Ariel Di Porto*
Sebbene il 2016 sia stato dichiarato dagli esperti degli Oxford Dictionaries, “the year of post-truth”, il 2020 rischia di superarlo. La Treccani definisce così la post-verità: argomentazione, caratterizzata da un forte appello all’emotività, che basandosi su credenze diffuse e non su fatti verificati tende a essere accettata come veritiera, influenzando l’opinione pubblica. Nelle settimane di quarantena per il coronavirus, forse perché miliardi di persone nel mondo si sono ritrovate a casa frequentando i social media, abbiamo sentito tutto e il contrario di tutto, tanto da far vacillare l’idea di verità in ciascuno di noi.
In realtà, come tutti sappiamo, le bufale e le notizie false sono sempre esistite. La donazione di Costantino e l’invasione aliena di New York annunciata per radio da Orson Welles nel 1938 sono esempi clamorosi di questo fenomeno. Spesso nella storia gli ebrei ne sono state vittime, considerati untori nel medioevo e alcuni secoli dopo protagonisti di un complotto mondiale volto ad assumere il dominio globale. Sebbene l’accusa del sangue sia stata smentita da vari papi, questo non ha impedito che molti continuassero a darle credito.
Ciò che è cambiato significativamente negli ultimi anni è la velocità di diffusione delle notizie. Spesso, per il tono sensazionalistico e la viralità che le caratterizzano, le bufale ottengono molto più spazio delle relative smentite, tanto da circolare per molto tempo dopo il loro smascheramento. La loro forza è tale da potere influenzare, in un clima di incertezza, i risultati delle elezioni.
Oggi la questione è quanto mai sentita. Per molte persone ormai i profili social rappresentano una delle principali fonti di informazione. Si tratta di un fenomeno recente, che ha subito uno sviluppo repentino, suscitando l’interesse giustificato di tanti studiosi, neurologi, psicologi, esperti di intelligenza artificiale e di scienze sociali computazionali. Sono stati coniati termini molto affascinanti, che descrivono un mondo pieno di insidie, come cybercascate, bolle di filtraggio, stanze dell’eco. Nella rete si innescano delle dinamiche, nei confronti delle quali dobbiamo tutti porre la massima attenzione: credere che un fatto abbia un fondo di verità solo perché “lo dicono tutti”, il non percepire di trovarsi un una bolla che ci separa da quanti non la pensano come noi, dove potremo ascoltare l’eco di ciò che gli altri che si trovano assieme a noi nella bolla sostengono. Quante volte senza saperlo ci siamo trovati in una situazione del genere? Questo è in soldoni il funzionamento dei social media. In questo ambiente è molto, molto difficile mantenere alte le difese dalle falsità.
Oggi, attraverso i contenuti che condividiamo, siamo un po’ tutti giornalisti provetti e inconsapevoli. Non sempre è semplice scovare la bufala: molto raramente infatti il materiale che si trova in rete è rappresentato da notizie inventate di sana pianta. Mezze verità spesso si affacciano sulle testate giornalistiche e in TV. La caratterizzazione dell’informazione contemporanea, sempre più indirizzata al messaggio visivo, a discapito della parola pronunciata, facilita la comprensione distorta, facendo leva, suscitando reazioni di pancia, su immagini modificate e fotogrammi completamente decontestualizzati.
Nella Torà troviamo un esempio cristallino della pericolosità delle notizie false nell’episodio dei meraghelim (esploratori). Dieci dei dodici esploratori tornano dalla loro missione con un report negativo sulla terra di Israele, dando voce alle proprie paure. Nelle notizie false c’è sempre un elemento di verità, la terra di Israele è buona, ma… appunto, ma: fatti e sentimenti si mescolano, i ruoli si sovvertono. Chi doveva raccogliere delle informazioni crede tutto a un tratto di dover formare l’opinione pubblica.
Avvicinandoci a tempi più recenti, l’impostazione dei social network solleva alcuni problemi halakhici nuovi. Ad esempio è interessante considerare la posizione halakhica di chi controlla attivamente la piattaforma, censurando determinate posizioni e tollerandone delle altre. Questo approccio è differente rispetto a quella di molti altri fornitori di servizi. Nessuno accuserà le compagnie telefoniche per le posizioni espresse utilizzando le loro linee, o perché vengono usate per fare scherzi telefonici o per organizzare attentati terroristici. Lo stesso dicasi per le mail. Questi fornitori di servizi non rivendicano alcuna giurisdizione sul contenuto che trasmettono, e non ne sono ritenuti responsabili. Differente la posizione di chi intende esercitare una forma di controllo, che può incoraggiare determinate visioni del mondo a discapito di altre. La domanda è se questa posizione è abbastanza differente, tanto da sanzionarla.
