Dalla derashà pronunciata al Tempio Grande di Roma in occasione della consegna del diploma di Maskil, Shabbat Balak 5771 – 9 luglio 2011
Ariel Di Segni
È scritto nel Talmùd (Bavà Batrà 14b): “Moshè ha scritto il suo libro (ossia i cinque libri della Torà) e il brano di Bil’àm”. I commentatori s’interrogano sulla necessità del Talmùd di sottolineare che fu Moshè a comporre i versi della profezia di Bil’àm, come se essi non facessero veramente parte della Torà. Fanno notare che mentre tutto il resto della Torà fa parte della profezia di Moshè, le benedizioni profetiche di questo brano non furono profetizzate da lui, bensì da Bil’àm. Pertanto, era necessario puntualizzare che a differenza della maggior parte degli altri libri profetici, in cui l’autore del testo della profezia e il profeta che ha avuto la visione descritta sono la stessa persona, in questo caso non fu chi pronunciò la profezia (Bil’àm) a metterla per iscritto, bensì un altro profeta che assistette ad essa (Moshè). Ad ogni modo, le parole del Talmùd sono ancora alquanto enigmatiche: nel ricordare Moshè come autore di entrambe, è come se il Talmùd stesse mettendo tutta la Torà e la profezia di Bil’àm sullo stesso piano!
Questa contraddizione non è l’unica riguardo alla figura di questo profeta. In tutta l’opera rabbinica si fa riferimento a Bil’àm da un duplice punto di vista. Da una parte, i Maestri lo menzionano più volte in modo assolutamente dispregiativo (per esempio, ai suoi allievi sono attribuite “avarizia, superbia e avidità”, Pirkè Avòt 5, 19); d’altro canto, Bil’àm viene anche apparentemente lodato, come è detto nel Midràsh: «“Non vi fu per Israele nessun altro profeta come Moshè” (Devarìm 34, 10) – “per Israele” non vi fu, ma per le altre nazioni del mondo vi fu: Bil’àm» (Bemidbàr Rabbà 14, 19). Qual è la vera natura di Bil’àm, il cosiddetto “profeta dei popoli”?
Per rispondere a questo quesito, bisogna considerare il valore che hanno i versi delle benedizioni pronunciate da Bil’àm. Essi sono tenuti in gran considerazione dai Maestri, tanto che alcuni di essi sono entrati a far parte della Tefillà quotidiana o del Musàf di Rosh hashanà.
Il Rambàn (Nachmanide) trova nelle parole pronunciate da Bil’am espressioni che elevano il popolo d’Israele e lo lodano forse anche più di ogni altro passo della Torà. Nel Midràsh è riportato: “È più grande la benedizione con cui Bil’àm benedisse Israele di quelle con cui Ya’akòv benedisse le tribù o Moshè il popolo” (Yalkùt Shim’onì, Balàk).
Si chiede quindi il Maharàl di Praga: Perché il brano riguardante la grandezza di Israele doveva uscire proprio dalla bocca di una persona malvagia e impura come Bil’àm? Risponde che le benedizioni di Bil’àm possono quasi essere considerate come una testimonianza, in cui egli constatò la grandezza del popolo di Israele nei suoi aspetti più veri e reali. E così come la testimonianza di un parente stretto non è valida e non può essere accettata in tribunale, possiamo dedurre che la testimonianza di una persona lontana come Bil’àm sia la più valida per parlare a favore degli ebrei.
Anche rav Baruch Epstein (l’autore della Torà Temimà), nel suo commento al Siddùr, difende l’uso di recitare i versi della profezia di Bil’àm nella Tefillà. Il ragionamento che fa in favore della sua posizione è simile a quello del Maharàl. Egli dice che quando un amico intimo fa una benedizione o un complimento, si mette spesso in discussione l’obiettività delle sue belle parole. L’affetto che c’è tra due amici può chiaramente determinare una certa parzialità, che spesso si riflette nelle parole di benedizione, che esagerano i successi o minimizzano le lacune. Ma quando è un nemico a riconoscere i meriti o le virtù di un avversario, allora è giusto presumere che non vi sia nessuna esagerazione nelle sue parole e che le buone qualità da lui rimarcate rispecchino accuratamente la realtà.
Possiamo però offrire un’ulteriore spiegazione all’importanza data alle parole di un malvagio come Bil’àm. Dal racconto della Torà si capisce chiaramente che le benedizioni non venivano veramente da Bil’àm, un accanito nemico degli ebrei che odiava il popolo di Israele nel profondo del cuore, bensì da D-o. Quale fu quindi la funzione di Bil’àm nell’enunciazione di queste benedizioni profetiche? L’episodio dell’asina, riportato all’inizio della Parashà, può servirci da parabola. È scritto che l’asina “parlò” a Bil’àm (Bemidbàr 22, 28), ma possiamo facilmente supporre che quelle parole non vennero dal suo cuore o dalla sua mente; essa fu solo “un contenitore” per comunicare ciò che Bil’àm doveva sentire. L’asina costituiva il mezzo per trasmettere delle parole all’esterno. Allo stesso modo, Bil’àm non era altro che un contenitore per le parole di D-o, come è scritto: “E D-o mise parola nella bocca di Bil’àm” (Bemidbàr 23, 5).
Grazie a questa lettura, ci è anche più chiaro il paragone che viene fatto nella letteratura rabbinica tra Bil’àm e Moshè, sia nel Talmùd che sottolinea l’appartenenza del testo della profezia di Bil’àm a Moshè sia nel Midràsh che identifica Bil’àm come l’unico profeta come Moshè che sia esistito. Sappiamo che Moshè, come il Rambam (Maimonide) tiene a precisare più volte, possedeva un livello di profezia più elevato rispetto agli altri profeti. Mentre gli altri dovevano interpretare le visioni e i messaggi che ricevevano da D-o in maniera spesso confusa e velata, chi più chi meno a seconda dei diversi profeti, Moshè era l’unico che riceveva la profezia così come usciva da D-o. Anche Bil’àm, dal momento che non rielaborò le benedizioni profetiche, bensì esse furono messe nella sua bocca direttamente da D-o, ebbe il privilegio di pronunciare una profezia dello stello livello di Moshè.
Possiamo quindi concludere che Bil’àm era un malvagio e che non arrivò veramente al livello di un profeta. Le parole che pronunciò, invece, essendo parole di D-o, uscite direttamente da lui come nel caso dell’asina, erano vere e sante. Ed è a queste parole, e non a Bil’àm, che i Maestri attribuiscono un’importanza particolare.