Serata in memoria di Edoardo e Sergio Segre z.l. – 16/2
La chevrà qaddishà è una delle confraternite fondamentali all’interno della comunità ebraica, ed il suo compito è di inestimabile valore, trattandosi di una delle applicazioni più stimate del chesed weemet, la pietà esercitata nei confronti dei defunti, che non hanno modo di ricompensare coloro che li hanno beneficiati. Per questo un altro nome che le viene attribuito è “ghemilut chesed shel emet”. La ghemilut chasadim è sotto vari aspetti superiore alla tzedaqàh: infatti la tzedaqàh si fa con i propri beni, mentre la ghemilut chasadim sia con i propri beni che con il proprio corpo; si fa tzedaqàh ai poveri, mentre si può fare ghemilut chasadim sia con i ricchi che con i poveri; si fa tzedaqàh ai vivi, mentre è possibile fare ghemilut chasadim anche nei confronti dei morti[1].
Troviamo attestazione dell’esistenza di tali confraternite già nel Talmud[2]: nelle città in cui esiste la chevrà qaddishà gli individui possono dedicarsi al proprio lavoro, perché c’è chi si occupa dei defunti. Occuparsi dei morti è considerata una forma di imitazione di H., che si era preoccupato in prima persona della sepoltura di Moshèh Rabbenu. Anticamente la chevrà qaddishà non si occupava solamente del funerale e della sepoltura, ma interveniva già in una fase precedente, che era quella della visita ai malati, procurando agli indigenti assistenza medica e medicinali, oltre ad assistere, dopo il decesso, i parenti in lutto, fornendo loro l’occorrente per la se’udat havraàh e sostenendo gli orfani[3]. Nei centri più piccoli la chevrà qaddishà, essendo l’unica confraternita esistente, si occupava di ogni forma di assistenza. Far parte della chevrà qaddishà era considerato un grande privilegio, ed il disprezzo dei membri della chevrà viene paragonato da alcuni a quello di un talmid chakham[4]. Vari usi sono volti ad onorare i membri della chevrà: ad esempio alcuni assegnano al capo della chevrà la lettura della haftaràh di chol ha-mo’ed di Pesach, o assegnano ai membri della chevrà delle chiamate a sefer nei giorni di mo’ed, nei quali secondo molti usi vengono ricordati i defunti[5].
Molti famosi rabbanim, già in tenerà età, entrarono nelle confraternite. In moltissimi casi il rabbino della comunità era anche a capo della chevrà qaddishà. E’ bene in ogni caso accogliere nella chevrà solamente coloro che mostrano di avere un buon carattere[6]. Il Maghen Avraham[7] scrive di un mi-sheberakh particolare che si recitava per benedire i membri della confraternita. I registri della chevrà qaddishà delle varie comunità sono un importante documento storico, perché oltre agli incarichi interni alla chevrà, spesso erano contenute le disposizioni generali delle comunità. Da questi testi apprendiamo poi gli usi di ciascuna Chevrà qaddishà, ed è quanto mai opportuno ricordare che si deve evitare di modificare gli usi di una determinata chevrà, anche se possono sembrare singolari, perché potrebbe sembrare una forma di disprezzo dei defunti che sono stati sepolti in precedenza, seguendo altre usanze[8].
Fra le regole che compaiono più spesso vi sono: a) i capi della comunità non possono intervenire per modificare le decisioni della chevrà qaddishà; b) la chevrà può pretendere di operare a pagamento, qualora chi l’ha chiamata avesse la possibilità di sostenere economicamente la chevràh e non lo aveva fatto precedentemente; c) che la chevrà ha il diritto esclusivo di assegnare i posti nel cimitero, e ai suoi membri sono destinati dei posti particolari; d) per erigere una lapide è necessario il permesso della chevrà qaddishà; e) la chevrà qaddishà deve porre attenzione affinché un giusto conclamato non sia sepolto vicino ad un malvagio, e affinché due nemici non siano sepolti l’uno accanto all’altro. Non è vietato retribuire i membri della chevrà qaddishà, ma l’uso è quello di offrire questo servizio gratuitamente[9]. E’ bene che i membri della chevrà qaddishà si riuniscano periodicamente per ripetere le regole relative alla taharàh, per operare senza indugio[10].
