È noto che il libro di Bemidbar (nel deserto) nella versione greca dei LXX è chiamato ‘Αριϑμοί (Numeri), focalizzando l’attenzione sul censimento che apre il libro e verrà replicato al termine di esso, nella parashah di Pinechas, dopo i quaranta anni nel deserto. Il modo in cui l’ordine di eseguire il censimento viene impartito è tuttavia strano (Bemibar 1,2): “Contate le persone di tutta la comunità dei figli d’Israele secondo le famiglie e le case paterne enumerandole per nome, ogni maschio individualmente”. Nel verso vengono infatti accostati due concetti che appaiono distanti fra di loro, il numero (mispar) ed il nome (shem).
Il nome rappresenta l’identità, conferisce senso all’esistenza di un individuo, manifestando le aspettative di chi lo conferisce, affidando una missione specifica a chi lo porta. Il numero è invece l’unione di unità indistinte. Quando affermiamo che la tribù di Reuven aveva 46.500 membri non riceviamo alcuna informazione sulla loro natura. L’unione di nomi e numeri compare nuovamente nel libro di Yeshaiahu (40,26), citato da Rashì all’inizio del libro di Shemot, nel brano che si legge come haftarah di Lekh Lekhà: “Levate in alto i vostri occhi, e guardate: chi ha creato tutto questo, chi fa uscire una per una, numerandole, le schiere celesti, chiamando ciascuna con il suo nome, sicché nessuna ne manchi, tanto grande è la Sua potenza, tanto gagliardo Egli è per la sua forza?” Cosa aggiunge il numero rispetto ai singoli nomi? E’ lo stesso verso a rispondere: in questo modo si è certi che non manchi nessuno. Quando una classe va in gita, non è sufficiente conoscere gli studenti uno per uno, ma serve conoscere la quantità complessiva degli studenti. D’altra parte, per instaurare un rapporto vitale con lo studente, è indispensabile conoscerne il nome. Il nome rappresenta chi c’è, il numero chi non c’è. La ghemarà nel trattato di Bavà qamà (83a) impara dal verso (Bemidbar 10,36): “E allorquando (l’Arca) si posava diceva: Torna, o Signore, con le miriadi delle tribù di Israele” che la Presenza divina si posa su non meno di 22.000 persone. 21.959 non sarebbero sufficienti e la Presenza divina si scosterebbe immediatamente. Il numero sommerge le varie individualità, il gruppo viene considerato come un unico corpo. Se manca qualcuno, il gruppo lascia il posto ad una serie di individualità.
Questi concetti tornano quando la Torah si riferisce ai capitribù di Israele, che vengono definiti in questo modo (Bemidbar 1,16): “Questi sono i chiamati della comunità, i preposti alle loro tribù paterne, i capi delle famiglie (migliaia) di Israele”. I nesiim rappresentano contemporaneamente migliaia di soldati anonimi, i vari casati, e la collettività (‘edah). Il censimento si muove lungo tre coordinate. Una collettività, l’emergere dei particolare attraverso i nomi (le famiglie ed i casati), il numero.
Come ricordavamo alcune settimane fa, il giudizio di H. a Rosh ha-shanah segue una logica simile: vi è un giudizio individuale, ma al contempo uno di natura collettiva. Se questo è vero relativamente ad eventuali addebiti, lo è anche per i propri doveri, che non concernono la sola sfera individuale, ma anche il rapporto con la collettività. Una edah per essere degna di questo nome deve avere certe caratteristiche quantitative e qualitative. Non è sempre facile però trovare il giusto equilibrio fra le varie componenti. Per garantirlo è indispensabile il ruolo dei Leviim, la “tredicesima tribù”, che si trova sparsa fra tutte le altre, ponendosi al loro servizio, e fungendo da collante fra di loro, per evitare che si possa perdere qualche pezzo per strada, eventualità che la Torah vuole scongiurare fortemente.