Maria Luisa Moscati Benigni
Nei primi anni del ‘600 accaddero in Urbino due fausti eventi che molto rallegrarono gli ebrei del Ducato. A dire il vero il primo, la nascita di Federico Ubaldo, 16 maggio 1605 avvenne a Pesaro, ma era pur sempre il sospirato erede dei Signori di Urbino, l’unico che potesse garantire agli ebrei, ed agli altri sudditi, la certezza del protrarsi del governo ducale. Quel giorno Francesco Maria II Della Rovere, dismessa la consueta mestizia, affacciatosi al balconcino che al tempo ornava l’angolo del Palazzo Ducale di Pesaro, lo mostra nudo, forse, più che per orgoglio paterno, perché si vedesse che era maschio e il popolo la smettesse una buona volta di rammentargli che, morto lui “tutta la robba andava ai preti”.
Il tripudio del popolino fu tale che a Fossombrone bruciarono una scuola, a Cagli le carte della cancelleria criminale e a Pesaro furono coscienziosamente saccheggiate la sinagoga e le case degli ebrei, ma un tempo le masse avevano pochi divertimenti. Ad Urbino non sappiamo di atti vandalici, e si decise invece la costruzione della chiesa di S. Francesco di Paola per sciogliere il voto, ora che il sospirato erede è finalmente nato. (1) In quanto al Duca pensa bene di conferire un diploma di nobiltà ad Elisabetta Montani Pini per aver allattato l’augusto rampollo.
Per la sua tarda età e per neutralizzare eventuali mire papaline, il Duca crea un Consiglio di otto persone, una per ciascuna delle principali città del Ducato, per assumere l’eventuale reggenza durante la minore età di Federichino “per giudicare le cause, sentire gli aggravii dei Popoli, e casi che potessero occorrere alla giornata, e principalmente in materia degli Ebrei favoriti con ampi Privilegi dal Signor Duca” (2).
Più ancora si rallegrano gli ebrei, nel 1621, per le nozze del giovanissimo principe con Claudia De’ Medici, figlia di quel Ferdinando I, autore della Livornina (3), una legge ad essi assai favorevole.
Quando il corteo nuziale entra in città, attraversa la porta di Valbona fatta erigere per quell’evento, così come non si contano gli apparati allestiti in ogni dove, gli ebrei recano in dono “un bacile, saliera, cucchiaro e forcina d’argento”.
Ma appena due anni dopo la situazione precipita, con la morte di Federico Ubaldo.
Anche se il giovane principe dimostra, abbastanza precocemente, di essere tutt’altro che all’altezza del compito che lo attende, tuttavia la notizia della sua morte, tragica, improvvisa e senza eredi maschi, riempie tutti di sgomento.
Solo il vecchio Duca accoglie la notizia “con animo più di Filosofo, che di Padre, mostrando fortezza e con conoscere la mano di Dio, che dà e toglie le Vite, e gli Stati secondo il suo volere” (4).
Sollecitato più volte dal papa, Francesco Maria II firma il 4 novembre dello stesso anno, l’atto di devoluzione del Ducato alla Santa Sede da effettuarsi alla sua morte. Sempre più spesso preti zelanti e alti prelati si recano presso la corte di Casteldurante per spiare le condizioni di salute del Duca, per poi riferirne all’impaziente pontefice, ma, a volte, proprio quando sembrava che “fosse spedito, Sua Altezza, presi alcuni bocconi, per la sua complessione gagliarda, era migliorato con indicibile allegrezza degli Ebrei, che havevano nelle sinagoghe loro messe le orazioni e digiunato a pane e acqua e fatte le Quarantore come i Cristiani…” (5).
È facile immaginare in quale stato d’animo vivessero le comunità ebraiche del Ducato, tanto più che era un susseguirsi di notizie dei vari ghetti sorti in tante città italiane via via che queste finivano sotto l’influenza dalla Chiesa o direttamente in mano ad essa. Ma l’età avanzata del Duca toglieva ogni illusione in proposito. Molti ebrei cominciarono a prepararsi a partire, soprattutto per Mantova. Erano stati in Urbino per oltre tre secoli, se ne distaccano con dolore portando Urbino nel cognome; altri resteranno per altri quattro secoli sfatando la leggenda che vuole l’ebreo, per vocazione, errante.
Il 28 aprile 1631 Francesco Maria II Della Rovere, sesto e ultimo daca di Urbino, muore dopo 57 anni di regno. Dopo appena quattordici giorni, Urbano VIII annette il Ducato allo Stato della Chiesa. Urbino capitale, già da tempo abbandonata dalla Corte, si avvia rapidamente alla decadenza e quindi all’impoverimento, e almeno in questo, cristiani ed ebrei furono veramente fratelli.
