L’intesa delle comunità israelitiche
Antonio Zappino
Università degli Studi Di Torino – Facoltà di Giurisprudenza –
Relatore: Rinaldo Bertolino – Anno Accademico 2000
- Introduzione
- Capitolo 1 – L’ebraismo, “Modo di vita”
- Capitolo 2 – Cenni storici
- Capitolo 3 – Confessioni religiose e ordinamento
- Capitolo 4 – La legge 8 marzo 1989, n. 101
- Bibliografia – Abbreviazioni – Sigle
Introduzione
Com’è noto al giurista che si occupa delle tematiche attinenti ai diritti fondamentali, ma, più in generale, a chiunque abbia a cuore i problemi della libertà religiosa, gli anni Ottanta sono stati testimoni, nel nostro Paese, di una svolta decisiva nella storia dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose. Dopo quasi un quarantennio dall’entrata in vigore della Costituzione – e con una straordinaria coincidenza di tempi – si sono, infatti, finalmente avviate a soluzione due questioni che, sin dall’emanazione della Carta fondamentale, hanno ricoperto un ruolo di vitale importanza nel panorama normativo del diritto ecclesiastico italiano: da una parte, la revisione del Concordato del 1929 con la Chiesa cattolica ha portato a termine un processo che si trascinava, con alterne vicende, sin dal 19671); dall’altra, l’apertura di quella che in dottrina è stata definita come la “stagione delle intese”2) con le confessioni religiose diverse dalla cattolica, ha fatto sì che una parte assai importante della Costituzione repubblicana, che era fino ad allora rimasta confinata sul piano dei princìpi, trovasse finalmente attuazione sul piano sostanziale, con la fondazione su nuove e più solide basi del diritto di libertà religiosa delle confessioni di minoranza, ché, parlando di confessioni religiose diverse dalla cattolica, è doveroso tenere presente che di minoranze si tratta, in un Paese, quale il nostro, in cui la grande maggioranza dei cittadini è di fede cattolica.
Come sempre accade in occasione delle grandi svolte legislative, il cambiamento di rotta della politica ecclesiastica italiana è stato accompagnato, in itinere, da un profondo rinnovamento degli studi in materia. Del resto, non avrebbe potuto essere diversamente, dal momento che l’attuazione dell’art. 8 della Costituzione, con l’avvio della summenzionata “stagione delle intese” – un processo ben lungi dall’essere esaurito, come dimostrano le recenti intese con la Congregazione cristiana dei testimoni di Geova3) e con l’Unione buddhista italiana4), alla firma delle quali si è giunti solamente nel marzo di quest’anno, mentre i musulmani rimangono ancora nella “lista d’attesa” -, ha permesso di delineare un assetto delle relazioni ecclesiastiche imperniato, ora, sulla tutela e sulla promozione del quid proprium che caratterizza ciascuna confessione – proprio quel quid che, lo anticipiamo sin da ora, nella precedente legislazione “uniformatrice” non poteva ipso facto trovare salvaguardia -, e questo grazie alla presa di coscienza, da parte del contemporaneo Stato di diritto, che la conservazione – e, soprattutto, la valorizzazione – della specifica identità e del patrimonio religioso, storico e culturale di ciascun gruppo minoritario, lungi dal rappresentare elementi di “devianza”, costituiscono, piuttosto, preziosi fattori di arricchimento, di crescita e di sviluppo della realtà sociale e culturale dell’intero Paese. Come avverte la dottrina più sensibile, del resto, il livello di civiltà democratica e la qualità “liberale” di un determinato ordinamento giuridico si possono desumere, tra l’altro, anche dal trattamento che, da esso, viene riservato alle organizzazioni sociali di minoranza5).
