Presentazione del volume di Ermenegildo Bertola “L’eternità del mondo in Mosè Maimonide e altri scritti (1949-1996)”
Vercelli
“E’ grande lo studio che porta all’azione”, sentenziarono gli antichi Maestri d’Israele. Presentiamo questo pomeriggio gli scritti di un illustre vercellese del Novecento che è stato contemporaneamente uomo di studio e uomo di azione: il Professore-Senatore Ermenegildo Bertola. Impegnato a suo tempo nella Resistenza partigiana, nella Costituente e senatore della Repubblica per più legislature, fu anche docente e valente studioso di filosofia medioevale, con particolare riguardo per il pensiero ebraico.
Viene ora ripubblicato per i pregevoli tipi della casa editrice Salomone Belforte una serie di suoi saggi dedicati a questo tema e in particolare al più illustre dei filosofi ebrei, Maimonide. Bertola fu introdotto alla conoscenza del pensiero ebraico dal Rav Ugo Massiach che fu Rabbino a Vercelli negli anni bui della persecuzione razziale[1]: considerata l’epoca, un atteggiamento davvero coraggioso da parte di entrambi. A sua volta Bertola ha influenzato verso questi studi Rav Giuseppe Laras, come quest’ultimo dichiara nella prefazione al volume.
Nel solco della tradizione talmudica e maimonidea[2] permettetemi di iniziare con una milta di-bdichuta, una barzelletta. A un congresso internazionale si incontrano archeologi greci e israeliani. A prendere la parola per primi sono i greci. “Recentemente abbiamo intrapreso nuovi scavi ad Atene”, esordiscono. “E cosa avete trovato?” domandano gli israeliani. “Cavi metallici sotterranei!”, rispondono i greci. “E cosa significa questo secondo voi?”, chiedono gli israeliani. “Significa che noi greci ai tempi di Pericle avevamo già il telefono”, è la risposta. Segue il turno degli israeliani, i quali cominciano: “anche noi recentemente abbiamo iniziato degli scavi a Gerusalemme”. “E cosa avete trovato?” domandano i greci. “Assolutamente niente”, rispondono gli israeliani. I greci, visibilmente compiaciuti dell’esito del confronto, chiedono allora: “E questo, cosa significa per voi?” “Semplicissimo –rispondono gli israeliani-: Significa che noi ebrei al tempo di David e di Salomone avevamo già il cordless!”
Il confronto fra cultura greca e cultura ebraica è al centro del dibattito intellettuale in Occidente da secoli. Non ha senso domandarsi chi abbia prevalso. Entrambe le attitudini, prima ancora che le culture, hanno contribuito a plasmare la coscienza europea, ciascuna secondo le proprie particolarità. L’incontro è avvenuto una prima volta nella tarda antichità, attraverso l’ellenismo. Si pensi a Filone d’Alessandria. E’ l’epoca in cui la tradizione biblica viene conosciuta e apprezzata anche al di fuori del mondo ebraico e nasce il cristianesimo. Ma il momento successivo, circa mille anni più tardi, è stato non meno fecondo. Mi riferisco al grande laboratorio della filosofia medioevale. Le tre religioni monoteiste si confrontano e hanno bisogno di presentarsi con un linguaggio “scientifico” che dia alle rispettive dottrine una veste universalmente comprensibile: questo sarà fornito dalla filosofia greca. I pionieri furono i musulmani, protagonisti all’epoca di una fioritura che forse non si è mai più riprodotta nella loro storia successiva con tanta intensità. I nomi di pensatori come Al Farabi, Avicenna e Averroè sono universalmente noti. Da ultimo sono arrivati i cristiani, con Tommaso d’Aquino. Questi hanno riscoperto il pensiero greco prevalentemente attraverso la mediazione degli ebrei. Senza il coraggio dei pensatori ebrei il valore della filosofia di Gerusalemme non sarebbe stato garantito a fianco di quella di Atene[3].