Il Duca stesso, negli ultimi decenni, aveva provveduto ad abbassare la tassa sugli ebrei che passa dai 1400 ducati annui del 1580 ai 1200 nei primi del ‘600. Dopo un lieve aumento nel 1622, forse si era largheggiato troppo per il matrimonio di Federichino, essa è di nuovo ridotta a 1059 ducati nel 1626.
Le condizioni dell’”Universitas Hebreorum civitatis Urbini” vanno via via peggiorando anche sotto l’aspetto demografico: nel ‘400 contava circa cinquecento anime, ma molti si erano trasferiti a d Ancona nel 1547, altri a Pesaro per seguire la corte, i più lasciarono Urbino dopo la morte del Duca. Scendono così a poco più di cento “bocche “, a Pesaro invece vivevano 76 famiglie, a Senigallia 40, a Fossombrone 25, e molte altre a Cagli, Orciano, Mondolfo, Mondavio, Pergola e Sant’Angelo in Vado (6).
Tutte queste famiglie saranno ben presto costrette a lasciare i loro paesi per concentrarsi a Pesaro, Senigallia e Urbino, città in cui sorgeranno i ghetti. Era questo un antico desiderio della Chiesa di Roma. Da quando nel 1555 era stato eletto papa il cardinale Carafa, Paolo IV, che aveva chiuso in ghetto gli ebrei romani, numerosi erano stati gli inviti dei vari papi perché anche i duchi di Urbino erigessero ghetti nelle loro terre. Guidubaldo II, dall’umore mutevole, emanava di tanto in tanto editti in proposito, ma gli ebrei continuarono ad abitare indisturbati in tutta la città, sia pure con una maggiore concentrazione nelle Quadre S. Croce e Pusterula attorno alla vecchia sinagoga.
Per ghetto si intende un quartiere, nella città, chiuso da portoni (in genere dal numero delle porte si classifica l’importanza dei ghetti), portoni che venivano chiusi la sera, all’avemaria , e riaperti la mattina. In Urbino i portoni erano tre e ad aprirli e a chiuderli pensava “Gio. Antonio, portinaro di Valbona”. Il primo ghetto ad avere questo nome fu quello di Venezia nel 1516, era nella zona della nuova fonderia che i veneziani chiamavano del getto novo.Gli ebrei, per lo più aschenaziti, scesi dalla Germania con l’incalzare dei barbari, non avendo nella pronuncia il suono dolce della ge, lo pronunciarono ghetto e tale nome rimase, e appena divenuta insufficiente quella zona, fu loro concessa quella del getto vecchio che divenne Ghetto Vecchio.
L’idea piacque al cardinal Carafa che, divenuto papa, lo istituì a Roma nel 1555.
In realtà il primo luogo di segregazione, anche se ovviamente non appare ancora il nome ghetto, lo troviamo in Ancona e risale nientemeno che al 1427, e la città non faceva ancora parte dello Stato della Chiesa., a istituirlo fu il Consiglio della Città ed anzi, quando questa entrò a far parte dello Stato Pontificio gli ebrei levantini vi godettero di molti privilegi, salvo subire di tanto in tanto la confisca dei beni o finire sul rogo, ma questa è un’altra storia.
Nato come luogo di segregazione e quindi di netta separazione tra cristiani ed ebrei, nel timore che dalla convivenza nascessero anche stima ed amicizia, o peggio, amore, e soprattutto perchè i popoli si abituassero a considerare gli ebrei come una specie di paria da evitare, e perché gli ebrei stessi, cercassero di uscirne convertendosi al cristianesimo, il ghetto sortì invece l’effetto contrario.
Nella segregazione la fede e la solidarietà ne uscirono rafforzate, e soprattutto le tradizioni, non contaminate dalla frequentazione di quelle degli altri, rimasero intatte per secoli, come se il tempo si fosse fermato. E inoltre, nell’isolamento, non trovarono altro svago che lo studio e la riflessione, per questo forse, una storiella yiddish (7) dice che, è ebreo colui che, ad una domanda, risponde con un’altra domanda, o che là, dove sono due ebrei che si scambiano le proprie idee, alla fine ne sarà nata una terza.
Nasce il ghetto di Urbino
Ora che Urbino è passata alla Chiesa nulla può più ostacolare la realizzazione dell’antico sogno di Roma, ma se si attende ancora due anni, è solo perché, prima di procedere all’inventario degli ebrei, è più urgente procedere a quello dei codici della preziosa libreria di Federico (8).
Si arriva dunque al primo agosto 1633 e in Consiglio Comunale “convocato al suono della campana grossa “viene letta una lettera con la quale il Vice Legato Mattei ordina che si venga al “totale stabilimento del ghetto e che perciò il Consiglio per voti segreti dichiari il luogo che stima più a proposito”. (9)
Fu senza dubbio una seduta tanto lunga e laboriosa quanto inutile.