Indubbiamente, una società pluralista e rispettosa della libertà religiosa di tutti i cittadini può esistere anche in un ordinamento separatista stricto sensu, come dimostrano, ad esempio, il sistema francese o quello degli Stati Uniti d’America; nondimeno, con la migliore dottrina, siamo convinti che, quando si intenda non ignorare le differenze in materia religiosa, ma, anzi, offrire ad una minoranza religiosa la possibilità concreta di conservare la propria specifica identità, il procedimento pattizio rimanga lo strumento che meglio tutela le esigenze dell’interlocutore confessionale, le cui peculiarità, in mancanza di uno ius particulare chiesto e concordato, verrebbero irrimediabilmente “compresse” dalla normativa generale, imparziale sì, ma livellatrice della minoranza alla maggioranza6); è ovvio, comunque, che questo regime differenziato per ogni singola confessione dovrà essere giustificato dalle reali diversità nelle pratiche di culto e dalle concrete esigenze di ogni interlocutore confessionale, per non obliterare – con norme che avrebbero, altrimenti, sapore privilegiario – i fondamentali princìpi della parità e dell’uguaglianza dei cittadini e delle confessioni, nel rispetto dell’imparzialità e dell’aconfessionalità dello Stato di diritto contemporaneo7).
In questo quadro d’insieme così tratteggiato, il nostro lavoro costituisce un’indagine volta a verificare se, e come, l’intesa conclusa tra la Repubblica italiana e l’Unione delle comunità ebraiche sia riuscita nel difficile compito di rispondere alle specialissime esigenze di tutela manifestate dalla realtà ebraica in ragione delle peculiarità che da sempre la caratterizzano – tutelando, nella sostanza, non solo quella che, come avremo modo di vedere ampiamente, si configura come una vera e propria “libertà religiosa intesa in senso ebraico”8), ma anche, ad un livello superiore, la stessa complessa e stratificata identità ebraica, che non si risolve affatto nel solo elemento religioso stricto sensu inteso -, rispettando allo stesso tempo, come si è appena detto, la parità e l’uguaglianza dei cittadini e delle confessioni.
Ogniqualvolta ci si accinga ad effettuare una determinata investigazione che debba sottostare a ben precisi canoni di sistematicità, prima ancora di chiarire l’ambito scientifico su cui si intende porre le basi per l’intero lavoro, è necessario essere coscienti delle eventuali difficoltà che si incontreranno lungo il cammino, per poterle così più agevolmente superare. Al riguardo, sentiamo di dover fare fino in fondo nostro quanto è stato affermato, dalla dottrina più autorevole, circa alcuni non irrilevanti ostacoli che si frappongono ad una adeguata trattazione del complesso tema che forma oggetto della nostra riflessione, tra i quali spicca, indubbiamente, quello costituito dall’impossibilità per chi, come noi, ebreo non è, di cogliere e valorizzare in modo sufficientemente adeguato, e a tutto tondo, gli innumerevoli tratti peculiari che contraddistinguono la realtà ebraica, e che di certo sarebbero meglio illustrati – e, prima ancora, compresi – da chi di quei valori abbia compiuto opera di assimilazione, facendoli, fin nell’intimo, propri9).
Anche per questo, abbiamo scelto di anteporre alla vera e propria disamina dell’intesa ebraica, nei primi tre capitoli, una serie di premesse, che ci sono sembrate di una certa utilità nel predisporre le basi sulle quali poggerà, poi, la verifica che ci siamo proposti di effettuare.
Il primo capitolo, dedicato a tratteggiare – nei limiti del possibile, date le difficoltà sopra accennate – alcune delle peculiarità che fanno, della realtà ebraica, un fenomeno incontestabilmente unico nella storia umana sia passata che recente, si pone, nonostante la propria sinteticità, come la premessa logico-giuridica dell’intero lavoro.