Ermenegildo Bertola è a suo volta un pioniere degli studi ebraici in Italia oggi. Egli intuì che “il pensiero ebraico e giudaico è ancora poco conosciuto anche dagli studiosi del pensiero medioevale, nonostante che, per la sua originalità, la sua profondità e la sua complessa tematica… la conoscenza di esso sia importante per la storia del pensiero in genere e per la storia del pensiero medievale cristiano e musulmano in particolare”[4]. Il suo interesse per la filosofia tomistica lo porta a ricercarne le fonti proprio nella filosofia ebraica medioevale: Sa’adyah Gaon, Yehudah ha-Levy, Levi ben Ghereshon, il Sefer Yetzirah e in particolare Maimonide. Scrive Bertola su quanto siamo venuti dicendo: “Può sembrare a tutta prima che la posizione del Maimonide, tra aristotelismo e giudaismo, sia simile a quella di Filone tra platonismo e mosaismo, in quanto sia l’uno che l’altro tentarono di accordare la religione ebraica con il pensiero greco. Ma ben diverso è in realtà il loro atteggiamento per chi esamina la loro posizione storica. Filone è un platonico che non vuol rinunziare alla sua fede, il Maimonide invece è un dotto giudeo che non vuol rinunziare alla sua scienza. Questo si muove nel campo della tradizione giudaica, quello si muove nel campo della filosofia platonica… L’uno voleva dimostrare che la religione giudaica poteva stare alla pari con la speculazione greca; l’altro invece vuol far servire, adattandolo, il pensiero greco alla religione giudaica. Ecco perché Filone si accosta a Platone mentre il Maimonide trova più conveniente collegarsi ad Aristotele”[5].
Maimonide è stato in realtà assai più che un filosofo. Nacque a Cordova in Spagna il 30 marzo 1135, vigilia della Pasqua ebraica, sotto dominio arabo. Un rivolgimento dinastico portò al potere il gruppo fondamentalista degli Almohadi che lo costrinse a emigrare in Marocco e poi in Oriente. Trascorse l’età matura a Fostat in Egitto, dove gli giunse la tragica notizia della morte di suo fratello in un naufragio: un ricco mercante che manteneva la famiglia. Maimonide si dedicò allora all’esercizio della medicina e pochi anni dopo divenne il medico personale di Saladino, che lo avrebbe nominato naghìd (governatore) della Comunità Ebraica d’Egitto. Morì il 13 dicembre 1204 (20 tevet). Le sue opere principali in ordine cronologico furono tre: il Commento alla Mishnah con le sue introduzioni, fra le quali ci interessano qui particolarmente gli “Otto Capitoli” (Shemonah Peraqim) con la dottrina etica; il compendio di diritto talmudico Mishneh Torah che è considerato uno dei testi fondamentali della halakhah e della ritualistica ebraica; e il Moreh Nevukhim (la “Guida degli Smarriti”), il suo principale testo filosofico. Senza prendere in considerazione i trattati di medicina.
Più di una volta Bertola parla di sincretismo a proposito del pensiero di Maimonide. Il termine è riduttivo e certamente impreciso, nella misura in cui presuppone nell’uomo di spirito una mancanza di originalità propria: come se si limitasse ad assemblare materiali di provenienza differente e su questi costruisse una sintesi. Non è così. Maimonide è a tutti gli effetti un portavoce della tradizione ebraica: i suoi contenuti derivano interamente dalla Mishnah e dal Talmud, oltre che della Bibbia, come Bertola stesso riconosce. Il ricorso alla filosofia aristotelica è essenzialmente una questione di linguaggio: come se si trattasse di una valigia adeguatamente ripartita per consentire il riordino e il trasporto delle proprie masserizie. O, se vogliamo, la ricerca di un appoggio razionale a conferma, dove ciò fosse possibile, del dato della Rivelazione che resta preminente[6]. La stessa dottrina del giusto mezzo, sulla quale ci concentreremo in seguito, è già presente nelle fonti ebraiche ben prima che nell’Etica Nicomachea. Si veda per esempio Proverbi 4,27: “Non deviare né a destra, né a sinistra, leva il tuo piede dal male”; o 30,8: “non darmi né povertà, né ricchezza: dammi il mio pane quotidiano”. Nel Talmud gerosolimitano è scritto che “la Torah assomiglia a due sentieri: uno di fuoco e uno di neve. Deviando da una parte si perisce nel fuoco, deviando dall’altra si perisce nella neve. Che cosa dunque si deve fare? Si proceda nel mezzo, senza deviare né da una parte, né dall’altra”[7].
