“Come può dall’impuro scaturire il puro? Neppure uno! – מי יתן טהור מטמא? לא אחד” (Iyov 14,4).
Il povero Iyov ne ha subite di ogni sorta. Privato di tutto senza colpa. Per una scommessa fra l’Angelo della Morte e il S.B.: Vediamo se il giusto persevererà nella sua giustizia anche dopo avergli inflitto gravi patimenti! Amici, o almeno presunti tali, cercano di consolarlo. Ma lo fanno nel modo meno opportuno: “se soffri, hai peccato” è il loro messaggio. Mai dire una frase del genere a un ammalato. In lui noi dobbiamo vedere il giusto messo alla prova. Iyov reagisce. L’uomo è impuro per natura. Chi potrebbe purificarlo? Nessuno! Iyov sostiene che se anche ha peccato, ciò deriva dall’umana natura, incline alla trasgressione. Se è così, perché venir punito lui più di altri?
Il Midrash non si accontenta della lettura piana del versetto. E’ una lettura pessimistica: l’uomo sarebbe malvagio per natura, non avrebbe possibilità di riscatto. Meglio volgere la negazione finale in una interrogazione. “Come può dall’impuro scaturire il puro? Come è possibile, per esempio, che dall’idolatra Terach sia nato Avraham, che dal malvagio re Achaz sia nato il giusto Chizqiyah, che dal malvagio re Amon sia nato il giusto Yoshià, che da Shim’ì ben Gherà (reo di aver insultato il re David durante la rivolta di suo figlio Avshalom) sia derivato Mordekhay…? Chi può aver disposto cose simili, se non l’Unico D.?” (Be-midbar Rabbà 19,1). Si constata l’esistenza di grandi contraddizioni nel mondo e nella storia. Esiste anche la purità accanto all’impurità. E qualche volta il puro nasce proprio dall’impuro. La capacità rigenerativa dell’Uomo: un miracolo a sua volta! Qualcosa che solo l’Uno per antonomasia è in grado di assicurare. Echad, con cui il nostro versetto si chiude, ne richiama un altro: il primo versetto dello Shemà’…
Il No’am Elimelekh riscontra una contraddizione nel commento di Rashì alla parte iniziale della nostra Parashah. Si parla di una Mitzwah difficilissima: come e perché le ceneri di una vacca rossa possano purificare l’impurità per eccellenza, quella dovuta alla morte. Mitzwah talmente ardua da comprendere che la Torah stessa la chiama chuqqah. E Rashì chiosa il S.B.: “E’ un decreto che ho emesso e non hai alcun diritto di obiezione in proposito” (a 19,2). Insomma, non c’è una motivazione razionale. Salvo poi soffermarsi invece proprio sulle possibili ragioni della scelta di una vacca rossa: “La cosa può essere paragonata al figlio di una serva che ha sporcato il palazzo del re. Hanno detto allora: Che venga sua mamma e ripulisca la lordura. Insomma venga la vacca e ripari alle conseguenze della trasgressione del Vitello d’oro” che dopo il dono della Torah sul monte Sinai aveva reintrodotto la morte nel mondo (a 19,22). Domanda il No’am Elimelekh: perché definire incomprensibile una Mitzwah che ha invece precise motivazioni? La risposta è affascinante. Ciò che sfugge alla nostra comprensione in realtà non sono i singoli dettagli, ma il concetto di fondo. E’ un mistero come l’impuro possa diventare puro o, in termini più generali, come la nostra Teshuvah abbia il potere di riparare ed espiare la trasgressione. Un mistero che è interamente nelle mani del S.B.
Delle ceneri della vacca rossa è detto che avevano il potere di purificare l’impuro, ma nello stesso tempo di rendere impuro colui che era puro. Il Kohen che avrebbe compiuto l’operazione, infatti, veniva reso impuro a sua volta e immerso nel Miqweh, ma non si aspettava poi il tramonto del sole, l’ultimo stadio affinché la sua purificazione fosse completa (Parah 3,7; Yomà 2a). Perché? Il versetto dice “Un uomo puro raccoglierà le ceneri della vacca” (19,9) e i Sadducei lo intendevano alla lettera, secondo la loro linea intrerpretativa: il Kohen incaricato delle ceneri, a loro dire, doveva essere completamente puro. Essi sostenevano che non ha senso affidare un intervento di purificazione a chi non fosse già del tutto puro a sua volta. I Chakhamim sono di diverso avviso. E’ sufficiente che il Kohen fosse sulla via della purificazione perché avesse il potere di purificare gli altri mediante l’aspersione delle ceneri. Purificando se stesso avrebbe purificato anche gli altri.
A tale scopo lo si isolava preventivamente per sette giorni, così come si faceva con il Kohen Gadol ogni anno prima di Kippur (Parah 3,1). L’isolamento avrebbe rafforzato in lui maggiormente la sensazione di inadeguatezza verso il compito che l’attendeva. Renderci conto di ciò che ci separa dalla perfezione, dal fine ultimo, è in ultima analisi ciò che veramente ci mette in condizione di affrontare la purificazione di noi stessi prima che degli altri. Torniamo a domandarci: “Come può dall’impuro scaturire il puro?” Anche questo è un mistero nelle mani dell’Uno, che benedetto sia!