Introduzione
Quando un ebreo studia il Talmud, questo testo fondamentale dell’ebraismo post-biblico, davanti a sé non ha un univoco codice della Legge o un trattato teologico, bensì un protocollo di discussioni religioso-legali e teologiche, che si ripeterono nel corso dei secoli e furono proseguite dai commenti medievali, stampati sulla stessa pagina del testo. Per la vita religiosa pratica erano comunque necessarie sentenze precise; e così accanto al Talmud nacque una letteratura dei compendi della Legge. Un buon esempio è costituito dall’opera Mishneh Torah di Mosè Maimonide (1135- 1204), verosimilmente l’ebreo più colto del Medioevo. È però difficile trovare un’edizione di quest’opera in cui non sia stampato insieme anche il commento di Avraham ben David di Posquières (1125-1198 circa). Non si tratta tuttavia di un semplice commento, bensì di violente contraddizioni contro le sentenze di Maimonide, contraddizioni espresse talora in maniera niente affatto cortese. L’antica dialettica talmudica è dunque portata avanti ancora persino nei compendi della Legge.
Ciò vale anche per l’opera cui si richiama l’ebraismo ortodosso dell’epoca moderna come ad autorità legale, lo Shulchan Arukh di Josef Caro (1488-1575). Il testo di Caro è circondato da molti commenti, e il numero di tali commenti dipende dalla grandezza delle pagine della singola edizione. Nessuna edizione tralascerebbe però il breve commento di Mosè Isserles (1510-1572), che infatti si è praticamente incorporato, del resto con una grafia un po’ diversa, nel testo di Caro. Caro era un rabbino nativo della Spagna, che codificò le prescrizioni religioso-legali dell’ebraismo spagnolo e portoghese. Ma gli ebrei europei (tranne quelli della penisola iberica e delle comunità fondate da emigrati spagnoli e portoghesi) osservavano in parte altre prescrizioni e si attenevano a sentenze opposte. Poi venne il rabbino polacco Isserles e rese il compendio di Caro utilizzabile anche da parte delle comunità ebraiche non spagnole. Se Caro aveva chiamato la sua opera Shulchan Arukh, cioè «tavola imbandita», Isserles intitolò il proprio commento Mappah, cioè «tovaglia».
Tuttavia gli ebrei non trattano in questo modo solo la loro letteratura post-biblica. Fanno così anche con la Bibbia. Se per esempio apro a caso l’edizione standard delle Miqraoth Gedoloth, cioè della «Bibbia Rabbinica» (stampata a Vienna nel 1858, ristampata a Tel Aviv nel 1958), e vengo a trovarmi all’altezza di Genesi 22,5-13, sotto gli occhi avrò due pagine di cm. 21×29 ciascuna. Queste due pagine contengono i versetti ebraici citati; tre traduzioni aramaiche, parafrasi compiute in epoca talmudica; osservazioni masoretiche (ossia relative alla scienza della tradizione) sull’ortografia delle parole della Scrittura; il commento di rabbi Shelomoh ben Jizchaq, detto Rashi, che visse dal 1040 al 1105 in Francia e in Germania; il commento di Avraham Ibn Ezra, 1089-1164, che nacque in Spagna e girò il mondo; il commento di Shemuel ben Meir, detto Rashbam, nipote di Rashi, che visse nella Francia settentrionale (1085-1174); il commento dello spagnolo Mosè ben Nachman, detto Nachmanide (1194-1270); il commento di Jaakov ben Asher, nato in Germania verso il 1270 e morto in Spagna nel 1340; il commento di Ovadiah Sforno, che visse tra il 1475 e il 1550 circa e operò in Italia; il commento al commento di Ibn Ezra, scritto nel XIX secolo da Solomon Zalman Netter, e infine un rimando, detto Toledot Aharon, a quei luoghi talmudici in cui quei versetti sono discussi o citati. Fu scritto da Aaron Pesaro, che probabilmente visse in Germania dopo il 1400. Le sue annotazioni furono stampate per la prima volta nel 1580 a Basilea.
Con ciò però la «Bibbia Rabbinica» non è ancora affatto esaurita. Altri commenti, che non avevano più trovato spazio su queste pagine, si trovano alla fine del volume; e altri commenti, per lo più troppo lunghi per essere accolti in quella sede, sono apparsi in volumi autonomi. Naturalmente questi commentatori non ripetono tutti la stessa cosa. Altrimenti o l’uno o l’altro sarebbero superflui. Prendono posizione l’uno nei confronti dell’altro e riflettono con ciò il loro livello culturale (siano semplicemente versati nella tradizione, siano anche eruditi in qualche scienza profana) e il loro atteggiamento religioso personale (razionalista, mistico, pietista). Non si tratta però soltanto di un dibattito scritto tra esegeti. Fondamentalmente essi vogliono confrontarsi con la parola biblica, che per loro significa la «Parola di Dio», interpretarla correttamente e trasmettere le proprie conoscenze ai correligionari.