Viene letta infatti una relazione dettagliata sui luoghi presi in esame, poi si passa alla votazione segreta: viene prima pallottato il “sito di Valbona dietro la Casa delli Sig. Giunchi.. (ove poi sorse il ghetto) e aperte le bossole in quella del sì furono palle n.9 e in quella del no 14 (qualcuno evidentemente non era stato ai patti); fu poi pallottato il sito sotto Santa Margherita…. nella bossola del sì vi furono palle n. 9 e in quella del no, 14; fu pallottato il sito dei tre vicoli nell’Evagine cioè quello del Sig. F.co Rosa, del Sig. F.co Fazzini, e l’altro di sotto, onde aperte le bossole in quella del sì, vi furono palle n.9 e in quella del no, 14; fu pallottato il sito del Gioco della Palla dietro i Fiancali, aperta la bossola nel sì furono palle n. 4 e nel no palle 18; fu pallottato il Vicolo e luogo dove sta il Sig. Conte Odasi (10), palle 18 per il sì e palle n. 7 per il no.
Questa era senza dubbio la soluzione più logica dato che lì, si trovavano già la sinagoga e la maggior parte delle case degli ebrei, ma in data 25 settembre il notaio Francesco Scudacchi (11), sino ad allora impegnato nell’inventario della biblioteca ducale, inizia le pratiche relative all’erezione del ghetto e comunica che il luogo prescelto è dietro Valbona, ignorando la laboriosa delibera dato che era proprio il luogo che il Consiglio aveva bocciato per primo. Né la questione era stata trattata in altre sedute tra il primo agosto e il settembre, per cui si può ipotizzare che la famiglia Giunchi, proprietaria di numerose case in Valbona e Via Stretta, abbia cercato di assicurarsi un affare che si prospettava vantaggioso: lasciare che il Comune sfrattasse i vecchi inquilini per affittare agli ebrei i quali, qualunque fosse l’importo dell’affitto, non avrebbero avuto comunque possibilità di scelta. Aveva cercato in un primo momento di raggiungere lo scopo sfruttando la parentela, acquisita, con il Conte Palma, membro influente del Consiglio dei quaranta, poi, visto il risultato della pallottazione, si sarà certamente rivolta più in alto.
E fu la fortuna dei Giunchi e dei Palma.
Forse sono solo illazioni, ma le case dei Giunchi, cinque per l’esattezza, furono tutte affittate a banchieri (12), si può immaginare a quale prezzo dato che in un bando, presente nello stesso atto, è chiaramente detto che nel fissare “il nolo delle case che dovranno habitare i cristiani, non si tenga in alcun conto quello che si paga dagli Hebrei”.
Poiché Palazzo Giunchi (al n. 89 di Valbona), era occupato dagli stessi proprietari al piano nobile, è ovvio che ai suddetti banchieri, oltre a tre “case piccole” era stato assegnato il secondo piano, che si affaccia anche su via Stretta, Dal n. 24 di detta via esso era accessibile grazie ad una stretta scala, esistente fino ai primi del ‘900, e demolita per far posto ad un cucinotto al primo piano e ad un camino al secondo.
In quanto al Conte Diego Palma, pensa bene di costruire il cavalcavia su Via delle Stallacce, ufficialmente per assistere alle funzioni nella nuova chiesa di S. Francesco di Paola e quale indennizzo per la luce venuta a mancare nelle sue stanze con la costruzione della chiesa (13), ma in realtà dopo poco, salvate le apparenze, affitta inizialmente la sola parte sulle Stallacce, poi tutto il palazzo sito in Via Mazzini 63, al banchiere Leone Guglielmi, e si trsferisce a Palazzo Galli che diventa da allora Palazzo Palma (al n. 36 di Valbona).
La presenza del cavalcavia era determinante in quanto un ebreo non avrebbe potuto abitare fuori del recinto del ghetto, né avrebbe potuto raggiungere la sinagoga per le funzioni serali poché i portoni venivano serrati all’avemaria. Attraverso il cavalcavia, , che dal secondo piano della casa usciva, non su S: Francesco, bensì nella scala della prima casa del ghetto, poteva scendere tranquillamente sino davanti alla sinagoga anche, volendo, senza uscire in strada dato che tutte le case del ghetto erano collegate tra loro. Era questa, una caratteristica comune a tutti i ghetti, per meglio proteggersi dalle scorrerie, durante le ore del giorno, quando i portoni erano aperti. Non sempre infatti il popolino che affollava le vie del ghetto vi si recava per far compere nelle botteghe dei merciari ebrei, molto spesso bastava una predica particolarmente infervorata o un felice evento da festeggiare, perché botteghe, sinagoga e soprattutto i pegni custoditi nei banchi, fossero razziati nel corso di improvvisi tumulti. Ad Urbino però non fu mai versato del sangue come nella vicina Senigallia ove nel 1799 decine di ebrei furono feriti e tredici barbaramente uccisi dalla folla, dopo che tutto il ghetto fu depredato. In quell’anno anche a Pesaro ci furono tumulti ed anche ad Urbino, ma qui la gente sapeva bene che non c’era molto da rubare nel ghetto, ove non era certo ben chiaro il concetto di ricchezza dal momento che usavano il proverbio “se ciavess li quadrin de Rosciìld, vorria mangià ‘na melarancia al giorn “.