Il 7 di Adar
In moltissime comunità il 7 di Adar, tradizionalmente data di morte di Moshèh Rabbenu, è il giorno dedicato alla chevrà qaddishà. I membri della chevrà in molte realtà usano digiunare e recitare delle tefillot particolari, e alla sera usano riunirsi per mangiare e studiare insieme. Altri digiunavano in altre date nel periodo invernale, il 15 di Kislew (Brisk), o la vigilia di Rosh Chodesh Adar. Altri digiunavano in primavera, la vigilia di Rosh Chodesh Nissan o il 32° giorno dell’omer. Uno dei motivi per cui molti hanno scelto il 7 di Adar è che questa data non cade mai di Shabbat. Il Ghesher ha-Chayim[11] riporta l’ordine delle tefillot e gli usi di questo giorno, fra cui quello di visitare il cimitero, per chiedere perdono ai defunti e verificare la necessità di lavori di manutenzione. Al ritorno dal Bet ha-kneset, prima della tefillàh di minchàh, veniva pronunciato un discorso, che verteva in modo particolare sul compito della chevrà qaddishà. Il pasto con il quale si concludeva il digiuno aveva lo scopo di accrescere l’affiatamento e l’amicizia fra i membri della chevrà. Alcuni individuano un’ulteriore fonte per questo pasto nella Mekhiltà, secondo la quale il popolo ebraico ricevette la manna nel deserto per via della preghiera dei patriarchi. Da qui apprendiamo che i defunti pregano per il sostentamento dei vivi e per questo i membri della chevrà il 7 di Adar, giorno in cui la manna cessò di cadere per via della morte di Moshèh, digiunano. Si usava accomunare al digiuno il termine dello studio di un trattato talmudico o della mishnàh, per tramutare il pasto in una se’udat mitzwàh. Alcuni usavano iniziare dal 7 di Adar la raccolta di denaro per qimchà dePishchà, il sostegno economico degli indigenti per Pesach.
La taharàh
Effettuare la taharàh è un antico minhag di Israele, le cui halakhot non vengono illustrate a fondo nel Talmud. Le fonti principali in merito sono rappresentate pertanto dalle parole dei poseqim. C’è da segnalare che un antico formulario per la Taharàh è attribuito ad Hillel ha-zaqen. Potrebbe apparire paradossale purificare un morto, la fonte di impurità per antonomasia, ma per comprendere tale usanza si deve considerare che la morte nell’ebraismo è considerata solamente un passaggio, e la taharàh pertanto rappresenta una preparazione per l’ingresso all’altro mondo[12]. Molti hanno individuato la fonte dell’uso nella ghemarà in massekhet Shabbat 151a[13]. Il motivo per cui questo uso è stato istituito è il kavod del defunto. Il Bet Yosef riporta come motivo quello di non allontanare le persone dal trasporto della salma per via della sporcizia. Inoltre a nome del Sefer Chassidim (561) è riportato che si lavano le salme allo stesso modo in cui si lavano i bambini appena nati. Il Ma’avar Yabboq[14] spiega perché si usa il termine taharàh: dopo il lavaggio difatti l’anima viene “ripulita” del suo desiderio di materialità, ed aspira non più alle vanità di questo mondo, ma ad acquisizioni spirituali molto più alte. Biniamin Zeev (204) riporta delle disposizioni circa la taharàh, per cui questa viene paragonata ai preparativi per andare al bet ha-keneset di Shabbat, mostrando la fede nella resurrezione dei morti.
Dove si svolge
Alcune comunità ebraiche dispongono di locali appositi per svolgere la taharàh. Alcuni dotano questi locali di un miqwèh. R. Moshèh Feinstein[15] condanna questa pratica. In alcuni luoghi l’uso è che la taharàh si effettui esclusivamente nell’abitazione del defunto, a meno che il decesso non sia avvenuto fuori dall’abitazione[16]. Alcuni, durante la taharàh, usano leggere in una stanza adiacente delle mishnaiot[17]. A Roma l’uso è quello di leggere dei Tehillim.
