L’antisemitismo montante e i rischi di un mutamento d’attitudine anche nella Spagna che soltanto un anno fa omaggiava i sefarditi cacciati e che oggi invece manda al governo Podemos ed esponenti politici più filo Hamas che filo Israele.
Stefano Basilico
Deve essersi sentito fino a Gerusalemme lo stridore provocato dall’attrito tra l’attuazione della nuova legge sulla nazionalità spagnola agli ebrei sefarditi e il probabile insediamento del possibile nuovo governo che dovrebbe farla rispettare. Era esattamente un anno fa, nel gennaio 2015, quando la Camera dei Deputati di Madrid ha votato a favore di questa decisione storica, “che ripara un’ingiustizia di 500 anni”. In base alla normativa, in breve, si hanno a disposizione tre anni dalla sua emanazione per fare richiesta di nazionalità alle ambasciate del Regno. Non ci sarà obbligo di residenza, né di rinuncia della propria nazionalità “d’origine”. Unica richiesta, un esame di lingua e cultura per chi non proviene da paesi latini. La decisione, seppure simbolica, mette una toppa su una diaspora che dura dal 1942, quando Ferdinando ed Isabella di Aragona completarono la Reconquista scacciando l’ultimo Sultano di Granada, Boabdil. In seguito alla cacciata dei Mori, sotto il cui dominio agli ebrei era garantita una relativa libertà di culto, furono costretti a convertirsi o partire in 300.000, scacciati da Torquemada e dall’inquisitore Alfonso Suarez de la Fuente del Sauce. L’editto venne cancellato nel 1858, ma si trattava più di una formalità che di un programma coerente ed inclusivo di scuse.
E’ stato Avner Azulay, 80 anni, ex agente del Mossad, il primo cittadino sefardita a giurare alleanza a Re Felipe VI, in una cerimonia a Tel Aviv. La legge è “il simbolo di una nuova Spagna” secondo Azulay, inviato dall’allora direttore dell’agenzia Yitzhak Hofi nella penisola Iberica dopo la morte di Franco nel 1975. Sono 4.300 gli ebrei di origine spagnola ad avere ottenuto la doppia nazionalità, oltre 100.000 i richiedenti, le cui richieste verranno esaminate scrutinando cognomi, tombe di famiglia e alberi genealogici. Le richieste arrivano da paesi di consolidata emigrazione ebraica, come Israele e Stati Uniti e ovviamente da quei paesi sudamericani in cui si parla spagnolo e che sono stati rifugio sicuro per molti durante la seconda guerra mondiale, come Cile, Messico, Venezuela e Argentina.
Viene da chiedersi tuttavia, e di qui lo stridore, quanto durerà questa “nuova Spagna”. Il Governo a guida Partido Popular di Mariano Rajoy che ha approvato la legge è stato archiviato, nonostante una manciata di voti in più nelle elezioni del 20 dicembre. Si potrebbe profilare una coalizione da incubo, con i Socialisti del Psoe spalleggiati dai grillino-comunisti di Podemos. Podemos, è emerso, riceverebbe cospicui finanziamenti occulti dall’Iran, secondo quanto dichiarato dall’ex socio del leader Pablo Iglesias, Enrique Riobóo. 3.000 euro mensili per condurre il programma “Fort Apache” su Hispan TV, emittente inaugurata nel 2011 da Ahmadinejiad in persona, ex presidente di Teheran, negazionista, odiatore professionista di Israele.
Iglesias visitò Israele, kippah in testa, come “osservatore internazionale” a margine dell’Operazione Margine Protettivo nel luglio 2014. Certo, proclamò l’ovvietà, il diritto di Israele a resistere. Poi però scese in piazza chiedendo al suo governo di boicottare i prodotti israeliani; sventolò la bandiera palestinese al Parlamento europeo; paragonò i residenti della Striscia di Gaza a quelli del Ghetto di Varsavia; si oppose all’acquisto di missili Spike di produzione israeliana da parte della Spagna; tirò fuori i mantra della “resistenza” e dell’apartheid. Insomma, tutto lascia pensare ad un altro di quei partiti che predica amicizia con Tel Aviv e poi si ritrova sotto le lenzuola con i terroristi di Hamas. C’è da augurarsi che abbia ragione Azulay, che la legge sia il simbolo di una nuova Spagna, in un’Europa sempre più antisemita e inospitale per gli ebrei. Purtroppo, però, c’è da temere che Iglesias e soci abbiano in mente altri simboli.
Il Foglio – 25.1.2016