Michele Lupo
Ha un bel dire il grande Mario Bortolotto nel suo “Wagner l’oscuro” che il farceur di Lipsia non era attendibile nelle sue prese di posizione teorico-politiche (dubbi che il musicologo nutre persino per quelle musicali – “non si dà una misura obiettiva, esterna, per i discorsi wagneriani”).
Bortolotto legge l’antisemitismo di Wagner intanto come “una manifestazione di stizza e di gelosia verso il mestiere di Mendelssohn” laddove una certa, occulta ammirazione verso gli ebrei il musicista non l’avrebbe rivelata nemmeno ai migliori amici ma si sarebbe di fatto svelata nei rapporti più stretti – i “pianisti di casa”, alcuni interpreti, il super-banchiere N. Cohn amministratore del suo teatro a Bayreuth.
Ma un fatto indubitabile e, temo, più cogente, sta lì, il feroce libello “Il giudaismo nella musica” (1850), apparso finalmente in edizione integrale da noi grazie alle edizioni Mimesis.
Il testo dubbi ne lascia pochi: al netto di qualsivoglia ermeneutica psicoanalitica è lì, dannatamente prossimo all’oscena retorica che dal pangermanesimo coevo avrebbe devastato l’Europa sino ad Auschwitz. Comprese le peggiori idiozie sull’aspetto fisico degli ebrei e il paradossale vittimismo del carnefice che si atteggia a oppresso.
Opportunismo istrionico? Regolare i conti con un padre controverso, secondo altre interpretazioni a caccia di ombre? Sparare nel mucchio per colpire il talentuoso ma “inutile” Mendelssohn, o Meyerbeer (che pure assai si adoperò per lui) e altri ancora? Pretendere il riconoscimento di una primazia che solo un pubblico contaminato dall’influenza ebraica deviava verso musicisti ed estetiche opposte alle sue?
Il curatore del volume Leonardo Distaso vede invece l’ideologia razziale di Wagner come omogenea alla sua est(etica) musicale (secondo la ben nota lezione di Adorno e Fubini). Sicché lo sforzo – titanico davvero – di ricreazione di una mitografia germanica qual è quella esemplata nella “Tetralogia” appare affatto conforme a una storia tragica ventura.
L’edizione in questione riporta anche la nota del 1869 – un ventennio trascorso invano, non bastevole a far cambiare idea al musicista. Il dettato resta delirante e mette in secondo piano l’eventualità che agiscano torbide ragioni inconsce, meccanismi complessi di rimozione e fantasmatiche vendette. Se gli ebrei, per Wagner, sono imbelli se non all’imitazione, alla parodia – falsità di fondo che ne fa latori di tutti i mali del mondo – la fantomatica purezza dell’anima tedesca (non solo musicale evidentemente) non può che confliggere con l’attitudine alle mésalliances – come dire, se ci si pensa un momento, con il Novecento.
La musica dell’avvenire – stante la grandezza di un artista monumentale – sarebbe andata da un’altra parte: come paradosso niente male (pur riconoscendo al febbrile teoreta il diritto di protestare: ché a costituire il suo progetto era un’arte dell’avvenire, non una mera musica ma, come ognun sa, un’arte totale – Wort-Ton-Drama).
Inetti soprattutto al canto, gli ebrei del pamphlet, essendo il canto “prodotto dalla più alta passione” (di cui essi sarebbero privi). Possono “scimmiottare”, non creare nel giusto e nel vero. Cosa riservata ai tedeschi – non è forse Tannhäuser un pangermanista come il suo autore? La rivoluzione wagneriana, suggerisce Distaso, è interna a un’idea di rinascita tedesca e pertanto legata, in concetto e sentimento, al Volk più o meno immaginifico ma centrale a un preciso progetto ideologico terminato con i forni crematori.
Col che non si sta attribuendo una patente di nazismo ante-litteram al torrido genio del “Tristano” ma si sceglie, nel commentare onestamente il libello, di mettere a fuoco un passaggio, un’esperienza dell’arte e del pensiero dell’Ottocento assai problematiche. Che restano tali, in fondo, a giudicare dal titolo del suo splendido libro, anche per il vertiginoso Bortolotto.
Richard Wagner
Il giudaismo nella musica
Mimesis
2016, 171 pagine, 15 €