La scelta operata da Maimonide ha provocato certamente una vasta controversia dopo la sua morte, ma è semplicistico parlare genericamente di una contrapposizione fra Rabbini e Filosofi: se non altro per il fatto che, come nel caso di Maimonide, spesso i due ruoli erano concentrati nella stessa persona. E’ forse più opportuno parlare di una polemica ad personam, o meglio ancora di scuole rabbiniche con orientamenti differenti, come quella franco-renana rispetto a quella spagnola. E’ vero: nell’introduzione agli Shemonah Peraqim Maimonide ammette: “Potrà succedere che talvolta io riporti un intero argomento, tratto da un libro noto (senza citarlo), ma con ciò non intendo attribuirmi la paternità di quello che hanno detto coloro che mi hanno preceduto… (citarlo) comporterebbe una prolissità inutile, senza contare che (ciò facendo) indurrei forse qualcuno, che non nutre simpatia per il nome di un certo autore, a ritenere le sue parole inconsistenti o ad attribuirgli una intenzione cattiva, che gli è estranea. Per questi motivi ho ritenuto di omettere il nome dell’autore”[8]. Peraltro va aggiunto che l’omissione del nome di Aristotele dagli scritti filosofici ha un parallelismo nel fatto che negli scritti talmudici il Maimonide non cita mai per nome le fonti delle sue decisioni legali. Anche questo elemento è stato un forte argomento di critica nei suoi confronti. Rimangono incisive sull’argomento proprio le parole di Bertola che così sintetizza la differenza fra i due filosofi: “Aristotele è il teorico puro, spinto soltanto da spirito di curiosità o da sete di sapere nelle sue ricerche…, Maimonide invece è un animo squisitamente religioso e sente perciò la ricerca come mezzo e non come fine a se stessa”[9].
Un’altra interessante questione che Bertola solleva riguarda le presunte fonti cristiane di Maimonide. Bertola è convinto che vi siano “innegabili influssi di Agostino nel pensiero etico maimonideo. Da nessun altro che dal Dottore della grazia il Maimonide deriva la sua tesi, che ogni uomo tende alla felicità, che gli uomini non nascono né buoni, né cattivi, ma che pur tuttavia abbandonati a sé, sono trascinati piuttosto sulla via del male che su quella del bene, che la natura umana pur non essendo cattiva in atto lo è in potenza, poiché l’eredità trasmessa a tutti dalla colpa di Adamo, fa inclinare più facilmente l’umanità al male. Al pensiero agostiniano ancora si può far risalire quell’implicito concetto di grazia divina per cui alcuni uomini sono favoriti di doni, le buone inclinazioni, doni che però vengono negati agli altri, sul criterio di distribuzione dei quali all’uomo nulla è dato di sapere”[10]. L’ipotesi formulata da Bertola è quanto meno improbabile. E’ più logico pensare l’inverso: che cioè siano state le fonti ebraiche a influenzare a suo tempo la patristica cristiana. Leggendo in particolare l’ultimo degli “Otto Capitoli” di Maimonide si vede con chiarezza quanto il filosofo medievale insista sull’origine ebraica biblica del concetto per cui l’uomo nasce moralmente neutro e non predestinato. Egli stesso cita, per esempio, Lamentazioni 3,38, in cui il Profeta Geremia afferma: “Il male e il bene non emanano dall’Alto”. Nel capitolo 5 delle Hilkhot ha-Teshuvah (“Regole sul pentimento”) Maimonide porta Genesi 3,22: “Ecco l’uomo è divenuto come uno di Noi, in quanto è in grado di distinguere fra il bene e il male” per dimostrare che la moralità dell’individuo dipende essenzialmente da lui stesso, negando in pratica tanto il concetto di Peccato Originale che quello di grazia divina, che tanta parte occupano, invece, nella teologia cristiana[11]. E’ probabile che Bertola si sforzi di dimostrare dal suo punto di vista che Maimonide sia un pre-cristiano o un cristiano mancato, per poterlo meglio presentare come fonte del pensiero tomista.