Il notaio Scudacchi dunque, incontra nella vecchia sinagoga i capi famiglia ebrei di Urbino convocati da Michelangelo trombetta (a poco a poco il mestiere di banditore diventerà cognome), e quelli di Fossombrone, Cagli, S. Lorenzo, Pergola, S.Angelo, Mondolfo, Orciano e Mondavio, tutti avvisati dai Trombetta locali.
Verranno edotti dettagliatamente sulle cose da fare e i termini da rispettare, ma sarebbe qui troppo lungo elencarli tutti (14). Viene immediatamente fatto l’elenco degli ebrei, compresi quelli degli altri paesi che dovranno trasferirsi nel costruendo ghetto, annotato il numero delle bocche di ciascuna famiglia, professione, e scelta dei rappresentanti: tre fra quelli di Urbino e tre fra quelli venuti da fuori. In tre giorni dovranno scegliere le case, raccogliere il denaro per erigere, a loro spese, i muri per serrare alcuni vicoli, e fare gli archi per i tre portoni previsti. Uno dovrà essere costruito all’inizio della principale via del ghetto, oggi Via Stretta, proprio vicino alle mura della città, un secondo in cima a Via delle Stallacce, sotto i contrafforti del Duomo (Corso Garibaldi venne aperto solo nella metà dell ‘800) e un terzo poco più sù del cavalcavia che, come abbiamo visto, è di pochi anni più tardi.
Naturalmente vanno prontamente vendute le case che gli ebrei hanno, sparse nella città. Né si può dire che il Vice Legato Mattei fosse più tenero con i cristiani “che habitano le case destinate al Ghetto, che le lascino libere et espedite nel termine di giorni quindici, sotto pena… di scudi cento”. In compenso per questi stabilisce una specie di equo canone ordinando che chi “abbia case d’affittare non possa del nolo chiederne più di quello che li Padroni ne ricevettero un anno fa…”.
Ma per gli ebrei nuove nubi si profilano all’orizzonte, Il 29 ottobre il notaio Scudacchi torna nella sinagoga “al suono dell’avemaria, dove stavano radunati tutti gli Hebrei ai loro uffizi (preghiere)” ai quali disse che “che nel termine di dieci giorni prossimi debbano essere andati ad abitare in Ghetto… e… sotto pena di 100 scudi da applicarsi al solito”.
E ancora: il 5 novembre il Vice Legato Mattei scrive “S’intende (si apprende) che gli Hebrei in questa città si servono nelle loro occorrenze di ostetrici e balie cristiane, il che… non si deve ne permettere, ne tollerare…”. Pertanto ordina di proibirlo sotto la stessa pena e cioè 100 scudi così ripartiti: 50 alla Camera Apostolica, 25 all’esecutore e 25, sembra incredibile di vederlo scritto in un pubblico atto, al delatore. La stessa cosa dicasi per l’obbligo, mai imposto veramente dai duchi, di portare il segno giallo sia in città che fuori, una vera manna per i delatori.
Sette giorni dopo l’instancabile notaio, col suo fascio di carte che si fa ogni giorno più pesante, torna nella vecchia sinagoga, e fa presente che nel “termine di giorni tre debbono aver eletto e deputato in Ghetto il luogo da fabbricarsi la Sinagoga, altrimenti non obedendo… se li mette un gravame d’uno scudo al giorno per ciascheduna persona sin tanto che averanno fatto detta deputazione…”
Il luogo prescelto è quello dove essa si trova attualmente, come si può vedere raffrontando tra loro l’acquerello del Mingucci del 1626 ove al suo posto sono disegnate alcune piccole casette, e un acquaforte dei fratelli Scoto del 1638 ove è chiaramente visibile un unico edificio, massiccio con quattro finestre: quella di sinistra del matroneo, le altre tre della sala del tempio. Infatti anche nel manoscritto di Del Vecchio sono disegnate le tre vetrate della sala.