Uno dei tratti forse più caratteristici della realtà ebraica, è quello di costituire un fenomeno che, sebbene assai modesto e contenuto sul piano quantitativo, è presente, direttamente o indirettamente, in moltissimi luoghi, tanto che avversari e sostenitori, ammiratori e detrattori, sono sempre stati colpiti dalla enorme sproporzione esistente tra le dimensioni quantitative e quelle qualitative del fenomeno. Mentre, come risulta da alcune rilevazioni – i dati sono aggiornati al 1997 -, la popolazione ebraica mondiale difficilmente riesce a raggiungere i quattordici milioni di componenti, è stato stimato che, in Italia, gli ebrei non superino le quarantamila unità; per contro, è sotto gli occhi di tutti quanto essi – o, meglio, le loro vicende – siano al centro dell’interesse generale10).
In effetti – come è già stato rilevato dalla dottrina -, al tema dell’intesa tra l’Unione delle comunità ebraiche e lo Stato soggiace una questione di ben più grande momento, rappresentata dalla collocazione stessa dell’ebraismo all’interno dell’ordinamento giuridico costituzionale del nostro Paese11), costituendo il popolo ebraico in Italia una minoranza caratterizzata non solamente dall’aspetto religioso, ma anche da quello etnico-linguistico12), tanto che, per alcuni studiosi, la questione dei rapporti dello Stato con la minoranza ebraica avrebbe potuto essere risolta con la sua riconduzione nell’ambito dell’art. 6 della Costituzione13).
Al di là delle varie suggestioni, vedremo brevemente come sia praticamente impossibile riuscire a dare una definizione, al contempo sintetica ed esauriente, di cosa sia l’ebraismo14), una realtà che – come avremo modo di constatare anche in altre parti del lavoro – non è semplicemente ed unicamente riducibile al concetto di “confessione religiosa”15), ma che è, piuttosto, inquadrabile in un insieme più complesso “di cultura e di religione, di tradizioni e di norme di comportamento, di popolo e di storia”16), un vero e proprio modus vivendi comprendente ogni aspetto della vita del fedele, ed in cui l’aspetto strettamente religioso, proprio in quanto sfaccettatura di una vasta e composita realtà sociale ed istituzionale che si presenta assai più articolata17), non può essere considerato isolatamente dagli altri caratteri senza snaturare l’essenza del “tutto”.
Partendo dalla considerazione secondo cui il diritto di libertà religiosa trova il proprio fondamentale presupposto nel principio di uguaglianza, sarà poi nostra cura evidenziare come il passaggio dalla concezione meramente negativa, o garantista, dei diritti di libertà, tipica dello Stato di fine Ottocento, a quella positiva, propria del moderno Stato sociale, abbia a propria volta segnato il passaggio da un sistema giuridico imperniato sull’uguaglianza formale, ad uno incentrato, ora, sull’uguaglianza sostanziale, il cui sostrato più profondo ed autentico, come vedremo, è costituito dal diritto alla diversità18), ovverosia, il diritto a conservare la propria identità – sia sul piano strettamente individuale che su quello collettivo – e a vederla dagli altri rispettata19), nel quadro di un pluralismo (anche) confessionale nel cui ambito, in forza del riconoscimento dell’esistenza, all’interno dello stesso ordinamento statuale, di altri ordinamenti giuridici anch’essi a carattere originario20), la libertà religiosa si configura, in ultimo, come la “eguale libertà di ciascuno di conformarsi al proprio ordinamento”21), se è vero che, come dimostreremo proseguendo nell’analisi, le confessioni religiose ben possono essere considerate come ordinamenti giuridici originari, e non derivati, da quello di parte statuale.