Un altro illustre cristiano del Novecento, Robert Travers Herford nel suo saggio I Farisei[12], ha ben messo in luce come la differenza fondamentale fra ebraismo e cristianesimo consista nel fatto che il primo esige il consenso dei fedeli sulla teologia morale, mentre il secondo sulla teologia dottrinale o speculativa. Sarà forse questo il motivo per cui Bertola, sentendosi più a suo agio con quest’ultima, riporta un quadro davvero eccellente del pensiero maimonideo relativo all’esistenza e all’essenza di D. quale ci viene fornito all’inizio della “Guida” e del Mishneh Torah. Anche in questo caso Maimonide ricorre all’argomentazione aristotelica del motore immobile per dimostrare l’esistenza di D. Ogni corpo che si muove necessita di un motore che lo muova e pertanto la sua esistenza non può dirsi necessaria o, diremmo noi, dotata di indipendenza. Il discorso va dunque a ritroso, ma non all’infinito. Si deve a questo punto supporre un ente la cui esistenza è necessaria e indipendente e pertanto coincidente con la sua stessa essenza che è all’origine del moto di tutti gli altri enti senza essere messo in movimento a sua volta. Ne consegue che D. è incorporeo e indivisibile, altrimenti si presterebbe alle limitazioni che caratterizzano tutti gli altri enti diversi da lui[13].
Il Maimonide etico, invece, risulta a Bertola più difficilmente comprensibile. Il tema è trattato a sua volta negli Shemonah Peraqim, particolarmente nel quarto Capitolo e anche all’inizio delle Hilkhot De’ot (“Regole sulle Attitudini”), fra le parti che Maimonide volle premettere a introduzione dell’opera halakhica Mishneh Torah. E’ interessante come lo stesso tema sia considerato degno di trattazione sia in un testo filosofico che in uno normativo. E’ segno dell’interdipendenza fra attitudine e azione che Bertola non manca di notare: “virtù e vizi sono dunque disposizioni dell’anima ma prima di diventare disposizioni erano semplici azioni, le quali, ripetute attraverso lunghi esercizi, sono divenute abiti dell’anima”[14]. Sarà un discepolo di Maimonide a spiegare come “i cuori vadano dietro alle azioni”[15] e non viceversa: non sono cioè i pensieri a influenzare il modo di agire degli uomini, ma il contrario. Per questa ragione la Torah preferisce proporre all’attenzione dei suoi fedeli non dei dogmi, ma una serie di azioni-guida, le Mitzwòt.
Come già si è accennato, Maimonide articola la sua dottrina etica intorno al concetto di giusto mezzo. Bene e male non sono antitetici, ma derivanti dalla stessa qualità. La differenza è quantitativa: il bene è rappresentato dall’atteggiamento mediano fra due estremi, che rappresentano il male. “Ad esempio: la continenza è la disposizione mediana fra il desiderio sfrenato e l’assenza di sensazione di piacere. Ordunque, la continenza fa parte delle azioni buone… Così la generosità è mediana fra l’avarizia e la prodigalità”[16]. Postulare il concetto per cui il male altro non è che un eccesso, ovvero un difetto di bene, consente al teologo di evitare il problema dell’origine del Male come entità indipendente e quindi di poter ricondurre tutto a un D. unico[17]. Il giusto mezzo rappresenta dunque lo stato di “salute” ideale. Qualora tuttavia l’anima tendesse verso uno dei due estremi, argomenta Maimonide, “sarebbe già affetta da malattia e bisognerebbe curarla come si curano (le malattie dei) corpi”[18]. Emerge qui con chiarezza la sua profonda esperienza nel campo medico. Altrove egli paragona le malattie dell’anima a quelle del corpo, asserendo che come alcuni mali fisici portano la persona a scambiare il gusto dolce con l’amaro, così chi è affetto da un male dell’anima compirà facilmente scelte sbagliate credendo di essere nel giusto e di perseguire il bene. Quale sarà la terapia?