Tuttavia non è pensabile che tale ristrutturazione possa essere stata eseguita in tempi brevissimi, per cui in un primo momento la sinagoga fu allestita in una sala del piano nobile di Palazzo Giunchi, nella parte che si affaccia sul ghetto.
Al n. 24 di via Stretta ci sono tuttora tre ampie sale, usate allo stesso scopo dal 1851 al 1857, durante i lavori di rifacimento della sinagoga, “come già in passato” è scritto nei registri della Comunità israelitica. Nella prima di queste sale, che ha un alto soffitto con ventiquattro vele sorrette da eleganti capitelli, fu certamente collocato l’antico Aron portato dalla sinagoga di via dei Merciari e lì restaurato.
Anche le botteghe che per secoli avevano tenute in ogni parte della città dovranno “nel termine di giorni 8 aver dismesse, e portate in Ghetto, sotto la pena di 50 ducati e tre tratti di corda e contro a quelli che saranno disobbedienti… un gravame di mezzo scudo al giorno”.
Il 13 dicembre 1633 il ghetto è fatto e il notaio scrive “…promettendo di essere taciti e contenti… fatto in Urbino nella casa detta la sinagoga, sita nel Vicolo degli Ebrei”.
Non è facile crederli veramente “taciti e contenti”, questi ebrei, strappati ai loro paesi e alle loro case, costretti a chiudersi in ghetto, sostenendone essi stessi la spesa, suggellando questo nuovo sopruso col giuramento “more hebreorum”.
Non manca che una piccola spesa: i quattro scudi romani a colui che ogni sera chiude dall’esterno i tre portoni del ghetto, forse è lo stesso mastro Giovanni Antonio portinaro che sta nella piccola casa sopra la porta di Valbona.
Due anni dopo nel ghetto di Urbino c’è di nuovo movimento. Come si è visto il Consiglio della Città di Fossombrone richiede due prestatori, è lo stesso Mattei che risponde alla richiesta scrivendo che “per poter godere della grazia fatta da N. S. (il Papa) a codesta città che due banchieri Hebrei a soddisfazione e gusto dell’istessa Città e Consiglio possano venire a stanziarvi per tre anni, Flaminio di Zaccaria de Porto e Moisè Beer… con le loro famiglie, che paghino a mio arbitrio a codesto S. Monte per l’entratura scudi cinquanta ciascheduno…” e aggiunge che “li sudetti dovranno obbligarsi a tenere anco una Bottega per uso Merceria”. Ma l’anno successivo deceduto il Beer, si chiede che possano andare ad abitarvi i figli di Jacob hebreo da Camerino e si precisa che “non darà ai sudetti Hebrei alcuna molestia, mentre in una stanza della loro Casa et Habitatione eserciteranno i loro riti ne meno ad altri Hebrei che per transito si troveranno in cotesta città”.
Quindi i Camerino e i Da Porto vanno a Fossombrone, la sinagoga si trasferisce nella nuova sede, molti altri partono per città più sicure, come Mantova, passata da poco ai liberalissimi duchi Gonzaga Nevers, ove già avevano mandato i loro beni durante gli ultimi mesi di malattia del Duca.
Molte case nel ghetto rimangono sfitte, ma il nolo va ugualmente pagato perché comprese nel recinto del ghetto. Il danno economico che ne deriva è notevole per l’amministrazione della comunità che deve sostenerne l’onere.
Viene quindi fatta domanda di “scortare il ghetto” e se ne parla nel Consiglio comunale del 21 marzo 1638 e si decide che “si scorti col levare agli Hebrei le case che hanno sul borgo di Valbona per levarli la vista che hanno della chiesa di San Gregorio e, specialmente come nemici di Dio, non habbiano d’haver la vista del S. S. Sacramento in occasione di Comunioni che vanno agli infermi…..” (15)
Non se ne fece nulla poiché le tre case figurano nei registri della comunità sino ai primi del ‘900.
Così come non si fece nulla della decisione di spostare il mercato al mercoledì, è lo stesso Arcivescovo che lo chiede perché “non può tollerare con buona coscienza, che nel giorno di Sabato si faccia mercato mentre in tal giorno cade festa di precetto..” ed anche il gonfaloniere ribadisce che il Mercoledì “è giorno molto a proposito, a beneficio dell’Università degli Hebrei, .. per dare comodità ai sudetti in detto giorno di negoziare i loro interessi e acciò maggiormente habbino occasione di poterci aiutare e continuare à stare nella città”.
Ma il Consiglio vuole chiaramente sostenere gli interessi degli altri mercanti cui non par vero che di Sabato gli ebrei non possono lavorare e tanto meno toccar denaro, per cui “…dopo un lungo discorso fu resoluto, à viva voce, che si veda se S. Em.za, con alcune raggioni…….vuole quitarsi e permettere che si continui al solito in proposito al mercato, e quando non resti quieto, che si scriva à Roma per ottenere la facultà da N. S. (il Papa)” (16).