Chi può effettuare la taharàh
La taharàh deve essere effettuata esclusivamente da ebrei, uomini per il lavaggio degli uomini, donne per le donne. A priori è bene che i membri della chevrà qaddishà siano sposati[18]. E’ bene che le donne non siano mestruate o incinte[19]. Il numero delle persone che partecipano, al fine di farla nel modo migliore possibile, non deve essere inferiore a quattro[20]. Alcuni richiedono, ove possibile, dieci persone[21]. Durante la taharàh non devono essere presenti persone che non partecipano attivamente[22]. In generale si deve fare in modo che dei non ebrei non tocchino la salma o la bara durante il trasporto[23].
I membri della chevrà qaddishà hanno la precedenza sugli altri per effettuare la taharàh. Si narra che quando morì l’autore del Rivevot Efraim, ed i suoi allievi volevano effettuare la taharàh, la cosa venne sottoposta ad un’autorità rabbinica, poiché poteva sembrare logico che se ne occupassero gli allievi. La risposta fu che, poiché i membri della chevrà qaddishà se ne occupano tutto l’anno, rinunciando al proprio lavoro, hanno la precedenza anche in questo caso. Se vogliono tuttavia rinunciare in un caso specifico a favore di qualcun altro, è concesso loro[24]. Alcuni ritengono che gli allievi debbano astenersi dal partecipare alla taharàh del loro maestro, persino se fanno parte della chevrà qaddishà[25], altri scrivono che può unirsi, a patto che la effettui in prima persona[26]. Se una persona ha fatto voto di non vedere qualcuno, gli è permesso partecipare alla sua taharàh, perché la sua intenzione, quando ha espresso il voto, era quello di non vederlo in vita[27]. Se però il defunto aveva manifestato il desiderio che qualcuno non si occupasse di lui, si deve dare ascolto alle sue parole[28]. I figli non partecipano alla taharàh dei genitori[29] anche se adottivi[30]. Altresì non si partecipi alla taharàh del proprio suocero, cognato e del marito della propria madre[31]. Parimenti le donne non assistano alla taharàh della propria madre, della suocera, della moglie del padre e della cognata[32]. Il padre può assistere alla taharàh del figlio, così come il suocero a quella del genero[33]. Alcuni ritengono che in generali i parenti non debbano partecipare alla taharàh di un congiunto; se tuttavia non ci sono altre persone in grado di effettuarla, il divieto decade[34]. E’ bene che un marito si astenga dal partecipare alla taharàh della moglie niddàh[35], così come in assoluto, anche se non è niddàh[36]. In generale si deve mantenere durante la taharàh, almeno sino ad una determinata fase della vestizione, la più rigida divisione fra i sessi[37].
Chi ha diritto alla taharàh
Un non ebreo, che ha accolto la religione ebraica, ma non ha fatto in tempo a fare la tevilàh o ad essere circonciso prima di morire, ha diritto alla taharàh al pari degli ebrei[38]. Una persona che è stata assassinata, o una donna spirata durante il parto hanno delle regole particolari: difatti si deve valutare se la taharàh comporterà una ulteriore fuoriuscita di sangue. Per la partoriente si dovrà valutare anche se l’emorragia si è interrotta prima del decesso, nel tal caso dovrà essere considerata come tutti gli altri. In caso contrario la taharàh non verrà effettuata. Il rifiuto da parte dei familiari del defunto di consegnare la salma alla chevrà qaddishà per effettuare la taharàh, non costituisce un motivo per seppellire la salma in un cimitero ebraico[39],
Tempo della taharàh
In alcuni casi, in particolare in estate, quando sarà possibile seppellire solo dopo alcuni giorni, con il passare dei quali sarà sempre più difficile trovare persone disposte a partecipare, è necessario effettuare la taharàh quanto prima[40]. Se tuttavia non passa molto tempo fra il decesso e la sepoltura, si deve posticipare la taharàh sino al momento della sepoltura[41]. In ogni caso non è vietato effettuare la taharàh subito dopo il decesso, e molti lo stabiliscono come halakhàh[42].