“Come accade per il corpo che, se si sposta dal suo equilibrio, si osserva da quale parte si è spostato e quindi gli si applica il suo contrario, fino a che ritorni in equilibrio e, una volta riequilibratosi, lo si sottrae a quel contrario e si continua a perseverare con i mezzi che lo mantengono in equilibrio, così dobbiamo procedere anche nei confronti degli atteggiamenti etici. Esempio: se vediamo un uomo che, per disposizioni spirituali già consolidate nella sua anima, è eccessivamente avaro verso se stesso… non basta prescrivergli di comportarsi con generosità, perché questo sarebbe come voler curare chi è in preda a fortissima febbre con un rimedio riequilibrante, che non lo guarirebbe dalla sua malattia, ma dobbiamo prescrivergli di adottare la prodigalità con sistematicità, e così, ripetendo più volte l’azione di prodigalità, sparirà dalla sua anima quella predisposizione che lo ha condotto all’avarizia e si avvicinerà molto all’inclinazione della prodigalità. A quel punto gli verranno vietati gli atti di prodigalità e gli si prescriverà di perseverare in opere di generosità e di continuare così sempre, senza esagerare né in un senso, né nell’altro”[19].
Maimonide insiste a questo punto su due aspetti: 1) i due estremi non sono esattamente equidistanti dal mezzo. Nel vizio inverso della prodigalità si prescriveranno azioni di avarizia un certo numero di volte, ma senza esagerare, perché “l’uomo torna più facilmente e sicuramente dalla prodigalità alla generosità che non dall’avarizia alla generosità come, del pari, l’uomo privo di sensibilità ai piaceri torna più facilmente e sicuramente alla continenza che non il gaudente sfrenato alla continenza. Per questo noi faremo ripetere al gaudente sfrenato le azioni proprie dell’uomo insensibile ai piaceri più frequentemente che non a quest’ultimo le azioni voluttuose… E’ per questo che gli uomini pii non collocavano i loro atteggiamenti spirituali su posizioni di equilibrio assoluto, ma propendevano ora verso l’eccesso, ora verso il difetto, per motivi precauzionali”[20]; 2) come non ha senso curare una malattia dell’anima adottando semplicemente il comportamento equilibrante raccomandato all’individuo sano, così non ha senso mantenere l’equilibrio di quest’ultimo somministrandogli una cura estrema, dicendo: “’se quelle sostanze sono capaci di guarire un ammalato, tanto maggiormente saranno capaci di mantenere in salute chi è sano o addirittura fargliela aumentare’. Se prendesse quindi ad assumerle abitualmente, comportandosi alla stregua di un ammalato, senza dubbio finirebbe per ammalarsi!”[21] Il riferimento è agli eremiti e agli asceti di ogni tempo che dicono: “Dal momento che la gelosia, le concupiscenza, l’onore e simili sono comportamenti cattivi… voglio distanziarmene al massimo fino all’estremo opposto, fino al punto di rinunciare a mangiare carne, a bere vino, a sposarmi, ad avere una casa confortevole, un abito dignitoso, bensì voglio vestirmi di duro sacco eccetera”[22]. Per Maimonide, si diceva, misure del genere possono essere adottate solo su base temporanea per smantellare cattive abitudini, ma non come regole di vita[23].
La domanda è quale posizione e ruolo abbia la Torah, la legge di Mosè e dei Rabbini in tutto questo. Per Bertola, fedele alla dottrina cristiana dell’abolizione della Legge, essa coincide con la terapia e dunque può essere adottata solo in via temporanea: altrimenti si sfocia nell’ascetismo tipico, a suo dire, delle discipline orientali. “Ciò che fecero i Saggi non è dunque da seguire ciecamente e costantemente come norma di vita, ma soltanto provvisoriamente e in certe particolari condizioni psichiche. Il Maimonide è piuttosto disposto a forzare lo spirito della tradizione biblica e rabbinica per mantenersi in quella concezione di sano equilibrio, in quella visione non pessimistica del mondo, propria della civiltà classica occidentale greco-latina, contro gli eccessi delle religioni e delle civiltà orientali. Egli accetta l’etica teorica filosofica greca senza però condannare l’etica pratica del giudaismo. La ragion medica gli serve, anche in questo caso, per superare ogni ostacolo; se gli antichi giudei arrivarono al digiuno, alle veglie notturne, all’astensione dal vino e dalla carne, alla castità, al cilicio, all’abitazione fra monti, caverne e deserti, lo fecero soltanto a mo’ di medicina, poiché si accorgevano che l’animo loro, stando in una società corrotta, si corrompeva”[24].
