Quella dell’ebreo folle è un’immagine ricorrente del pregiudizio antigiudaico. Uno scrittore brasiliano si confronta con questo topos, raccontando le vite di 16 ebrei eccentrici, da Ron Jeremy, star del cinema porno, al filosofo Otto Weininger, allo scacchista Bobby Fischer.
Elena Loewenthal
Che cos’è, infondo, la follia? Su un piano strettamente clinico è una patologia, anzi un universo di patologie che esigono cure, sorveglianza, a volte disperazione. Ma c’è anche un altro tipo di follia cui tutti, in qualche magari infinitesima misura, apparteniamo. Ce l’abbiamo tutti, un pizzico di follia, un momento nella vita in cui usciamo dai binari, sentiamo di dovere e potere essere altro.
Poi c’è la follia ebraica, che è un’altra storia. Anzi sono tante. All’aggettivo «ebraico» è stato nella storia appiccicato di tutto: dal fantomatico «genio» ebraico alla perfidia. Lungo una millenaria storia di pregiudizio, prima antigiudaico in senso teologico e poi antisemita in senso razzista, gli ebrei sono stati accusati di tutto e del suo contrario: capitalisti e bolscevichi, plutocrati e straccioni, metafisici e carnali, separati e intrusivi. Quanto alla follia, anche quella, ovviamente, c’entra nell’animo ebraico. Ne sa qualcosa Jacques Fux, un giovane autore brasiliano (classe 1977), laureato in matematica, informatica, letteratura comparata e tante altre cose. Una specie di genio con qualche grano di follia pure lui. Ora esce in italiano il suo Sulla follia ebraica, nella traduzione di Vincenzo Barca.
Il frontespizio del libro, pubblicato da Giuntina, porta sotto il titolo la dicitura «romanzo», eppure è difficile dare una definizione a questo articolato excursus narrativo: biografie comparate in stile Vite parallele plutarchiane?
Divagazioni sull’eccentricità dell’essere ebrei in una prospettiva diacronica e sincronica al tempo stesso? Larvata autobiografia?
Si tratta infatti di sedici percorsi di vita che l’autore narra con una asciuttezza che esprime un soltanto apparente distacco. Le pagine si dipanano come una cronaca asciutta, senza dialoghi né descrizioni: c’è solo la parabola di vita di questi personaggi. Che talvolta amano, ma il più delle volte si tratta di una specie di amore malsano, foriero di tragedia. Come nel caso di «Woody Allen attraverso uno specchio scuro»: «Soon-Yi Previn sa che sta contendendo un amore. E che anche quell’amore la desidera. Pensa, o immagina, che di lì a breve sua madre non eserciterà più il suo ruolo. Lei dovrà ucciderla. Dovrà destituirla dalla sua posizione materna. Dovrà reinventare il suo stesso mito».
I protagonisti di queste storie spaziano, per l’appunto, dal celebre regista a Ron Jeremy, attore icona del porno americano, da Otto Weininger, filosofo suicida ventenne, al re degli scacchi Bobby Fischer, a Sarah Kofman, sopravvissuta alla Shoah e anche lei filosofa suicida. Jacques Fux individua in tutte queste vite vissute quella «follia ebraica» che dovrebbe essere il cuore del libro: quella incapacità di pacificarsi con il mondo e prima ancora con se stessi. Tutti questi personaggi non sono quello che vorrebbero, e soprattutto sono quello che non vorrebbero essere. Sono «spostati» nel vero senso della parola.
Ne viene fuori una narrazione tragica proprio nel suo grigiore. C’è, a tratti, qualche nota di un umorismo cinico, colmo di malinconia. Ma la cifra costante del libro è piuttosto una prosaica accettazione di questo destino, che peraltro non significa prendere passivamente la vita: tutti questi personaggi lottano, viaggiano, fanno a volte grandi cose. Ma come controvoglia, come se la vita fosse una parentesi dentro una frase che non si sa bene che cosa sia, che cosa voglia dire.
Jacques Fux racconta tutto ciò con una specie di flemma, come se guardasse tutto da fuori, da molto lontano. Soltanto nell’ultimo capitolo spiega al suo lettore che non è propriamente così. C’è nel suo libro una precisione minuziosa non tanto del dettaglio quanto di ciò che è spia di quella follia che l’autore va cercando e che immancabilmente trova. Sulla follia ebraica è un libro lucido, a tratti sconcertante. Non intende certo definire l’identità ebraica bensì raccontarne le anomalie – anche se quasi sempre l’anomalia adotta mascheramenti di normalità. Non è un libro consolatorio, certo che no, ma per certi versi istruttivo e talora chiarificatore.
La Stampa – tuttolibri, 6 luglio 2019