335. Cfr. anche L Spinelli, Diritto ecclesiastico, cit., p. 226. Contra, S. Lariccia, Diritto ecclesiastico, cit., specialmente a p. 106.
- Così P. Gismondi, L’interesse religioso nella Costituzione, in Giur. cost., 1958, p. 1229. Cfr. anche C. Esposito, Libertà e potestà delle confessioni religiose, in Giur. cost., 1958, p. 900, che parla di confessione religiosa “quando esiste una realtà sociale istituzionalmente destinata alla realizzazione del fine religioso”, e D. Barillaro, Considerazioni preliminari sulle confessioni religiose diverse dalla cattolica, cit., pp. 89 ss. Contro questa tesi si è schierato, ancora una volta, C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, cit., p. 1178, che la definisce senz’altro troppo generica e quindi inutile.
- A. Ravà, Contributo allo studio dei diritti individuali e collettivi di libertà religiosa nella Costituzione italiana, cit., p. 108.
- Cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 74.
- Cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 73. Nello stesso senso, anche T. Mauro, Considerazioni sulla posizione dei ministri di culto acattolici nel diritto vigente, cit., pp. 112 s., secondo il quale “a chiunque guardi attentamente questo vasto mondo, apparirà incontestabile come, accanto a confessioni religiose dotate di una perfetta e complessa organizzazione giuridica, si fondi essa su norme scritte o semplicemente consuetudinarie, ve ne siano invece delle altre, dove questa struttura organizzativa giuridica si presenta in forma assai rudimentale e in proporzioni quanto mai ridotte ovvero sembra addirittura del tutto inesistente, limitandosi, in quest’ultimo caso, i rapporti tra i singoli membri a vincoli di natura puramente religiosa o morale”. Contra, L. Spinelli, Diritto ecclesiastico, cit., pp. 226 s.
- Così C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 189. In senso conforme, cfr. anche R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 71.
- S. Ferrari, La nozione giuridica di confessione religiosa, cit., p. 30.
- S. Ferrari, Stato e Chiesa in Italia, in Aa. Vv., Stato e Chiesa nell’Unione Europea, a cura di G. Robbers, Milano-Baden-Baden, 1996, p. 189.
- S. Ferrari, Stato e Chiesa in Italia, cit., p. 189. Cfr. anche Id., La nozione giuridica di confessione religiosa, cit., pp. 34 s.
- S. Ferrari, La nozione giuridica di confessione religiosa, cit., p. 30.
- R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 72.
- Cfr. R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 72.
- Così S. Lariccia, Diritto ecclesiastico, cit., pp. 104 ss.
- C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 190. Aggiunge R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 73, che “la stessa attuazione della tutela presuppone un processo di individuazione delle confessioni non solo rispetto alle associazioni religiose, ma anche rispetto alle altre confessioni”.
- C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 190. Cfr. anche Id., Manuale di diritto ecclesiastico, cit., pp. 187 ss. Come nota anche G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”, cit., p. 67, “determinante per una confessione religiosa è l’animus degli appartenenti: è la loro volontà di costituire una formazione religiosa unica a qualificarla come confessione”. Conforme, R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 77.
- La cui collocazione nell’ambito dell’ordinamento viene ad essere differenziata “non perché spetti loro una libertà minore rispetto a quella delle confessioni, bensì perché questa libertà è finalizzata ad un oggetto differente: riconoscimento giuridico come associazione; tutela della attività svolte; disciplina dell’eventuale patrimonio; e via di seguito”: così C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico , cit., pp. 190 s.
- Cfr. N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p.82.
- C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 190.
- Cfr. N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., pp. 77 s.
- V. supra, § 2.4.
- N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 79.
- N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., pp. 82 s.
- Così N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 95. Cfr. anche P. Sassi, Quid est vera religio?, cit., p. 1217.
- Cfr. ancora N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., p. 87.
- V. supra, § 3.1.
- Significativa ci pare la vicenda cosiddetta dei “ribelli di Harrisburg”, così come riportata da S. Ferrari, La nozione giuridica di confessione religiosa, cit., pp. 19 s., che “stanchi di pagare le tasse, decisero che il modo migliore di evitare questa fastidiosa incombenza era quello di trasformarsi in una confessione religiosa. Si affiliarono quindi ad una Chiesa californiana ed ottennero di essere ordinati in blocco ministri di culto: dopo di che invocarono le esenzioni stabilite dalla legge degli Stati Uniti per questa categoria di cittadini. Sorprendentemente, le ottennero: infatti gli amministratori locali, che nel frattempo si erano convertiti anch’essi alla nuova fede, dichiararono di non essere in grado di definire la nozione di confessione religiosa e, nel dubbio, applicarono le disposizioni più favorevoli”.
