Quella benedizione che sale dal basso verso l’alto
Il Quinto Comandamento afferma: “Onora tuo padre e tua madre… affinché si prolunghino i tuoi giorni” (Esodo 20:12 e Deuter. 5:16). Il Talmùd specifica che i genitori devono essere onorati sia da vivi sia dopo la loro morte: ad esempio, quando i genitori sono in vita è obbligo fornire loro da mangiare e bere, procurargli dei vestiti, accompagnarli “quando entrano e quando escono”, e così via; dopo la loro morte, ogni volta che i figli li nominano devono aggiungere le parole “il loro ricordo sia di benedizione” (zikhronàm livrakhà). Nominare i genitori defunti senza aggiungere zikhronàm livrakhà è considerato una mancanza di rispetto. Questo insegnamento talmudico è stato recepito dai codici legali ed esso vale, fra l’altro, anche nei confronti del proprio maestro, che è considerato un “genitore spirituale” (Talmùd bavlì, Qiddushìn 31b).
Che significa esattamente l’espressione “il loro ricordo sia di benedizione”? Chi benedice chi? A prima vista, e così è l’interpretazione comune, le anime dei defunti sarebbero la fonte, o il tramite, di una benedizione per coloro che le nominano: la benedizione scenderebbe dall'”alto” verso il “basso”. Nominando un defunto ci aspettiamo che il suo ricordo porti a noi una benedizione. Un’analisi dell’insegnamento del Talmùd rivela però che probabilmente l’interpretazione corretta è il contrario. Infatti, la frase completa che, secondo il Talmud, va pronunciata è: “Il loro ricordo sia di benedizione per la vita del mondo a venire (le-chayè ha-‘olam ha-bà)”. Dato che chi risiede nell’‘olam ha-bà (il mondo a venire) è l’anima del defunto, sembra più logico pensare che siamo noi che, ricordando il defunto, gli procuriamo una benedizione. La benedizione, quindi, salirebbe dal “basso” verso l'”alto”: sono i vivi che benedicono i morti e non viceversa.
Quest’interpretazione è in linea con altri insegnamenti del Talmùd sull’importanza delle buone azioni (mitzwòt) compiute dai figli per facilitare la “ascesa” delle anime dei defunti verso l’‘olam ha-bà. Fra queste buone azioni, il Talmùd segnala la recitazione delle preghiere, in particolare il Qaddìsh, la tzedaqà (beneficenza), lo studio (limmùd) e altre. Compiendo le mitzwòt, i figli dimostrano di essere dei “buoni ebrei” e ciò porta sollievo, per così dire, alle anime dei genitori che, dopo la morte, salgono in cielo. In altre parole, le anime dei defunti, lassù, trovano giovamento (benedizione) dal fatto che noi, quaggiù, ci comportiamo bene.
È questo un chiaro esempio della concezione ebraica, ben nota, che privilegia la vita hic et nunc rispetto alla vita nell’altro mondo.
Vediamo ora la seconda parte del Quinto Comandamento, la frase “affinché si prolunghino i giorni della tua vita”. In che modo, o perché, onorare i genitori produce una lunga vita? Ammesso che qui si parli della vita materiale su questo mondo (e non tutti pensano così), che legame c’è fra l’onore per i genitori e il prolungamento della vita?
Una risposta può essere che se noi ci prendiamo cura dei genitori, soprattutto quando sono anziani e meno indipendenti, e insegniamo ai nostri figli – se non altro con l’esempio – a comportarsi così, noi stessi ne beneficeremo quando a nostra volta saremo vecchi e i nostri figli si sentiranno in dovere di accudirci. I figli, divenuti padri, saranno onorati e con ciò potranno godere di una vita migliore e più lunga.
Un supporto a questa spiegazione viene dal fatto che solo di un’altra norma della Torà è detto che la sua osservanza procurerà una lunga vita. Si tratta della mitzwà del “nido degli uccelli”, secondo cui quando ci si imbatte in un nido e si vogliono prelevare le uova o i pulcini, bisogna prima mandare via la madre dal nido. La Torà scrive che, osservando questa mitzwà, si meriterà di avere “una lunga vita” (Deuter. 22:6-7). Per quale motivo l’espressione “lunga vita” è riportata solo per la mitzwà dell’onorare il padre e la madre e la mitzwà del nido degli uccelli? Che cosa hanno in comune? La risposta sembra evidente ed è che in entrambi i casi si parla di “madre”. Benché i Maestri del Talmud sconsiglino di ricercare il significato della mitzwà del nido degli uccelli, che farebbe parte delle leggi imperscrutabili della Torà, in realtà molti commentatori l’hanno spiegata come un mezzo per inculcare nell’uomo il rispetto e l’amore per gli animali. In particolare, la Torà vuole che si mostri sensibilità verso l’istinto materno. Ben tre volte, infatti, è ripetuta la parola “madre” nei versetti succitati sul nido degli uccelli.
Che la Torà, per parlare delle cure della madre verso i figli, porti come esempio proprio gli uccelli non è sorprendente. Chiunque abbia visto, se non altro in una foto, un uccello che dà da mangiare ai propri figli, infilando il cibo direttamente nel loro piccolo becco aperto, si sarà reso conto di quanto sia maggiore la cura parentale negli uccelli rispetto ad altri animali. Nei mammiferi, invece, l’allattamento è un sistema per nutrire i figli essenzialmente passivo. Da questo punto di vista, il comportamento degli uccelli è più simile a quello dell’uomo: il bambino, anche dopo lo svezzamento, continua ad essere attivamente nutrito dalla madre (o dal padre) e viene imboccato in modo non molto diverso che negli uccelli.
Il messaggio della Torà è, dunque, che bisogna rispettare l’istinto materno finanche negli uccelli, così come dobbiamo rispettarlo negli uomini. Prendere gli uccellini-figli da sotto la madre è una mancanza di rispetto nei confronti della madre in quanto tale. Un’espressione simile a “lunga vita” è detta anche in un altro contesto, anch’esso connesso con il rapporto genitori-figli. Si tratta del secondo brano dello Shemà, dove è scritto: “E le insegnerete (le parole della Torà) ai vostri figli stando in casa… e le scriverete sugli stipiti della vostra casa… affinché si prolunghino i vostri giorni e i giorni dei vostri figli…” (Deuter. 11:19-21).
Anche qui, la promessa di lunga vita è associata alla buona educazione dei figli. C’è da notare che oltre ai figli, in questi versi si nomina più volte la casa, in quanto luogo principale di vita della famiglia. C’è un’altra mitzwà che riguarda specificamente la casa, ed è l’ordine di predisporre un parapetto attorno al tetto per evitare di cadere di sotto (questa norma è il prototipo di tutte le leggi che concernono la sicurezza). E certamente non è casuale che questa mitzwà si trova, nella Torà, esattamente dopo la norma sul nido degli uccelli (Deuter. 22:8).
Tratto da un limmùd svoltosi al Tempio dei Giovani a Roma in occasione del 19° anniversario della scomparsa di mio suocero Mordechai Gastone ben Itzchaq Servi e di David ben Moshè Silvera, zikhronàm livrakhà le-chayè ha-‘olam ha-bà.
Ringrazio Fabio Calderoni e i rabbini Scialom Bahbout e Alfonso Arbib per preziosi spunti di riflessione.