Avanzando per approfondimenti successivi giungeremo, infine, a rilevare come proprio l’ebraismo, questo complesso millenario di leggi e di norme religiose e civili indissolubilmente connesse, costituisca l’esempio paradigmatico di confessione-ordinamento giuridico – tanto che l’estrema importanza attribuita a queste leggi e tradizioni, oltre alla speciale considerazione da sempre riservata all’apporto dottrinale e giurisprudenziale dei maestri ed interpreti delle norme e tradizioni ebraiche, hanno indotto parte degli studiosi ad identificare l’ebraismo con lo stesso diritto ebraico22) -, così che il diritto di libertà religiosa inteso come libertà di conformarsi al proprio ordinamento, di cui si è appena detto, tradotto sul piano ebraico si risolve, in ultimo, nel diritto di essere ebrei, e come tali poter liberamente vivere: in questo consiste, ne siamo assolutamente convinti, lo stesso fondamento costituzionale su cui poggia la necessità di tutelare la specifica identità tanto degli ebrei come singoli, quanto dell’ebraismo come istituzione collettiva.
Historia magistra vitae: nulla sembra essere più vero di questo antico adagio latino, dal momento che solo attraverso l’indagine storica siamo in grado di comprendere ed assimilare nei suoi veri, definiti contorni, la realtà del presente. Pensiamo, infatti, che nessuna istituzione o vicenda umana possa essere esaustivamente compresa e giustificata, almeno circa la propria ragion d’essere, senza avere previamente considerato le cause che la produssero e le vicende che ne mutarono il corso, ne specificarono le funzioni, ne garantirono il perdurare, o ne decretarono, invece, la scomparsa.
A questo scopo, nel secondo capitolo daremo conto dei presupposti storici che hanno costituito il sostrato dei rapporti tra lo Stato e le confessioni religiose dall’Unità fino ai giorni nostri, mediante una “rilettura” della storia della politica ecclesiastica del nostro Paese, effettuata, ex post, alla luce dell’attuazione dell’art. 8 della Costituzione.
Cercando di delineare, seppure per sommi capi, la condizione giuridica dell’ebraismo italiano nelle varie “stagioni” attraversate dalla nostra politica ecclesiastica, avremo modo di constatare come tale politica, nell’arco di meno di un secolo, non solo abbia subìto un’evoluzione che in altri ordinamenti ha coperto un arco temporale ben più consistente23), ma sia stata anche caratterizzata dal fatto che ogni “tappa” di questo particolarissimo iter si è svolta in netta antitesi rispetto alla precedente: infatti, il passaggio allo Stato liberale di fine Ottocento prima, e poi da questo al regime autoritario, per giungere, infine, al periodo democratico-costituzionale e, in ultimo, all’apertura della “stagione delle intese”, ha visto l’attuazione di sistemi totalmente diversi di relazioni ecclesiastiche, e, di conseguenza, una differente condizione giuridica dell’ebraismo italiano.
Al riguardo, bisogna rilevare che, in prospettiva storica, la condizione giuridica dell’ebraismo è coincisa solo in parte con quella delle altre confessioni religiose diverse dalla cattolica, dal momento che, addirittura prima dell’Unità, la realtà ebraica italiana venne sottoposta ad una regolamentazione apprestata ad hoc, la c.d. “legge Rattazzi” sulle università israelitiche del 1857, sulla cui genesi ci soffermeremo per rilevare come il provvedimento in questione, formalmente unilaterale, ma emanato con la collaborazione di parte ebraica, sia stato all’origine di quella “bardatura pubblicistica” che segnò l’inizio della perdita di autonomia delle comunità israelitiche – accettata, tuttavia, di buon grado dalla maggioranza di esse, in ragione dell’uniformità di regolamentazione che la legge poteva, in tal modo, garantire loro – anche se è da dire che, dopo l’Unità, la legge Rattazzi non venne mai estesa a tutto il territorio del Regno.