Prima di studiare il testo originale di Maimonide occorre fare un’importante premessa metodologica. Il Maimonide filosofo e talmudista era fortemente influenzato dal Maimonide medico ed è fondamentale conoscere anche la sua letteratura in questo campo, in genere considerato marginale, per comprendere il resto. Nel suo Maqala fi al-Rabw (“Trattato sull’Asma”) scritto in arabo Maimonide si dimostra il precursore di una distinzione per noi oggi assodata e fondamentale che tuttavia la scienza non ha adottato fino a un’epoca relativamente recente: la distinzione fra medicina curativa e medicina preventiva. “Sappi –scrive- che la medicina è una scienza indispensabile in ogni tempo e luogo: non solo nel corso di una malattia, ma anche quando si è sani… Un medico competente è colui che sa quali malattie devono essere trattate per tempo prima che divampino”[25]. Non solo prevenire l’insorgenza del male è più vantaggioso che doverlo curare una volta che si sia manifestato, ma cura e prevenzione esigono strumenti differenti come abbiamo già illustrato: se somministriamo un certo farmaco curativo a un paziente sano, dice Maimonide, finiamo per provocargli una nuova malattia. Ed ecco il seguito del discorso.
“La stessa cosa, senza dubbio, capiterà a questi ammalati nell’anima, se si serviranno di medicamenti, pur essendo sani. E la stessa Torah, perfetta in sé e perfezionatrice di ciascuno di noi, come testimoniò qualcuno che la conosceva in profondità (dicendo di essa): ‘La Torah divina è perfetta, ammaestra lo stolto e ristora l’anima’ (Salmo 19,8), non ci comanda nulla di ciò, ma vuole unicamente che l’uomo viva in conformità della sua natura e proceda nella via mediana; cioè a dire: che mangi con moderazione ciò che gli è consentito di mangiare, che beva con moderazione ciò che gli è consentito di bere, che pratichi con moderazione l’attività sessuale nell’ambito a lui lecito, che viva nella società con giustizia e lealtà (nei suoi rapporti con gli altri, chiunque essi siano) e non che abiti nelle caverne e sulle montagne, né che indossi sacco e lana, né che mortifichi il suo corpo, debilitandolo e affliggendolo”[26].
Per Maimonide la Torah non è una medicina curativa, atta a essere somministrata solo fino a remissione dei sintomi della malattia morale e poi volutamente tralasciata affinché non provochi una degenerazione permanente dei comportamenti. Questa, dicevamo, è una lettura in linea con la tradizione cristiana che predica la necessità di superare la Legge mosaica. Al contrario. Per Maimonide la Torah offre proprio la medicina preventiva: si identifica pienamente con l’ideale e il giusto mezzo ed è essa stessa la guida permanente affinché le persone sane non si ammalino. Di più. La Torah fa da sfondo a una visione ottimistica dell’uomo: (Lo studio) è dato a ogni uomo e finché questi viene attratto dalle vie della saggezza e della giustizia, le desidera ardentemente e le persegue[27]. Comportamenti eccezionali “aldilà della lettera della Legge” possono essere utili a fronte di situazioni eccezionali. Ma non oltre. Maimonide criticava qui certamente alcuni correligionari del suo tempo che adottavano la disciplina dei Sufi o di certi ordini monastici dediti al contemptus mundi[28]. Fenomeni di questo tipo si manifestarono infatti anche in alcuni settori del mondo ebraico: basti pensare al cosiddetto chassidismo tedesco, da alcuni assimilato ai Catari, o a taluni scritti di R. Yonah da Gerona[29]. Ma il chassidismo tedesco escludeva categoricamente l’astinenza matrimoniale dai comportamenti prescritti ai suoi adepti[30] e R. Yonah scrive esplicitamente che una disciplina alimentare continuativa come quella prescritta dalla Bibbia giova all’anima assai più di un digiuno una volta ogni tanto: all’infuori, naturalmente, dei digiuni comandati[31]!