Le fasi della taharàh
1) I membri della chevrà qaddishà lavano le mani come al mattino, versando l’acqua tre volte su ciascuna mano, alternando la destra e la sinistra, senza asciugarsi[43], verificando di avere con sé tutto il necessario per la taharàh. E’ vietato iniziare prima di essere certi di avere tutto l’occorrente[44]. Molti usano accendere dei lumi durante la taharàh[45]. I membri della chevrà qaddishà devono essere a conoscenza del nome del defunto e di suo padre (secondo alcuni di sua madre), al fine di nominarlo durante la taharàh, come previsto dal Ma’avar Yabboq[46]. Quando il defunto viene nominato non si utilizza alcun titolo onorifico[47]. Prima di iniziare la taharàh, si usa chiedere perdono al defunto[48]. Per tutta la durata della taharàh i membri della chevrà qaddishà devono evitare discorsi futili[49]. La porta della stanza deve rimanere chiusa tutto il tempo della taharàh, affinché delle persone estranee non vedano[50].
2) si alza la salma dalla terra (normalmente vengono coinvolte almeno tre persone); alcuni, qualche minuto prima di alzarla da terra, vi versano sopra dell’acqua fredda[51]. Prima di iniziare questa fase i membri della chevràh recitano una tefillàh particolare (Ribbonò shel ‘olam chamol…[52]), reperibile negli appositi formulari.
3) si chiudono gli occhi del defunto e si sistema il corpo; in modo particolare si chiude la bocca, e se questa rimane aperta, viene bloccata, legandola o in altro modo, cosicché rimanga chiusa. Il motivo per cui si chiudono gli occhi è che sin quando il defunto ha gli occhi aperti su questo mondo, non può vedere il mondo futuro[53]. Si verifica poi che il defunto, se maschio, abbia la milàh, e, se si verifica che non era circonciso, si provvede. Se vi sono dei cerotti o altri dispositivi sanitari al di sotto dei quali vi sono delle ferite aperte non vengono rimossi[54]. Se alcune delle operazioni che vengono effettuate durante la taharàh può mettere in pericolo i membri della chevrà qaddishà (ad esempio per via di una malattia contagiosa), ci si astiene dal compiere tali operazioni[55]. Alcuni hanno scritto che è opportuno effettuare la taharàh a mani nude, ma al giorno d’oggi proprio per via delle malattie contagiose, è quanto mai opportuno che i membri della chevrà qaddishà prendano tutte le precauzioni necessarie[56] (mascherina, guanti, ecc.).
4) alcuni usano tagliare i capelli e le unghie alla salma; alcuni si limitano a spazzolare i capelli[57]. Alle donne non si tagliano i capelli.
5) si pulisce accuratamente con un lenzuolo, affinché non vi sia sporcizia;
6) si inizia a lavare con acqua calda, ma non bollente, dalla testa ai piedi; si deve evitare di utilizzare acqua fredda, perché potrebbe irrigidire la salma, rendendone difficoltoso il trasporto, e perché ‘acqua calda è maggiormente efficace[58]. Nonostante ciò, alcuni usano acqua fredda[59]. Si lava prima la testa, successivamente la parte destra del corpo, poi la sinistra, partendo sempre dall’alto[60]. Il lavaggio è composto di tre fasi: un primo lavaggio con acqua, il secondo con sapone ed il risciacquo[61]. La seconda fase è accompagnata dalla recitazione dei versi riportati nel Ma’avar Yabboq[62]; durante la lettura dei versi si provveda a coprire le parti intime con un lenzuolo[63], e queste rimarranno coperte tutto il tempo, tranne quando verranno lavate[64]. I versi vengono recitati mentre si lava con il sapone la testa, gli occhi, le guance, la bocca, il collo, la mano destra, il petto, la pancia, la coscia destra e tutta la parte inferiore del corpo. Successivamente si lava il lato sinistro[65]. Terminate queste fasi, si poggia la salma prima su un lato, poi sull’altro, e si procede con la parte posteriore. Si eviti tuttavia di rovesciare del tutto la salma, perché sarebbe spregevole[66]. Durante il lavaggio, si eviti di vedere intensamente il defunto in volto, perché secondo la ghemarà[67] porta a dimenticare quanto si è studiato. Per questo, quando non si lava il volto, lo si copra con un lenzuolo[68]. Secondo alcuni durante il lavaggio i membri della chevrà qaddishà devono evitare di passarsi di mano in mano i recipienti con cui si effettua la taharàh[69].