- Requisiti che, d’altronde, non si sottraggono, secondo C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 188, ad “obiezioni giuridiche e logiche insieme”.
- Cfr. G. Di Cosimo, Sostegni pubblici alle confessioni religiose, tra libertà di coscienza ed eguaglianza, in Giur. cost., 1993, pp. 2174 s.
- Cfr. F. Finocchiaro, Diritto ecclesiastico, cit., p. 69. Lo stesso principio di laicità, così come affermato nella più volte citata sentenza costituzionale 203/1989, ci porta ad una simile conclusione: secondo N. Colaianni, Confessioni religiose e intese, cit., pp. 76 s., il principio di laicità si pone “al sommo della gerarchia delle fonti normative, sicché esso non può essere derogato non solo da leggi ordinarie, ma neppure dalla norma contenuta nell’art. 8 della Costituzione formale, se interpretata nel senso che essa consentirebbe ai poteri dello Stato di entrare nel merito delle finalità perseguite da una formazione sociale e di stabilirne il carattere religioso o di altro genere”. A questo proposito, è interessante l’esame del parere del Consiglio di Stato, Sez. I, 30 luglio 1986, n. 1390, in QDPE, 1986, pp. 503 ss., sulla questione del riconoscimento della personalità giuridica alla Congregazione cristiana dei testimoni di Geova. Cfr. anche G. Di Cosimo, Alla ricerca delle confessioni religiose, cit., p. 427, e Id., Privilegi per le confessioni religiose: chi certifica l’autenticità dei motivi di coscienza?, in Giur. cost., 1992, p. 4235.
- V. supra, § 3.3.
- Cfr. G. Di Cosimo, Alla ricerca delle confessioni religiose, cit., p. 429.
- Cfr. G. Di Cosimo, Alla ricerca delle confessioni religiose, cit., p. 429.
- Cfr. G. Di Cosimo, Alla ricerca delle confessioni religiose, cit., p. 430. Anche per C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., pp. 190 s., lo Stato non può limitarsi alla presa d’atto dell’autocertificazione allegata dal gruppo religioso. Conforme, R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 74.
- Così, G. Di Cosimo, Sostegni pubblici alle confessioni religiose, cit., p. 2175.
- G. Di Cosimo, Alla ricerca delle confessioni religiose, cit., p. 431.
- Cfr. G. Di Cosimo, Sostegni pubblici alle confessioni religiose, cit., p. 2175.
- G. Di Cosimo, Alla ricerca delle confessioni religiose, cit., p. 431.
- Così G. Di Cosimo, Alla ricerca delle confessioni religiose, cit., pp. 431 s.
- G. Di Cosimo, Privilegi per le confessioni religiose, cit., p. 4244. Anche per N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa, cit., c. 2992, non vi è “nessun dubbio sulla possibilità di controllo dell’autoqualificazione, ma essa è eventuale e avviene in un secondo momento, quello processuale”.
- Cfr. N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa, cit., c. 2993.
- Cfr. G. Di Cosimo, Alla ricerca delle confessioni religiose, cit., p. 432. Cfr. anche Id., Privilegi per le confessioni religiose, cit., p. 4244.
- Così, infatti, N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa, cit., c. 2991.
- Così R. Bertolino, L’obiezione di coscienza, in DE, 1983, I, p. 338, in riferimento alla legge sull’obiezione di coscienza al servizio militare del 1972, che prevedeva l’istituzione di apposita commissione con il compito di vagliare la fondatezza e la sincerità dei motivi del soggetto richiedente.
- Corte cost., sent. 19 novembre 1992, n. 467, in DE, 1992, II, pp. 305 ss.
- Cfr. G. Di Cosimo, Privilegi per le confessioni religiose, cit., p. 4224.
- G. Di Cosimo, Privilegi per le confessioni religiose, cit., p. 4225. Le stesse considerazioni possono essere avanzate a proposito degli altri due criteri proposti, in alternativa, nella stessa sentenza, e costituiti dalla “natura reale dell’ente” e dalla “attività in concreto esercitata”.
- N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa, cit., c. 2993.