Vorrei concludere questo mio intervento con un’ultima citazione di Bertola e un riferimento al dibattito religioso attuale. Egli chiude uno dei saggi del libro con una splendida considerazione sul fatto che il credo di Maimonide è una combinazione di timore e amore della Divinità. “La conoscenza di D. –scrive Bertola-, per quanto è data all’uomo, è condizione perché nasca il timore di D.; la conoscenza del creato è condizione perché nasca l’amore di D. L’una e l’altra conoscenza sono necessarie perché nascano il timore e l’amore, che sono quasi il ponte di passaggio tra la dottrina e la pratica, tra il conoscere e l’agire, tra la teoria e l’azione”[32]. Ai tempi di Maimonide la mediazione fra l’Islam religione del timore e il Cristianesimo religione dell’amore fu affidata di fatto al mondo ebraico. Chissà che un ruolo analogo non possa essere svolto ancora oggi, in cui antichi conflitti mai sopiti sembrano riproporsi alla ribalta mondiale non solo sul piano del confronto teologico. A condizione che proprio l’odio non abbia il sopravvento sull’umanità. Figure come Ermenegildo Bertola dall’Alto ci illuminano il cammino. Una via densa di incognite, ma obbligata.
[1] Il Rabbino Jehoshua Ugo Massiach, nato aLa Spezia il 30.6.1890, fu Rabbino di Vercelli dal settembre 1935 al 1943 e f.f. Rabbino di Firenze dal settembre 1944 al 1951. Nel 1953 si trasferì in Israele, dove morì il 9.10.1961. Cfr. C. Merlo, “La Comunità ebraica di Vercelli dal 1943 al dopoguerra”, in «L’Impegno» 24 (2004): http://www.storia900bivc.it/pagine/editoria/merlo104.html.
[2] Cfr. Talmud babilonese Shabbat 30b; Shemonah Peraqim, cap. 5.
[3] Cfr. A. Neher, “Chiavi per l’ebraismo”, Marietti, Genova, 1988, p. 39.
[4] E. Bertola, “Il pensiero ebraico”, Cedam, Padova, 1972, prefazione.
[5] “L’eternità…”, p. 155-156.
[6] R. Moshe b. Maimon, “Haqdamot le-feyrush ha-Mishnah”, M.D. Rabinowitz (ed.), Mossad ha-Rav Kook, Jerusalem, 1961, p. 169.
[7] Chaghigah, cap. 2.
[8] Mosé Maimonide, “Gli Otto Capitoli: La Dottrina Etica”, G. Laras (ed.), Carucci, Roma, 1977, p. 4-5 (di seguito: Laras).
[9] “L’eternità…”, p. 167.
[10] “L’eternità…”, p. 160.
[11] Cfr. Mosé Maimonide, Hilkhot ha-Teshuvah (“Norme sul Pentimento”), R. Levi (ed.), DAC, Roma, 1983, p. 39.
[12] Trad.it., Laterza, Bari, 1925.
[13] Si veda particolarmente i capp. 2 e 6 de “L’eternità…”.
[14] “L’eternità…”, p. 166.
[15] Sefer ha-Chinnukh, prec. 16. Lett. “Libro dell’educazione”, attribuito a R. Aharon ha-Levy da Barcellona (sec. XIII).
[16] Laras, p. 29-30.