7) successivamente, nei posti in cui si usa, si rovescia la salma su un lato per il controllo interno e si lava nuovamente;
8) I membri della chevrà qaddishà si lavano nuovamente le mani;
9) Si versano 9 qabin (circa 20-24 litri) di acqua sulla salma, utilizzando tre recipienti differenti e gettandola in un’unica volta, o comunque senza alcuna interruzione[70]; questa è considerata la parte principale della taharàh; l’uso dei nove qabin è da considerarsi alternativo al miqwèh, come si apprende dalle regole relative alla purificazione per recitare la tefillàh in seguito ad emissione di seme (Shulchan ‘Arukh, Orach Chayim, cap. 88). Alcuni considerano i 9 qabin come l’uso principale, che non deve essere eliminato anche quando viene effettuato il miqwèh[71]. Rav Shternebukh scrive di astenersi dall’effettuare il miqwèh a chi non lo faceva regolarmente in vita[72]. La fonte di questo uso, non riportato nel Rambam e nello Shulchan ‘Arukh, è il testo italiano Ma’avar Yabboq (Sefat emet, cap. 25). Alcuni si chiedono quale sia l’utilità di questa operazione, visto che la salma è essa stessa una fonte di impurità, la maggiore in assoluto. Si risponde che vi è un’utilità, perché l’impurità determinata dall’uomo può essere eliminata dall’uomo, mentre quella determinata da D., poiché la morte è un decreto divino, potrà essere eliminata solamente da D., e quando questa verrà eliminata, le altre forme di impurità contratte rimarrebbero, se non fosse per via dei nove qabin versati durante la taharàh[73]. Terminata questa procedura i membri della chevrà qaddishà dicono “Tahor hù – è puro (per una donna Tehoràh Hì)” per tre volte.
10) Si asciuga la salma con un lenzuolo asciutto.
11) si veste.
12) Molti usano mettere della terra[74], in modo particolare terra proveniente da Israele, sugli occhi della salma. Molti affidano questa operazione ai figli del defunto. In questo modo i familiari hanno modo di vedere per un’ultima volta il volto del loro caro. Inoltre in questo modo vi è anche un riconoscimento della salma, poiché negli ospedali è possibile che avvenga uno scambio di persona. La ghemarà in Mo’ed qatan riporta che inizialmente durante i funerali i volti dei ricchi venivano scoperti, mentre quelli dei poveri, consumati dalla fame, rimanevano coperti. Successivamente venne stabilito di non scoprire il volto di nessuno durante il funerale.
Fuoriuscita di sangue durante le operazioni
Se fortuitamente durante la taharàh fuoriesce del sangue, questo verrà raccolto e messo nella bara[75].
Tachrichin
I vestiti con cui la salma viene coperta sono detti tachrichin, poiché la salma viene avvolta con essi. Alcuni utilizzano otto vestiti differenti[76], altri cinque o tre[77]. Non siano comunque meno di tre, in corrispondenza delle tre parti dell’anima (nefesh, ruach, neshamàh)[78]. Vi è chi paragona i tachrichin agli abiti che il Kohen Gadol indossava il giorno di Kippur[79]. Vi sono delle regole particolari per la preparazione dei tachrichin: si usa che siano cuciti a mano, da donne in stato di purità[80]. I membri della chevrà qaddishà mentre effettuano la vestizione pensino che l’anima del defunto viene vestita a sua volta con abiti spirituali[81]. Durante la vestizione (secondo alcuni prima o dopo) si usa recitare alcuni versi (Sos asis, ecc.), così come riportato nel Ma’avar Yabboq. Se casualmente si è dimenticato di vestire la salma con uno dei tachrichin, lo si mette sopra la bara. E’ permesso fabbricare i tachrichin con kilaim (mescolanza di lana e lino), se la mescolanza non è riconoscibile[82]. L’uso consolidato è tuttavia che siano bianchi e di lino. Il lino infatti, al contrario di altri materiali, non ostacola la decomposizione[83]. Dalle parole del Maharil si desume invece che si deve evitare di produrre tachrichin di lana. In periodi di particolari ristrettezze economiche, o difficoltà di approvvigionamento (ad esempio durante una guerra) ci si chiede se è possibile utilizzare altri materiali. Molti tendono a facilitare. I tachrichin devono essere puliti. Se per qualche motivo, si erano tolti i tachrichin ad una salma, è permesso riutilizzarli successivamente per un’altra salma[84]. Se, contrariamente all’uso di Israele, qualcuno prima di morire ha disposto di essere sepolto con altri abiti, non gli si dà ascolto[85].
