In prossimità del Giorno della Memoria, capita spesso di vedere su RaiStoria, uno dei migliori canali televisivi, il film Paisà, capolavoro di Roberto Rossellini. Alla sceneggiatura contribuirono Sergio Amidei e Federico Fellini, che del film era anche aiuto regista, mentre assistente alla regia e autrice dei dialoghi in inglese fu Annalena Limentani.
Paisà, una delle vette del neorealismo e considerato fra i 100 film italiani da salvare, fu girato nel 1946 ma concepito già nel 1945, poco dopo la liberazione dell’Italia dalle truppe tedesche e dal nazifascismo. Del 1995 è la versione restaurata. Il film si compone di sei episodi, ambientati in diverse località d’Italia durante l’avanzata delle truppe alleate lungo l’asse sud-nord della penisola, dalla Sicilia alle foci del Po, fra il 10 luglio del 1943 e i primi mesi del ’45. Come scrive Mario Verdone nella Storia del cinema italiano (Newton Compton, 1995), Paisà include “le pagine più toccanti che ci abbia dato il cinema italiano del dopoguerra. Ne nasce un senso di disperazione profonda, un canto funebre acuto e commovente nel quadro tragico della guerra vissuta, da una città all’altra, tra gli stenti, i pericoli, le miserie, le angosce, gli eroismi, le morti più assurde” (p. 41).
Il quinto episodio, per il quale fu fondamentale l’apporto di Fellini che modificò notevolmente la sceneggiatura originale di Amidei, si svolge in un convento francescano dell’Appennino tosco-emiliano, dove giungono tre cappellani militari americani, uno cattolico, uno protestante e uno ebreo in cerca di ospitalità per la notte.
Al momento della loro comparsa sulla scena, non si capisce subito la differente appartenenza religiosa dei cappellani militari, ma un occhio attento potrà notare che sull’elmetto di uno dei tre non c’è la croce. Poco dopo, si vede uno dei cappellani che nella sua cella recita in ebraico la preghiera serale in piedi (e chi conosce l’ebraico e il modo di pregare degli ebrei, comprende subito che si tratta di un ebreo – fra l’altro, l’attore che impersona il personaggio era realmente un assistente del rabbino militare al seguito delle truppe alleate). Quando i frati si accorgono che solo il cappellano cattolico si fa il segno della croce durante una preghiera rivolta a Maria, chiedono spiegazioni e il cappellano cattolico rivela loro l’identità religiosa dei suoi due colleghi, con cui peraltro sta in ottimi rapporti di amicizia per il comune destino durante i 20-21 mesi della campagna militare in Italia. La reazione dei frati è di sconcerto, in particolare a causa della presenza dell’ebreo. Uno dei frati inizia a correre per le scale comunicando a ogni confratello che incontra: “Uno dei cappellani è ebreo!”.
Di frate in frate, la notizia si diffonde in tutto il convento. Il padre superiore chiede al cappellano militare cattolico se ha mai provato a condurre i suoi due colleghi sulla “via della vera religione”. Il cappellano risponde: “Ma il protestante e l’ebreo sono altrettanto convinti di essere sulla strada della verità! Non ho mai discusso con loro perché non ho mai pensato di poterli criticare”. Il padre superiore decide comunque di fare un tentativo per “salvare quelle due anime che potrebbero perdersi”. Quando all’ora di cena tutti si recano nel refettorio e si serve il cibo ai tre cappellani, nessuno dei frati mangia con loro. Il cappellano cattolico, stupito, chiede come mai e la risposta del padre superiore è: “Noi digiuniamo perché la Divina Provvidenza ha inviato in questo nostro asilo due anime sulle quali dovrà discendere la luce evangelica. La nostra umana presunzione ci fa sperare che con questo umilissimo fioretto possiamo ottenere dal cielo un gran dono”.
Molti ebrei italiani furono salvati nei conventi di tutta Italia durante gli anni dell’occupazione tedesca. Di ciò si deve essere grandemente riconoscenti. Ci si chiede però fino a che punto tentativi di conversione furono messi in atto. Se nel caso di Paisà si tenta di convertire addirittura dei cappellani militari americani, tanto più si può immaginare che si cercò di farlo con uomini, donne e bambini italiani spesso indifesi psicologicamente e culturalmente. Al di là di quanto questi tentativi di conversione ebbero successo, per nostra fortuna non in modo considerevole, quanti casi del genere ci furono? Sarebbe interessante sapere se un’indagine in tal senso è stata effettuata e, se no, cercare di sapere cosa realmente accadde. Anche questa riflessione è importante nell’ambito della ricostruzione storica di quegli anni e del dialogo interreligioso attuale.
Gianfranco Di Segni, Collegio rabbinico italiano