Se, fino ai primi decenni del Novecento, lo Stato liberale riuscì a proteggere in modo soddisfacente i diritti di libertà delle minoranze religiose con l’uguaglianza di tutti i cittadini e di tutti i culti di fronte alla legge24), la svolta fascista non portò invece nulla di buono per le confessioni di minoranza, non solo relegate in quel “coacervo anonimo degli indistinti”25) creato dalla legge sui culti ammessi del 1929, ma sottoposte ad un regime di polizia sempre più restrittivo. Anche in questo caso, ci soffermeremo brevemente sulla genesi della legislazione sulle comunità israelitiche del 1930-31, che, nonostante costituisse un passo decisivo per il ritorno alla disuguaglianza dei culti e dei cittadini – che trovò il suo apice con le leggi razziali del 1938 -, fu ben accolta dai vertici ebraici, che vedevano in essa un forte fattore di stabilità.
All’indomani dell’entrata in vigore della Costituzione, la situazione di fatto costituitasi vedeva il permanere sia della legge sui culti ammessi che di quella sulle comunità israelitiche, e detto contrasto della legislazione ordinaria con i valori consacrati nella Carta costituzionale trovava il suo climax proprio nei confronti della confessione ebraica, atteso che alle generali limitazioni previste nei confronti di tutte le minoranze religiose si aggiungevano, per gli ebrei, numerose limitazioni al diritto di libertà religiosa inteso in “senso ebraico”: si pensi alle violazioni imposte, nell’ambito delle collettività organizzate, al divieto di consumare determinati cibi, alle prescrizioni religiose relative al riposo sabbatico, o alla macellazione rituale26).
Anche in forza di questo ordine di considerazioni, se è vero che il raggiungimento di un’intesa con lo Stato rappresenta un importante traguardo per tutte le confessioni religiose, per la realtà ebraica del nostro Paese la messa in opera dello strumento pattizio ha avuto addirittura una portata storica, atteso che i compilatori del progetto, trovatisi di fronte all’alternativa se limitarsi a modificare la normativa vigente – per espungerne i tratti più marcatamente in conflitto con la Costituzione -, o rivedere radicalmente il sistema, creando istituti nuovi e più rispettosi delle peculiarità che, da tempo immemorabile, contraddistinguono l’ebraismo, hanno optato per quest’ultima soluzione, dando finalmente un colpo di spugna a quella legislazione, relitto di un remoto passato, alla quale più d’uno s’era ormai “assuefatto” all’interno dello stesso ebraismo, così che il dibattito sul rinnovamento della realtà ebraica italiana si è trascinato a lungo in accese dispute, fino a che nel 1987 l’ebraismo italiano ha saputo finalmente autodefinirsi ed autodisciplinarsi, dandosi per la prima volta un libero statuto, in vista della stipulazione dell’intesa con lo Stato27).
Al termine di questo excursus storico, il terzo capitolo sarà dedicato allo sviluppo ed all’approfondimento di un tema che, pur non attinendo esclusivamente all’intesa ebraica, si colloca, in un certo qual modo, a monte dell’intera questione della regolamentazione bilaterale dei rapporti ecclesiastici: la ricerca del concetto di “confessione religiosa”.
Al di là del fatto che alla base di questa ricerca vi è pure un nostro interesse personale, riteniamo che non si tratti soltanto di una sterile ricerca, bensì di un proficuo approfondimento dei concreti fondamenti sui quali si regge, in definitiva, il sistema pattizio delineato dall’art. 8 della Costituzione, se è vero che destinataria della intesa è proprio la confessione religiosa, un’entità che tutti siamo convinti di conoscere e poter identificare, ma che, non appena avviciniamo lo sguardo, ci accorgiamo di quanto l’espressione usata per definirla si riveli difficile da circoscrivere nei suoi precisi confini semantici ed ambiti di identificazione. Eppure quella che, fino a due decenni fa, poteva ancora sembrare una questione scolastica, con l’apertura della “stagione delle intese” ha cominciato a rivestire la massima importanza, data la necessità di stabilire quali siano i gruppi legittimati, in concreto, ad accedere all’intesa, per evitare possibili abusi dati dal dilagare della “religiosità” delle formazioni sociali finalizzata solamente a fruire delle norme di favore28).