Tallit
Gli uomini[86], anche se non lo avevano mai indossato in vita[87], vengono sepolti con il tallit, che viene messo dopo i tachrichin. Alcuni usano toglierlo prima della sepoltura[88]. E’ preferibile utilizzare tallitot di lana[89]. Esistono vari usi su come trattare gli tzitziot. L’uso più comune è quello di reciderne uno. Si narra che il Gaon di Vilna dispose di seppellirlo con il tallit senza invalidarne gli tzitziot, contrariamente all’uso consolidato, ma non vi riuscì, poiché colui che fu incaricato di riportare tale disposizione ebbe un malore durante la taharàh, e non ebbe modo di riportarla[90]. E’ dibattuto se sia più opportuno vestirli con i tallitot che indossavano in vita[91], o se sia più opportuno vestirli con tallitot nuovi, e presumibilmente più belli, perché in questo modo si dimostra di credere alla resurrezione dei morti[92]. Si narra che il Ta”z pregasse con un tallit strappato, e delle donne gliene prepararono uno nuovo, ma rifiutò di riceverlo, perché quel tallit, con il quale sarebbe stato poi seppellito, era la testimonianza che non aveva avuto mai pensieri estranei durante la preghiera. Per chi possiede due tallitot, uno per i giorni feriali, con il quale si è pregato di più, ed uno per lo Shabbat, presumibilmente più bello, si utilizzi quello dello Shabbat, in quanto più pregiato[93].
[1] Avnè Chen, p. 255.
[2] Mo’ed Qatan 27b.
[3] Otzar dinim uminhaghim, p. 122.
[4] Otzar dinim uminhaghim, p. 122.
[5] Otzar dinim uminhaghim, p. 123.
[6] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 207.
[7] Orach Chayim 284.
[8] Bet Lechem Yehudàh 352,2.
[9] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 208.
[10] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 208.
[11] 1,33.
[12] Rav Yosi Shar’abi, Mekhirat chelqat qever we ‘inianè taharat ha-met, p. 7.
[13] In quello stesso brano Ghesher ha-chayim (vol. 2, cap. 6) individua la fonte della bediqàh penimit (controllo interno).
[14] Riportato in Nit’è Gavriel, Avelut, p. 196.
[15] Igherot Moshèh, Yorèh de’àh 3, 136 considera questa pratica assolutamente inutile, perché il miqwèh ha unicamente una funzione purificatoria, e non di espiazione per colpe commesse in vita, e per questo, sebbene non ne comprenda il motivo, ritiene che si debbano versare sulla salma nove qabin di acqua, come riportato successivamente, come prescritto dal Ma’avar Yabboq. Alcuni condannano questo uso perché comporta un grosso dispendio di denaro, e non è ricordato nei rishonim (Bet mo’ed 2,5 in nota).
[16] Kol bò ‘al Avelut, p. 87; Bet Mo’ed 6,1; 6,8.
[17] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 202.
[18] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 206.
[19] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 201.
[20] Rav Bergman, Zibula Batraita, vol. 1, p. 4.
[21] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 203 (così si legge per esempio nelle taqqanot della chevrà qaddishà di Cracovia).
[22] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 206.
[23] Kol bò ‘al Avelut, p. 87.
[24] Ach letzaràh, p. 61.
[25] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 205.
[26] Ghesher ha-chayim, vol 1, 9, 1.
[27] Bet David, cap. 81.
[28] Kol bò ‘al Avelut, p. 88, che riporta il Sefer Chassidim (537).
[29] Rav Bergman, Zibula Batraita, vol. 1, p. 4.