Quindi l’impossibilità di svolgere le attività commerciali proprio nel giorno di mercato e soprattutto l’alto costo degli affitti di case vuote in numero sempre maggiore, nonché la tassa annua in scudi romani da inviarsi a Roma per la Casa dei Catecumeni (gli ebrei convertiti), porteranno ad uno stato di vera indigenza l’amministrazione della Comunità ebraica urbinate. Quest’ultima tassa fu certamente quella che pagarono con maggior amarezza: non solo dovevano sorvegliare i loro piccoli perché non fossero battezzati di nascosto e quindi strappati alle famiglie, o dovevano assistere alle prediche conversioniste nella vicina chiesa di S. Francesco di Paola, pagando essi stessi i predicatori, ma dovevano versare anche una tassa per il sostentamento degli ebrei convertiti, più o meno spontaneamente, a Roma.
Va detto però che in questo periodo, il suo declino coincide con quello dell’intera città.
Di notevole aiuto furono i provvedimenti presi di tanto in tanto da papi, in certe cose più miti e comprensivi come Pio IVche, sia per attenuare le feroci disposizioni del suo predecessore Paolo IV, e sia per impedire che i cristiani, proprietari di case nel ghetto, si avvalessero della loro posizione privilegiata chiedendo ai loro inquilini ebrei, per loro sventura inamovibili, pigioni sempre più elevate, stabiliva che da quel momento, era il 1562 ma resterà valido per tutto il tempo dei ghetti, il canone d’affitto dovesse restare inalterato.
Con ciò si veniva a creare lo jus-gazzagà (diritto di possesso) in base al quale si dava agli ebrei, con la formula “finché duri il ghetto e la sinagoga” un dominio di cosa stabile che poteva essere data in dote, venduta, permutata o ipotecata.
Duecento anni dopo un altro papa, Benedetto XIV, prese a cuore le sorti dei ghetti dell’ex ducato: istituì una tassa, sulla rendita della fiera di Senigallia a loro favore. Detta rendita era così ripartita: 5/8 a Senigallia, 2/8 ad Urbino e 1/8 a Pesaro
Al momento della sua costituzione, il ghetto contava, 369 anime, compresi gli ebrei venuti da fuori, in tutto 64 famiglie.
Se contiamo i lumi appesi al soffitto della sinagoga nel disegno del rabbino Del Vecchio, sono esattamente 64: era infatti usanza che ogni famiglia alimentasse la propria lampada.
Inoltre, essendo state riunite in Urbino intere comunità dei centri vicini, ben tre rabbini furono presenti contemporaneamente: Mosè da Porto proveniente da Sant’Angelo in Vado, Consolo di Raffaelle da Norcia, rabbino di Fossombrone e Jacobbe Moscati di Urbino la cui famiglia era presente in città già da molte generazioni.
L’area del ghetto è ben visibile nella stampa a volo d’uccello del Luci del 1689: i tre portoni, il cavalcavia, le tre vie principali Via delle Stallacce, quella sotto le Stallacce e via Stretta. A metà di quest’ultima esisteva una piazzetta, (quella attuale è il risultato abbastanza recente del crollo di un edificio annesso alla sinagoga stessa e mai rivendicata) collegata alla via sovrastante da una scalinata. Infatti se scendiamo da via delle Stallacce sulla destra la si nota ancora: una scala che scende per terminare contro la parete, chiusa, di un cortile.
Si racconta che per quelle scale saliva un giorno di dicembre, Pagnoccò, teneva in braccio un “gallinaccio” per le imminenti feste di Channukkà (la festa delle luci), giunto in cima alla breve scala il volatile gli sfuggì di mano e prese a svolazzare verso la fine della via sotto le Stallacce. “Lì c’è il muro” pensava Pagnoccò per nulla preoccupato, ma aveva fatto male i suoi conti perché l’animale con un breve svolazzo vi salì e, aperte le ali, scomparve. Rapido, più di quanto potessero permettergli l’età e la neve già alta, tornò sui suoi passi, le scale non le vide neppure, attraversò la piazzetta, fece correndo l’ultimo tratto di Via Stretta, uscì dal portone giusto in tempo per vedere un signore avvolto nel suo pesante mantello che scendeva, serio, la via. Fattosi non poco coraggio, a lui chiese notizie, ma l’uomo scosse il capo con aria severa. E Pagnoccò, povero ebreuzzo del ghetto, non poteva permettersi di dubitare della parola di un signore cristiano, e restò lì a rimirare con aria sconsolata, il manto di neve perfettamente intatto, rotto soltanto dalle orme di quell’uomo tra le cui braccia aveva trovato rifugio, si fa per dire, l’ignaro volatile. Per questo si dice ancora “N’ha toccat i piéd per ter’, com’el gallnacc d’ Pagnccò”, quando qualcosa sparisce, ma non si può fare il none del sospettato.