Dopo aver constatato come questo problema non sia esclusivo appannaggio del nostro ordinamento, attraverso l’esame della dottrina e della giurisprudenza straniere, passeremo alla rassegna ed all’analisi critica delle tesi prospettate dalla nostra dottrina maggioritaria, dimostrando come anche le soluzioni da questa proposte continuino ad essere ben lungi dal soddisfare, soffrendo tutte di una certa “forzatura”.
Quasi giunti a “tirare le fila” del nostro discorso, vedremo, infine, come solo la più recente giurisprudenza della Corte costituzionale sia giunta, quasi “inconsciamente”, ad una convergenza con le tesi formulate, de iure condendo, da una parte minoritaria della dottrina che, nella nostra opinione, sembra aver inquadrato la situazione in una accettabile prospettiva, dimostrando, in definitiva, come la tesi che più di ogni altra pare cogliere meglio l’essenza del fenomeno, trovi un aggancio proprio in una disposizione ricavabile dall’intesa dello Stato con l’Unione delle comunità ebraiche.
Esaurite così le premesse, e gettate le fondamenta del nostro lavoro, nel quarto capitolo potremo finalmente entrare in medias res, affrontando l’analisi dell’intesa tra la Repubblica italiana e l’Unione delle comunità ebraiche, per verificare, si è detto, se, e come, la complessa e multiforme identità dell’ebraismo come istituzione collettiva, e degli ebrei come singoli, sia stata adeguatamente racchiusa, e sufficientemente tutelata – senza, per questo, creare norme che sappiano di privilegio -, in quell’accordo con lo Stato che si pone come il momento conclusivo dell’ampio e travagliato dibattito svoltosi, all’interno dell’ebraismo italiano, circa il rinnovamento da dare alla realtà ebraica del nostro Paese, un dibattito che, iniziato nel 1977, ha avuto un andamento conclusivo soltanto a partire dal 198529), così che l’intesa ebraica, il cui negoziato era iniziato in parallelo a quello per l’intesa con la Tavola valdese, ha potuto vedere la luce soltanto a conclusione della prima “stagione delle intese”30).
Abbiamo ritenuto opportuno prendere in considerazione non l’intesa ex se, ma, piuttosto, la normativa risultante dal relativo provvedimento di approvazione – la legge 8 marzo 1989, n. 10131), come modificata dalla legge 20 dicembre 1996, n. 63832), di approvazione dell’intesa “integrativa” dello stesso anno -, sulla base di una duplice considerazione: in primo luogo, nel nostro ordinamento, solo gli atti costituenti legge, sia sotto il profilo formale che sotto quello sostanziale, hanno la capacità di innovare il sistema normativo; in secondo luogo, l’intesa è stata trasfusa praticamente in toto nella legge di approvazione – eccezion fatta per il primo comma dell’art. 19 e per l’art. 34, oltre che per il preambolo, che non sono stati inseriti nella legge 101/1989 -, con lo slittamento di un numero nella serie degli articoli, con la conseguenza che l’unica, apprezzabile differenza tra l’intesa e la relativa legge di approvazione viene a risiedere in un fattore puramente formale, costituito, per l’appunto, dalla diversa numerazione degli articoli33). Anche quando, per comodità di esposizione, ci si riferirà alla “intesa ebraica”, occorrerà quindi rimanere avvertiti che il richiamo a specifici articoli è da intendersi riferito all’impianto normativo della relativa legge di approvazione.
Rimandando alle considerazioni conclusive il risultato della verifica che ci siamo impegnati a compiere – non avrebbe alcun senso, infatti, anticipare qui un esito che, per sua stessa natura, deve scaturire da una meditata e graduale analisi delle norme, inquadrate nel loro giusto contesto -, in questa sede è sufficiente sottolineare la complessità dell’impianto normativo che, come vedremo, costituisce l’intesa ebraica, costruita su diversi piani – talora reciprocamente sovrapposti – che, a loro volta, danno origine ad altrettante prospettive di lettura, nell’ambito delle quali cercheremo di inquadrare le disposizioni pattizie volta a volta al nostro esame.