Anche noi in ogni caso abbiamo le nostre responsabilità in questo nuovo mondo. Quello della ricerca della verità è un messaggio profondamente radicato nella tradizione ebraica. La Torà ci mette in guardia dalla falsità: “fuggi la parola di menzogna” (Es. 23,7). La verità è considerata il sigillo di D. (Shabbat 55a). Ha-Ketav weha-Qabalà sostiene che il peccato di non rifuggire la menzogna sia in assoluto il più comune; Sforno ritiene che la Torà vuole non solamente che non mentiamo, ma anche che dalle nostre parole le persone non imparino a mentire, così come viene imposto ai giudici nel Pirqè Avot (1,9). Non dovremmo mentire per due motivi: a) perché la Torà vuole che siamo onesti; b) perché mentendo potremmo provocare dei danni. Anche se con le fake news che diffondiamo non provochiamo alcun danno dovremmo comunque fare attenzione.
La maggior parte delle volte però si corre il rischio di danneggiare altre persone, anche se le informazioni che diffondiamo sono tecnicamente vere. Spesso il peso di particolari veri viene esasperato come se esaurisse l’intera storia, conducendo quindi a giudizi ingiusti. Ancor più grave il caso di chi diffonde informazioni false (motzì shem rà): basti pensare che in questo caso la vittima della calunnia non è tenuta a perdonare, tranne che in rarissimi casi, il peccatore. Alcuni notano che c’è anche un limite di natura tecnica, perché non è possibile che le scuse raggiungano in modo esatto coloro che avevano ascoltato l’offesa, e quindi la ritrattazione non potrà mai essere completa. Inoltre, e chi si occupa di informazione lo sa bene, il pettegolezzo è considerato giornalisticamente molto più appetitoso della ritrattazione. Il pettegolezzo viene pubblicato in copertina e la ritrattazione a pagina sei, e le notizie false sopravvivono e tornano periodicamente più vigorose che mai.
Rispetto alle trattazioni classiche sul tema, Internet presenta degli aspetti inquietanti, che non dovremmo sottovalutare: una volta chi aveva visto rovinata la propria reputazione poteva fare affidamento sull’oblio; con il tempo i pettegolezzi si sarebbero smorzati, o comunque rimaneva la possibilità di iniziare una nuova vita in un altro posto, dal momento che solo raramente i pettegolezzi riuscivano ad uscire dal villaggio. È vero che la parola scritta presentava una permanenza nel tempo maggiore, ma prima o poi sarebbe rimasta sepolta in qualche biblioteca. Internet produce delle macchie indelebili, che non svaniscono mai. In qualsiasi angolo del mondo Google è nella maggior parte dei casi in grado di scovare delle informazioni su chiunque in meno di un secondo.
Le norme che vigono all’interno di un bet din possono essere utili per comprendere determinate dinamiche all’interno dei social media: i giudici ad esempio non possono ascoltare le argomentazioni di una delle parti in causa in assenza dell’altra parte. Il Sefer ha-chinukh per esempio spiega che il motivo principale di questa norma non è che i giudici possano essere influenzati, ma che una parte, senza dovere vedere negli occhi il proprio contendente, si sentirà più libera di mentire. Anche se nei social media di solito siamo identificabili, la loro natura impersonale favorirà la menzogna.
Indipendentemente dalle eventuali responsabilità di chi ha fornito il mezzo, la conseguenza peggiore del malcostume di diffondere fake-news è la creazione di una cultura che svaluta la verità. Secondo il Sefer ha-Chinukh l’obbligo di distanziarsi dalla falsità non riguarda solo chi produce un messaggio, ma anche il pubblico che lo ascolta. Chi ascolta deve da parte sua promuovere e difendere la verità, anche quando con le proprie parole potrebbe offendere qualcuno. Nel tal caso è importante ricordare le condizioni riportate dal Chafetz Chayim: a) che riportiamo un fatto reale; b) che abbiamo verificato tutte le circostanze e che ci sia chiaro che il comportamento che denunciamo è criminoso; c) che non abbiamo esagerato nel riportarlo; d) che lo facciamo perseguendo una utilità; e) che lo facciamo identificandoci. Il punto più problematico nel giornalismo attuale è il quarto, dal momento che i giornalisti scrivono per i motivi più svariati, per interessare il pubblico, per promozione personale, per guadagnare, e ahimè raramente con un intento costruttivo.
Nel mondo della post verità l’aspirazione alla verità dovrebbe essere un obiettivo comune, perché solo attraverso di essa è possibile giungere a un dibattito sano e civile, fondamentale in democrazia. Per questo le nostre scelte nella condivisione delle informazioni hanno un significato tutt’altro che secondario, e devono essere quindi attentamente ponderate.
*Rabbino capo a Torino
Bibliografia essenziale
G. Jacomella, Il falso e il vero. Fake news che cosa sono, chi ci guadagna, come evitarle, Milano 2017
E. Safran, Fake News, nel sito outorah.org
Y. Shevat, ‘Ittonim wechadashot – mitzwà o issur behilkhot lashon ha-rà, Talelè orot 6, pp. 164-188.
J. Ziring, Le due lezioni “Fake News” all’interno del ciclo “Halakha in the Age of Social Media” nel sito etzion.org.il