La prima Parashah della Torah che abbiamo letto poc’anzi ci insegna che la Trasgressione dei Primi Uomini, il cosiddetto peccato originale, sarebbe consistito nell’aver mangiato dall’Albero della Conoscenza del Bene e del Male. Ciò suscita un interrogativo: che male ci sarebbe stato? Noi che per secoli siamo stati chiamati il Popolo del Libro veniamo istruiti fin dalla prima pagina che acquisire conoscenza è un peccato? Come è possibile? In secondo luogo: che significato ha la parola ‘Eden che ritorna più volte a indicare il Giardino da cui i primi Uomini furono cacciati per punizione?
Un commentatore dà una risposta affascinante e importante. Non della conoscenza in generale si sarebbe trattato, ma della pretesa di sapere tutto… del prossimo, nel bene e nel male. Insomma non la sapienza viene bollata, bensì la saccenteria, che ci porta a credere di aver capito tutto degli altri e di volerli giudicare. Comprendiamo a questo punto anche il senso della parola ‘Eden, da collegarsi con il termine ebraico ‘adayin che significa “ancora”. Ancora ho qualcosa da imparare. Non ho ancora capito tutto della vita, al punto che mi arrogo il diritto di sapere tutto di ciò che fa il prossimo chiunque sia. Per questo i primi Uomini meritarono l’espulsione dal Giardino. Non avevano capito il messaggio che esso voleva loro trasmettere.
L’insegnamento che ne viene è quello dell’umiltà. All’inizio del secondo racconto della Creazione è scritto: “Questa è la genesi del cielo e della terra allorché furono creati”. La parola “allorché furono creati” è be-hibbaream, anagramma di Avraham. A conferma di questo riferimento la he è scritta più piccola delle lettere circostanti, proprio come nel nome Avraham la he è stata aggiunta all’originale Avram in una fase posteriore. Il versetto ci dice che il mondo è stato creato nel nome di Avraham. In virtù di che cosa? In virtù della sua umiltà. Quando D. rivelò al Patriarca la Sua decisione di distruggere le città di Sodoma e Gomorra per la loro malvagità Avraham, come è noto, si oppose e cercò in ogni modo di salvarle. Che diritto abbiamo, argomentò, di giudicarle? “Io non sono altro che polvere e cenere”. Non ho ancora acquisito la conoscenza del bene e del male necessaria per comprendere fino in fondo il comportamento altrui, al punto di avallarne la condanna definitiva.
“Non giudicare il prossimo -ammoniscono i Pirqè Avot- finché tu non sia giunto al suo posto”. In genere si interpreta la seconda parte della massima come “finché tu non ti sia trovato nella sua posizione”. Un commentatore va oltre e traduce: “finché tu non abbia visto dove abita”. Prima di formulare qualsiasi giudizio sul prossimo, recati al suo indirizzo: renditi conto di quale sia il suo mondo, l’ambiente in cui vive e che potrebbe averlo influenzato. Potrebbe sempre sfuggirci qualche dettaglio importante. E soprattutto impariamo ad approfondire la conoscenza di noi stessi per prima cosa. Forse anche noi abbiamo ancora qualcosa da imparare!