Anche al fronte pane azzimo, libri di preghiera e una degna sepoltura ebraica
Paola Abbina
Il “rabbino militare” nasce prete, questo è incontestabile: il ragionamento per il quale i più arrivano a concepire l’utilità dell’esistenza di tali funzionari non è che questo: posto che i cattolici hanno i loro preti-cappellani sul campo, per l’assistenza spirituale ai moribondi, ai feriti, per il conforto della fede ai combattenti, per la amministrazione dei sacramenti ai morti, posto che gli evangelici vi hanno i loro pastori cappellani, è giusto che gli ebrei – forse per restare in stile sarà meglio dire “Israeliti” – vi abbiano i loro cappellani. Così l’analogia è istituita sotto tutti i rapporti, di nome e di funzione. Questo è quanto scrisse il 15 luglio 1915 la Settimana Israelitica quando le autorità ebraiche nazionali decisero di istituire il “rabbinato militare”. E la decisione, come si evince da queste righe, non fu unanime. I protagonisti furono l’allora presidente del Comitato delle comunità israelitiche italiane Angelo Sereni e il rabbino maggiore di Roma Angelo Sacerdoti. L’istituzione infatti non fu priva di resistenze all’interno del mondo ebraico, per il timore di alcune comunità di vedersi sottratto l’unico elemento che le teneva in vita: la figura del rabbino, presente già allora in numero esiguo. A questo va aggiunta la tendenza di alcuni soldati a mimetizzarsi, vuoi per paura, vuoi per meri motivi pratici, o per non volersi distinguere come religiosi e combattere fra italiani per italiani.
Gli ostacoli della burocrazia militare, le condizioni operative, l’imprecisione e l’incompletezza degli elenchi disponibili dei militari ebrei, la mancanza di mezzi di trasposto per le visite da effettuare, rendevano ancor più difficile il compito del rabbino militare. E ancora, come farsi riconoscere dai correligionari senza confondersi con dei “necrofori” o dei “beccamorti”?
Su richiesta di Sacerdoti il 28 settembre 1915 venne emessa un’ordinanza che definiva fin nei dettagli l’abbigliamento dei rabbini militari: dalla divisa estiva a quella invernale, dal colore grigio-verde, con controspalline nere e distintivo di grado, al berretto con apposto un trofeo con una stella a cinque punte sormontato dalla corona d’Italia e nel centro un emblema ebraico rosso in campo bianco. Effettivamente il problema della divisa non era marginale, vista l’importanza dell’immagine dei rabbini nei confronti dell’istituzione militare e dei singoli soldati. I rabbini dovevano in primo luogo essere riconosciuti dai correligionari e soprattutto accettati senza essere confusi proprio con i cappellani. Le vicende drammatiche della guerra tuttavia dimostrarono presto, e convinsero quanti erano rimasti scettici, che il rabbino militare era una presenza importante e incoraggiante per gli ebrei impegnati in battaglia.
Non mancano infatti alcune testimonianze che ci riferiscono di soldati sepolti sotto una croce o di altri casi, il più noto quello di un certo Piperno, battezzato proditoriamente all’ultimo minuto dal prete di turno.
Ma quali erano i doveri del rabbino militare? “Il rabbino, è vero, normalmente è un maestro; non però esclusivamente. Oggi esso ha anche funzioni di ministro di religione, e ciò non per imitazione di istituti non ebraici, ma per necessità di cose… quel che occorrerà ai soldati ebrei, quel che essi richiederanno al loro rabbino, quel che egli lor dovrà dare, sarà la parola che nel nome della religione consola i sofferenti, rincuora gli avviliti, infonde fede e speranza nei deboli, porge ai morenti il conforto ineffabile del pensiero di Dio e dell’eternità.”
Così, tra le carte, si trovano testimonianze di famiglie che fanno appello ai rabbini militari affinché operino per una sepoltura ebraica, o altre in cui, ad esempio, l’Ospedale militare di Roma chiede che “la S. V. è invitata a presentarsi subito a questa Direzione dovendosi recare all’ospedale di Frosinone per assistere l’Ufficiale Vitali che trovasi in pericolo di vita.” O ancora “la matricola della sua sepoltura è D. 60859. Detta matricola è incisa sulla placca che si trova sulla crocetta di legno piantata sulla sua tomba…. Mi è oltremodo doloroso sapere che il mio povero nipote riposa sotto l’emblema della religione cattolica”. Oppure “dalla direzione sanità pregasi disporre per invio rabbino militare presso ospedale 227 in Fiera ove è stato richiesto da ufficiale governante infermo”.
Tra le fonti troviamo anche un’istanza del rabbino di Firenze Margulies che chiese al Ministero della Guerra che fosse possibile per i militari ebrei impegnati al fronte poter celebrare Rosh ha shanà e Kippur, e in seguito anche Pesach. Rispose il Ministero della Guerra con una circolare in cui si afferma che “questo ministero inspirandosi ai principi di tolleranza religiosa sanciti dallo Statuto del Regno prega i comandi territoriali di corpo d’armata di accordare ai militari di religione israelita quelle facilitazioni che siano consentite dalle esigenze del servizio”.
Si scrive dal Reparto Prigionieri di Guerra di Santamaria ad aprile 1917: “In riferimento al foglio contro distinto si ha il pregio di comunicare a V. S. che è qui pervenuta una cassa contenete il pane azzimo che è stato distribuito ai prigionieri di guerra di questo campo secondo le istruzioni contenute nella sopra lettera”. O ancora dal distaccamento di prigionieri di guerra di Moncelio nel settembre 1918 al rabbino maggiore di Roma: “a nome dei prigionieri di religione ebraica circa dieci appartenenti a questo distaccamento per l’occasione della prossima festa del Capodanno prego V. S. volerci inviare colla massima urgenza i libri religiosi”.
E così si fece la guerra. Gli ebrei che parteciparono alla Grande Guerra lo fecero con profondo spirito patriottico, come il momento che finalmente avrebbe consacrato il loro processo di integrazione nazionale. Il rabbinato militare, così come lo avevano voluto Sacerdoti e Sereni, aiutò molti ebrei dapprima riluttanti – a rivelare, proclamare e professare pubblicamente la propria identità affermandosi, pur fieri, cittadini a pieno titolo e partecipi delle sorti del Paese.
I rabbini militari rappresentavano un richiamo sentimentale alle proprie radici e, allo stesso tempo, un difficile adeguamento dell’ebraismo alla nuova realtà che si andava configurando, non più autoreferenziale, ma aperta a nuove ideologie e prospettive. Il tutto in un paese apparentemente liberale, in cui i rapporti con i vertici militari apparivano cordiali e il quadro politico sembrava favorevole al rispetto delle minoranze religiose simpatizzando apertamente con il nascente sionismo. A tutto questo infatti aveva aspirato Sereni nel disegnare quel ruolo dell’ebraismo nazionale che solo una manciata di anni dopo sarebbe venuto tragicamente meno.
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