- Si veda, ad esempio, la nota sentenza 23 giugno 1956, n. 3, in FI, 1956, I, cc. 1072 ss., nella quale la Corte afferma recisamente che non si può “non tenere il debito conto di una costante interpretazione giurisprudenziale, che conferisce al precetto legislativo il suo effettivo valore nella vita giuridica, se è vero, come è vero, che le norme sono non quali appaiono proposte in astratto, ma quali sono applicate nella quotidiana opera del giudice, intesa a renderle concrete ed efficaci”. Nello stesso senso, cfr. N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa, cit., c. 2993.
- N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa, cit., c. 2993.
- Corte cost., sent. 27 aprile 1993, n. 195, in DE, 1993, II, pp. 189 ss.
- R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 74.
- Tale criterio, di risalente formulazione, come si è visto supra, è posto disgiuntamente rispetto agli altri tre, come risulta dalla congiunzione “o”, ed è quindi di applicazione residuale rispetto ad essi, essendo l’unico utilizzabile per quelle confessioni che, prive di intesa ed anche di pubblico riconoscimento, non siano neppure dotate di uno statuto: cfr. N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa, cit., c. 2995.
- Cfr. N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa, cit., c. 2993.
- Cfr. N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa, cit., c. 2994.
- V. il D.P.R. 3 gennaio 1991, in G.U., 28 febbraio 1991, n. 50.
- Cons. Stato, Sez. I, par. 29 novembre 1989, n. 2158, in QDPE, 1991-92/1, p. 531.
- Cfr. S. Ferrari, La nozione giuridica di confessione religiosa, cit., p. 33.
- N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa, cit., c. 2994.
- V. supra, § 1.1.
- A. Villani, Lo statuto delle comunità ebraiche nel quadro dell’intesa con lo Stato italiano, cit., p. 899. Cfr. anche N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa, cit., c. 2994.
- G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 81.
- Cfr., per tutti, R. Bertolino, Ebraismo italiano e l’intesa con lo Stato, cit., p. 556. V. anche R. Botta, L’attuazione dei princìpi costituzionali e la condizione giuridica degli ebrei in Italia, cit., p. 155. Su questo punto, amplius, supra, § 1.1.
- A questo proposito, cfr. A. Villani, Lo statuto delle comunità ebraiche nel quadro dell’intesa con lo Stato italiano, cit., p. 906.
- Cfr. G. Fubini, L’intesa, in RMI, 1986/1, p. 34. “L’ebraismo è tante cose insieme […]. Di questo erano bene coscienti i nostri interlocutori in tutto il periodo della trattativa per l’intesa; più volte hanno ritenuto di ricordarci che la Costituzione della Repubblica, seppur prevede la tutela con apposite norme delle minoranze linguistiche (art. 5), non prevede le intese né con le minoranze linguistiche né con le diverse componenti culturali, ma solo con le confessioni religiose (art. 7 e 8): se vogliamo l’intesa con lo Stato, dobbiamo presentarci come una confessione religiosa”.
- Cfr. N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa, cit., c. 2994. Cfr. anche Id., Confessioni religiose e intese, cit., p. 83.
- Cfr., ancora, N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa, cit., c. 2994.
- Cfr. P. Sassi, Quid est vera religio?, cit., pp. 1217 s. Nello stesso senso, cfr. N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa, cit., c. 2995.
- Per R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., pp. 74 s., “il ragionamento della Corte può essere condiviso laddove afferma che non può bastare che un gruppo si autoqualifichi come confessione religiosa, perché tale qualità sia ad esso senz’altro riconosciuta, ma occorre una indagine suppletiva per verificare se al riconoscimento di siffatta qualità concorrano anche “precedenti riconoscimenti pubblici”, o il gruppo abbia uno “statuto che ne esprima chiaramente i caratteri”, o esista una “comune considerazione” del gruppo stesso quale confessione”: noi possiamo concordare con questa opinione, a patto che detta “indagine suppletiva” parta dal presupposto della esistenza di una confessione, per trovare successiva conferma, o smentita, sulla base degli indici così prospettati dalla Corte.
- Cass., Sez. VI pen., sent. 22 ottobre 1997, n. 1329, in QDPE, 1997/3, pp.1017 s.
- Si vedano, infatti, le sentenze di Trib. Torino, Sez. IV pen., 23 aprile 1996, in Corr. giur., 1997/10, pp. 1202 ss., e App. Milano, Sez. IV pen., 14 febbraio 1997, n. 4314, in QDPE, 1997/3, pp. 1019 ss.
- Cass., sent. 1329/1997, cit., p. 1018.
- Così, con singolare chiarezza, R. Botta, Manuale di diritto ecclesiastico, cit., p. 77.