Ora quella piazzetta non c’è più, al suo posto i frati di San Francesco fecero costruire una casa nel 1789 (al n. 27 di Via Stretta). Alla Comunità ebraica, con la popolazione ormai dimezzata, un’altra casa non serviva proprio, tuttavia doveva ugualmente pagarne il nolo dato che era nel recinto del ghetto Ne acquistò allora lo jus -gazzagà Moisè Israel Moscati (17), per il figlio Giacobbe, anche se abitavano già in gran parte di Palazzo Giunchi ove il posto certo non mancava. Al piano terra della nuova casa fu costruito il mikwé (bagno rituale) per la Comunità. I Sig. Ontani, che acquistarono la casa ai primi del ‘900, raccontano che c’era una vasca quadrata, profonda e numerosi gradini per scendervi dentro, infatti, essendo un bagno di purificazione, l’immersione deve essere totale.
Ed è sempre a Mosé Israel Moscati che il “Governo del Dipartimento del Metauro e delle Due Sicilie” si rivolge il 5 aprile 1815, per poter ospitare un battaglione di truppe napolitane, non avendo disponibile la somma necessaria, di 400 scudi romani. (18)
Salendo nella via, all’altezza del n. 11, mezzo dentro e mezzo fuori dall’edificio, c’era un pozzo; vi attingevano acqua quasi tutti gli abitanti del ghetto, per lo meno coloro che non lo avevano in casa.
Nella stessa via, al n. 15, c’era fino a neppure tre anni fa, una casetta rimasta intatta, come doveva essere nel ‘600, al momento della creazione del ghetto (19). Era la casa dello sciattino (da schoket), cioè colui che uccide gli animali in modo che la carne risulti kasher (adatta, in regola con le regole alimentari ebraiche), questi svolgeva anche l’attività di sacrestano.
L’ultimo della famigla Perugia, ad abitarvi fu Isacco (era già la fine dell’800), le cui figlie, maestre, accolsero nella loro scuola privata generazioni di urbinati, ebrei e non, come molti ancora ricordano. A quel tempo la famiglia si era già trasferita al n. 3 di via delle Stallacce e la nuova famiglia venuta ad abitare nella casetta dell’ex ghetto continua curiosamente a scannare e spennare, sia pure per famiglie cristiane, oche, polli e piccioni, era la famiglia di “Pastic” (20).
Isacco dunque continuò l’attività di suo padre David, figlio di Emmanuel anch’egli sciattino e sacrestano dalla seconda metà del’700, avevano il possesso della casa in virtù dello jus – gazzagà. In una stanza separata del piccolo edificio ci fu un tempo, accessibile dalla casa accanto, un piccolo oratorio.
Al piano terreno c’era la bottega, sulla pietra del piccolo davanzale “vendevano le carni cascirre” dicono i vecchi del luogo.
Nel 1797, con l’arrivo dei francesi le porte del ghetto furono abbattute e bruciate, sulle ceneri fu piantato l’Albero della Libertà, ma fu una gioia di breve durata poiché due anni dopo, ritiratisi i francesi, come si è visto, scoppiarono tumulti, le vie del ghetto furono invase, devastate e saccheggiate.
Ma col ritorno dei francesi e la creazione del Regno d’Italia, Urbino entra a far parte de Dipartimento del Metauro, e al Rabbino Salomone Ancona giungono le stesse direttive indirizzate “Alli Sigg. Parochi del Comune di Urbino” e l’Aiutante Maggiore arruola nella Guardia Nazionale del Cantone di Urbino, anche i giovani ebrei. Le lettere iniziano ora con “Ill.mo Sig. Maestro” e terminano con “… godo della sua stima…”
Sarebbe veramente un gran passo avanti sulla via dell’emancipazione se, caduto Napoleone, non si tornasse, con la restaurazione, al passato governo.
Ovunque ritornano i ghetti, si rifanno i portoni, ma ad Urbino per dieci anni ancora l’Arcivescovo della città cercherà di rimandare tale triste evento, nonostante le ripetute sollecitazioni del Papa. Ancora nel 1825 l’arcivescovo Ignazio Ranaldi invia attestati e testimonianze al Papa Leone XII in difesa degli ebrei della città. Ma l’anno successivo certifica che “il ghetto di questa città è composto di cencinquantasei individui, tra uomini e donne, come risulta dall’elenco presentato dal Maestro dell’Israelitica Università… e che il portinaio cristiano addetto all’apertura e chiusura delle porte del detto ghetto ha di annuo emolumento scudi nove”. (21)
Sembra tornare tutto come prima, ma in realtà ora i cancelli sono solo ai due capi di Via Stretta, e gli ebrei abitano ormai quasi tutti fuori del ghetto. Ancora pochi anni e il portinaio finirà col dimenticarsi di chiudere i cancelli all’Avemaria.