[17] Cfr. Ou. Cherki, “About the Eight Chapters treatise of Maimonides” –ebr.-, Ourim, Jerusalem, 2008, p. 109. Analizzando il problema del male Maimonide lo descrive essenzialmente non come una realtà a se stante, bensì come mancanza di bene. “Non si può affermare che D. sia la causa diretta del Male! Al contrario, tutte le Sue azioni costituiscono il bene assoluto… Tutti i mali sono privazioni, cui non si collega alcuna azione, se non nel senso… che D. produce la materia con la natura che le è propria, perennemente associata alla corruzione: il che la rende causa di ogni male”. Maimonide individua tre specie di mali nel mondo, due delle quali sono sotto la diretta responsabilità dell’uomo: i mali che gli uomini si infliggono vicendevolmente come la tirannia e le malattie, che in gran parte sarebbero la conseguenza dei nostri vizi ed eccessi. Una terza categoria di mali sopravviene all’uomo per la natura stessa della materia, che è soggetta a nascita e corruzione: un esempio di questa categoria che non dipende dal nostro comportamento sono i terremoti e i cataclismi (Moreh Nevukhim 3, 10-12; cfr. G. Laras, “Il pensiero filosofico di Mosè Maimonide”, Carucci, Roma, 1985, p. 169 sgg.). La dottrina del giusto mezzo ritorna anche nel Commento alla Mishnah, Pirqè Avot 2,1, dove si afferma che un estremo potrebbe trovare l’apprezzamento degli uomini, l’altro la stima di D. (cfr. P. Forchheimer, “Maimonides’ Commentary on Pirkey Avoth”, Feldheim, New York, 1983, p. 55).
[18] Laras, p. 31.
[19] Laras, p. 31-32.
[20] Laras, p. 32.
[21] Laras, p. 34.
[22] Hilkhot De’ot, 3,1.
[23] Va però notato che Maimonide ammette un comportamento ascetico se lo scopo è di sfuggire all’influenza di una società corrotta. Inoltre in Hilkhot De’ot egli scrive che la figura ideale del chakham, il saggio che persegue sempre il giusto mezzo, è sopravanzata dal chassid, il pio che “è particolarmente scrupoloso e devia dal giusto mezzo in alcune sue disposizioni” (1,5). Ma si intende che solo un chakham può diventare chassid. Cfr. anche n. 28.
[24] “L’eternità…”, p. 168.
[25] Trad. ebr. Sefer ha-Qatzeret, Mossad ha-Rav Kook, Jerusalem, 1965, p. 110-111. Cfr. anche Hilkhot De’ot, cap. 4.
[26] Laras, p. 34.
[27] Hilkhot ha-Teshuvah, 6,5. Op. cit. p. 47.
[28] Già si è detto che Maimonide non esclude l’ascetismo del tutto. “Il potenziale profeta (e qualsiasi individuo lo è) ‘santifica se stesso, ritraendosi dalle vie degli uomini ordinari che corrono nelle oscurità del mondo, esercitandosi a non avere neanche un pensiero delle vanità del tempo e dei suoi intrighi’ (Hilkhot Yessodè ha-Torah, 7,1). D’altronde R. Qalonimos Kalman ha-Levy Epstein, autore del commento chassidico Maor wa-Shemesh al Pentateuco (sec. XIX) sottolinea come anche per Maimonide sia da valorizzare la vita associata per la realizzazione della qedushah, cosa che non può prescindere dalla dimensione comunitaria e nazionale del popolo ebraico (a Lev. 19,2). “L’esigenza primaria era di differenziare fra l’ascetismo come scopo, che disprezza il mondo, e l’ascetismo come mezzo per coltivare l’interiorità etica, la perfezione intellettuale o intensificare la sensibilità religiosa” (I. Twersky, “Introduction to the Code of Maimonides Mishne Torah”, Yale Univ. Press, 1980, p. 466-467).
[29] Cfr. R. Yonah da Gerona, “Sefer ha-Yirà: il Libro dei Rispetto, un trattato di etica ebraica quotidiana”, A. Somekh (ed.), Morashà, Milano, 2004, spec. Introduzione, p. 170 sgg. e bibliografia.
[30] Cfr. però Maimonide, Hilkhot Ishut (“Regole sul matrimonio”), 14,15; 15, 2-3; Hilkhot Talmud Torah (“Regole per lo studio della Torah”), 1,5.
[31] Maimonide stesso ritiene che i digiuni siano stati comandati negli anniversari delle sciagure nazionali in quanto causate dai nostri peccati per ispirarci il pentimento, in analogia con il Giorno di Kippur (cfr. Hilkhot Ta’aniyot, “Regole sui Digiuni”, 5,17). Per Maimonide la pratica del digiuno ha senso solo per che deve espiare una colpa (cfr. Cherki, op. cit., p. 135-136).
[32] “L’eternità…”, p. 217.