Il primo piano a venire in considerazione – fondamentale ai fini della nostra ricerca -, è quello del reclamo della libertà di essere sé stessi e, pertanto, allo stesso tempo uguali e diversi dagli altri, nel convincimento che ciascuna realtà confessionale sia diversa dall’altra, ma, non per questo, meno degna di uguale tutela del proprio specifico patrimonio34). La relativa prospettiva di lettura, ovviamente, sarà ravvisabile in quel diritto alla diversità in cui trovano dispiegamento le esigenze specifiche dell’ebraismo, in conformità al già menzionato diritto di conservare la propria identità e di vederla dagli altri rispettata35), e che interessa soprattutto la libertà degli ebrei uti singuli.
Il secondo piano, invece, è quello del rifiuto di ogni posizione privilegiaria, ma con la contemporanea rivendicazione dell’adattamento all’ebraismo – mediante la trasposizione, in campo ecclesiasticistico, del principio internazionalistico della “clausola della nazione più favorita”36) – di migliori modelli o discipline previsti per altre confessioni. Qui, la prospettiva di lettura è quella del diritto all’uguaglianza, nel cui ambito andranno ricondotti i diversi “contatti” che, come vedremo, esistono tra l’intesa ebraica ed il testo dell’Accordo di Villa Madama, connessi principalmente alla tutela dell’uguale libertà dell’ebraismo come confessione religiosa organizzata.
Passando, infine, al terzo piano, esso origina dalla consapevolezza, da parte ebraica, del contributo all’evoluzione ed alle scelte della società civile che l’ebraismo italiano, con l’intesa, viene ad offrire37), e si colloca nella prospettiva della partecipazione, la quale, pur risultando dalla reciproca sovrapposizione delle due precedenti, assume una propria, autonoma connotazione nel momento in cui si venga a riconoscere il ruolo che l’ebraismo italiano può avere, ed il contributo che può dare, al processo di arricchimento e di progresso della collettività nazionale.
- Cfr. G. Long, Le confessioni religiose “diverse dalla cattolica”. Ordinamenti interni e rapporti con lo Stato, Bologna, 1991, p. 42.
- Così, R. Botta, L’intesa con gli israeliti, in QDPE, 1987, p. 95. Cfr. anche Id, Manuale di diritto ecclesiastico. Valori religiosi e società civile, Torino, 1998, p. 91.
- Il testo dell’intesa è stato pubblicato in Il Regno. Documenti, 2000/9, pp. 293 ss.
- Il testo è stato pubblicato in Il Regno. Documenti, 2000/9, pp. 289 ss.
- Cfr. R. Bertolino, Ebraismo italiano e l’intesa con lo Stato, in Aa. Vv., Il nuovo accordo tra Italia e Santa Sede, a cura di R. Coppola, Milano, 1987, p. 557, e S. Lariccia, Diritto ecclesiastico, Padova, 1986, p. 127.
- Cfr. G. Sacerdoti, Libertà religiosa e rapporti con le confessioni: contro un ritorno al separatismo, in Pol. dir., 1996/1, p. 127.
- Cfr. V. Tozzi, La cooperazione per mezzo di accordi fra Stato e confessioni religiose ed i princìpi di specialità ed uguaglianza, in DE, 1990, I, p. 132.
- Così, G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia. Dal diritto all’uguaglianza al diritto alla diversità, Torino, 1983, p. 133. Nello stesso senso, cfr. anche G. Fubini, Ebraismo italiano e problemi di libertà religiosa, in Aa. Vv., Teoria e prassi delle libertà di religione, Bologna, 1975, p. 726.