[30] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 205.
[31] Ghesher ha-chayim, vol 1, 9, 1.
[32] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 205.
[33] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 205.
[34] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 205.
[35] Shemesh Tzedaqàh 64-66, che conclude che “chi è rigoroso riceverà benedizione”.
[36] Rav Yosi Shar’abi, Mekhirat chelqat qever we ‘inianè taharat ha-met, p. 11.
[37] Avel Rabbatì 12,10.
[38] Ach letzaràh, p. 61.
[39] Kol bò ‘al Avelut, p. 89.
[40] Ach letzaràh, p. 61, basato su una teshuvàh del Nodà’ BiYehudàh Tiniana (Yorèh de’àh 211) Shevut Ya’aqov 2,26.
[41] Ach letzaràh, p. 61, basato su una teshuvàh del Chatam Sofer (Yorèh de’ah 328).
[42] Ad esempio l’Arukh ha-shulchan (Yorèh de’àh, cap. 357).
[43] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 209.
[44] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 198.
[45] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 202.
[46] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 199.
[47] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 199.
[48] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 209.
[49] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 202.
[50] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 217.
[51] Qitzur hilkhot avelut 17,13 in nota.
[52] Questa tefillàh, molto antica, è riportata nel Ma’avar Yabboq.
[53] Bet mo’ed 6,4 in nota.
[54] Teshuvot wehanhagot 4, p. 335.
[55] Ghesher ha-chayim, vol 1, 9, 3.
[56] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 213.
[57] Bet mo’ed 6,4.
[58] Bet mo’ed 6,1 in nota.
[59] Ghesher ha-chayim, vol. 1, 9, 1
[60] Qitzur hilkhot avelut 17,13.
[61] Qitzur hilkhot avelut 17,13.
[62] Esistono vari formulari, ma quello secondo il Ma’avar Yabboq è il principale (Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 197).
[63] Qitzur hilkhot avelut 17,13.
[64] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 211.
[65] Esistono usi differenti su quali siano le parti del corpo per cui recitare i versi.
[66] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 211.
[67] Horaiot 13b.
[68] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 213.
[69] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 217.
[70] Qitzur hilkhot avelut 17,21
[71] Teshuvot wehanhagot 4, p. 331.
[72] Teshuvot wehanhagot 4, p. 332, che ricorda che a Zefat nel luogo in cui si effettuava la taharàh c’era un miqwèh, ma non costituisce una prova, perché gli abitanti della città lo praticavano regolarmente.
[73] Bet Mo’ed 6,2 in nota.
[74] Ghesher ha-chayim 10,3.
[75] Ach letzarà, p. 62.
[76] Kol bò ‘al Avelut, p. 89.
[77] Rav Yosi Shar’abi, Mekhirat chelqat qever we ‘inianè taharat ha-met, p. 11.
[78] Nit’è Gavriel, Avelut 1, p. 233.
[79] Ghesher ha-chayim, vol 1, 10, 1.
[80] Ghesher ha-chayim, vol 1, 10, 1.
[81] Rav Bergman, Zibula batraita, vol. 1, p. 7, che riporta il Chokhmat adam 152,8.
[82] Ach letzarà, p. 62.
[83] Even Ya’aqov 10 a nome dello Zela”ch.
[84] Birkè Yosef 349,5; ‘Iiqqarè ha-dat Yorèh de’àh 35.
[85] Ach letzaràh, p. 63. L’unica eccezione in merito è costituita dal qamia’, che, se indossato in vita, viene sepolto assieme al defunto. Il Radbaz riporta il caso di una persona che desiderava essere sepolta assieme ai suoi tefillin, permettendolo.
[86] Il Quntres ha-Yachleelì, citato in Kol bò ‘al Avelut, p. 94, riporta un uso sefardita, non attestato altrove, di mettere il tallit qatan anche alle donne.
[87] Ach letzaràh, p. 65.
[88] Qitzur hilkhot avelut 17,50.
[89] Ma’avar Yabboq.
[90] Ach letzaràh, p. 64.
[91] Ma’avar Yabboq.
[92] Adnè Paz.
[93] Mishmeret Shalom Avelut 9.23.