Gli esegeti si dedicavano a questo lavoro non come studiosi dell’antichità o come archeologi, sebbene occasionalmente possano avere anche portato qualche contributo all’indagine sull’antichità, bensì come credenti in Dio e nella Bibbia, ai quali interessava trarre dalla Bibbia anche insegnamenti per il proprio tempo e trovare nella Bibbia risposte per i propri interrogativi. Così fu fin dal primo momento. Il libro di Neemia riferisce di un raduno del popolo dopo il ritorno dall’esilio babilonese. Questo ebbe luogo intorno al 400 a.C. Allora la «Torah di Dio» fu accolta come statuto della seconda comunità ebraica. Potrebbe essersi trattato del Codice Sacerdotale e forse anche di altre parti del Pentateuco. Neemia 8,8 descrive il modo in cui veniva recitata la Torah: «Con voce chiara si leggeva dal libro, dalla Torah di Dio, e se ne davano spiegazioni, e così la gente poteva capire quello che veniva letto.» Il commento al Pentateuco iniziava così già alla sua prima «apparizione pubblica», e ciò si è ripetuto di generazione in generazione.
Se ora si vuole sapere non solo che cosa la Bibbia abbia significato per il popolo di Israele nel momento della sua apparizione, ma anche in che modo sia stata interpretata dagli ebrei ai diversi livelli dello sviluppo della loro religione, la letteratura esegetica offre chiarimenti in materia, e in questo senso si può ricorrere alla «Bibbia Rabbinica». Ma al giorno d’oggi non si ricorre spesso a questa Bibbia rabbinica, non solo da parte dei lettori cristiani ma anche dalla maggior parte degli ebrei. La «Bibbia Rabbinica» presuppone infatti alcune cose che oggi non sono affatto più così scontate. Tra queste sono la conoscenza dei tre distinti stadi dello sviluppo della lingua ebraica: ebraico biblico, rabbinico e medievale; familiarità con la lingua aramaica; padronanza di tutti gli scritti biblici; e (cosa ancor più difficile) la capacità di raccapezzarsi tra i numerosi volumi della letteratura rabbinica. Nell’epoca moderna una parte di tutto ciò è dunque riservata ai soli specialisti, mentre l’intero patrimonio di idee dell’esegesi biblica dell’ebraismo medievale, con tutte le sue prospettive religiose e i suoi contributi alla storia delle religioni, resta celato al profano, del resto verosimilmente assai interessato.
Questo volumetto è stato composto per sopperire, sia pure in misura estremamente modesta, a questa perdita. Qui si tratta di una scelta. Non si sono potuti prendere in considerazione tutti i commentatori. Altrimenti il libro sarebbe divenuto troppo lungo. Si è dovuto necessariamente trascurare anche un interesse fondamentale degli esegeti medievali, la trattazione filologica, grammaticale e lessicografica delle singole parole bibliche, dato che questo volumetto è destinato anzitutto ai lettori che non conoscono la lingua ebraica.
Una fonte medievale parlava dei settanta diversi modi in cui la Torah può essere spiegata (Othijjoth de-Rabbi Akivà, ed. Wertheimer, Gerusalemme 1914, p. 12). Sia pure un’espressione piuttosto iperbolica. Essa mostra tuttavia l’accettazione autenticamente ebraica della possibilità pressoché illimitata delle più diverse interpretazioni. Solo Dio Colui che ha dato la Torah, possiede la verità intera, gli uomini invece ne hanno soltanto frammenti. Qui sono stati messi insieme alcuni di questi frammenti, al fine di far conoscere al lettore alcuni commentatori e le loro caratteristiche. A questo scopo ho scelto luoghi biblici che avessero un interesse o storico o esistenziale. Quando le parole dei commentatori stessi lo richiedevano, è stato aggiunto un breve commento.
Per la traduzione tedesca dei versetti e delle citazioni è stata utilizzata la «Einheitsüberset- zung» [«traduzione unitaria»] della Bibbia, ad eccezione dei numerosi casi in cui l’interpretazione dei traduttori moderni, i quali ricercano il significato «originario» delle parole, diverge da quella degli antichi rabbini (e quindi anche da quella degli esegeti medievali). In casi simili ho tradotto il testo ebraico nel modo in cui è stato generalmente interpretato dagli esegeti e dalla tradizione ebraica. Non tradotta è rimasta la parola Torah, che significa tanto «dottrina» quanto «legge» e di cui ho sviluppato altrove la traduzione più appropriata.
Cincinnati, Ohio, USA – Purim 5742/9 marzo 1982