Curiosità linguistiche del dialetto giudaico- urbinate
Non è rimasto molto della parlata del ghetto, anche se la presenza ebraica in città, si è protratta per oltre settecento anni.
Probabilmente ciò è dovuto all’isolamento forzato prima, e al lo scarso numero di ebrei presenti all’apertura del ghetto e quasi tutti di un livello culturale medio-alto.
Tuttavia dalla lunga presenza dello schokèt e dal perdurare della sua attività, alcuni termini di chiara derivazione dalla lingua ebraica sono entrati nell’uso comune, sia pure storpiati dal dialetto locale. Dal termine kasher, cioè preparato secondo le norme alimentari ebraiche se si tratta del cibo, o che vive, o che è fatto secondo le regole, se riguarda una persona o una cosa, deriva il termine dialettale cascirro, cioè a posto, adatto.
Non è infrequente sentire ancora nelle campagne esprimersi con la frase “en’é (non è) tant cascirro” nei riguardi di una persona poco raccomandabile.
E poi ancora. Dal termine ebraico shechitàh, cioè l’azione dello sciattino che recidendo la trachea, prende alla gola, deriva la forma dialettale sciattato che si usa sia in senso reale per indicare lo stato fisico di chi ha appena compiuto una lunga corsa o una dura salita, sia in senso figurato come “preso per asciatto” proprio di chi si è arreso ad una fastidiosa insistenza.
Bibliografia e note
1 – La costruzione della Chiesa di S. Francesco di Paola fu decisa sin dal 1605, ma il luogo, in Valbona fu scelto solo nel 1611, ed era quasi ultimata nel 1613.
2 – Anonimo, Memorie Historiche ded. a D. Riviera, Amsterdam MDCCXXIII, p. 44
3 – Sotto questo nomignolo va l’insieme di lettere patenti o costituzione della Nazione Ebrea del 10 giugno 1593 con cui Ferdinando I de’ Medici, invita “tutti i mercanti di qualsivoglia nazione” a stabilirsi a Livorno e a Pisa, offrendo libertà di culto e tutela dall’Inquisizione.
4 – Anonimo, Op. cit., p. 1
5 – Anonimo, Op. cit., p. 61
6 – A. Milano, Storia degli Ebrei in Italia, Torino 1963, p. 299
7 – Lo yiddish è stata per più di mille anni una delle principali lingue di comunicazione tra le comunità ebraiche del mondo aschenazita (tedesco e dell’est d’Europa) e fu quindi il mezzo per l’espressione scritta di una ricca, e spesso curiosa, letteratura.
8 – Luigi e Maria Moranti, Il trasferimento dei Codices Urbinates, Urbino, 1981.
9 – Consigli comunali, Vol. XII cc 114-115, B.U.U.-F.C.
10 – Il vicolo degli Odasi era nel’600 nella zona dell’odierna Via Veterani poiché vi si erano trasferiti forse nel palazzo che fu poi della fam. Rosa, che all’epoca abitava in un vicolo di Lavagine.
11 – Arch. di Stato, Vol 2056, notaio Francesco Scodacchi, i passi dell’atto saranno di qui in poi riportati fra virgolette.
12 – I banchieri nelle case dei Giunchi erano: Barucco Camerino, Giacobbe Orefice e Giacobbe Guglielmi di Urbino, Leone Guglielmi di Cagli e Elia di Emanuelle Laudadio di S. Lorenzo in Campo.
13 – L. Moranti, La Confraternita del Corpus Domini di Urbino, Il Lavoro Editoriale, 1990 p.26
14 – M.Luisa Moscati Benigni, Urbino 1633: nasce il ghetto, Proposte e Ricerche n.14, pp. 121-138
15 – Consigli Comunali, Vol XIII, B.U.U.-F.C. (21- 3- 1638)
16 – Consigli Comunali, Vol. XIII B.U.U.-F.C. (20-4-1639)
17 -Archivio della sinagoga, carte sparse, (17 – agosto -1789)
18 -Archivio della sinagoga, (5 aprile 1815)
19 – M. Luisa Moscati Benigni, La casa dello schokèt, Proposte e ricerche n.14, pp.335-341
20 – Personaggio noto ai vecchi urbinati- Si veda il capitolo Soprannomi in “Na mulicca de dialett” a cura di M.L. Baldassarri Luminati., Urbino, 1974.
21 -Archivio della sinagoga (5 sett.- 1826)