- Cfr. R. Bertolino, Ebraismo italiano e l’intesa con lo Stato, cit., p. 555.
- Cfr. P. Stefani, Gli ebrei, Bologna, 1997, p. 7.
- Cfr. R. Bertolino, Ebraismo italiano e l’intesa con lo Stato, cit., p. 555.
- Cfr. R. Botta, L’attuazione dei princìpi costituzionali e la condizione giuridica degli ebrei in Italia, in DE, 1982, I, p. 155.
- A questo proposito, cfr. A. Villani, Lo statuto delle comunità ebraiche nel quadro dell’intesa con lo Stato italiano, in Aa. Vv., Studi in memoria di Mario Petroncelli, Napoli, 1989, II, p. 906.
- Cfr. R. Bertolino, Ebraismo italiano e l’intesa con lo Stato, cit., p. 555.
- Così, A. Villani, Lo statuto delle comunità ebraiche nel quadro dell’intesa con lo Stato italiano, cit., p. 899. Cfr. anche N. Colaianni, Sul concetto di confessione religiosa, in FI, 1994, I, c. 2994.
- G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 81.
- Cfr. D. Tedeschi, Presentazione della intesa con lo Stato al congresso straordinario dell’Unione delle comunità israelitiche italiane, in RMI, 1987/1-2, p. XVII.
- Cfr. G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 138, e G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, Torino, 1998, p. 118.
- Cfr. G. Fubini, Variazioni sull’art. 5 della Costituzione, ovvero della libertà di essere diseguali, in FI, 1960, IV, c. 201.
- Cfr. ancora G. Fubini, Variazioni sull’art. 5 della Costituzione, cit., specialmente cc. 201 s.
- Così, G. Fubini, La condizione giuridica dell’ebraismo italiano, cit., p. 118.
- Cfr. G. Fubini, Il diritto ebraico. Le problematiche del rapporto con lo Stato in Italia, in Aa. Vv., Normativa ed organizzazione delle minoranze confessionali in Italia, a cura di V. Parlato – G. B. Varnier, Torino, 1992, p. 105.
- Cfr. C. Cardia, Manuale di diritto ecclesiastico, Bologna, 1996, p. 156.
- Cfr. P. Gismondi, L’autonomia delle confessioni acattoliche, in Aa. Vv., Raccolta di scritti in onore di Arturo Carlo Jemolo, Milano, 1963, I, 2, p. 637.
- Così, G. Peyrot, Significato e portata delle intese, in Aa. Vv., Le intese tra Stato e confessioni religiose. Problemi e prospettive, a cura di C. Mirabelli, Milano, 1978, p. 50.
- Cfr. G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 133.
- Cfr. G. Disegni, Ebraismo e libertà religiosa in Italia, cit., p. 169.
- Cfr. G. Di cosimo, Alla ricerca delle confessioni religiose, in DE, 1998, I, p. 421.
- Cfr. G. Sacerdoti, Attuata l’intesa tra lo Stato italiano e le Comunità ebraiche. Il commento, in Corr. giur., 1989/8, p. 819.
- Cfr. R. Bertolino, Ebraismo italiano e l’intesa con lo Stato, cit., p. 595.
- In G.U., 23 marzo 1989, n. 69, suppl. ord.
- In G.U., 21 dicembre 1996, n. 299.
- Cfr. G. Sacerdoti, Attuata l’intesa tra lo Stato italiano e le Comunità ebraiche, cit., p. 819.
- Cfr. R. Bertolino, Ebraismo italiano e l’intesa con lo Stato, cit., pp. 580 s.
- Cfr. G. Fubini, Variazioni sull’art. 5 della Costituzione, cit., c. 201.
- G. Fubini, Verso l’intesa fra lo Stato e l’ebraismo italiano, in DE, 1980, I, p. 358.
- Cfr. R. Bertolino, Ebraismo italiano e l’intesa con lo Stato, cit., pp. 580 s.