Quando il popolo d’Israele entrò nella terra di Canaan, dopo sette anni di conquista Yehoshu’a impiegò altri sette anni per dividere il territorio tra le tribù e in ogni tribù alle rispettive famiglie. Ne risultò un popolo di liberi possidenti agrari, ognuno con il suo podere. Non vi erano poveri perché tutti avevano una loro proprietà. Con tutto ciò le circostanze della vita fanno sì che vi siano situazioni nelle quali anche i proprietari si impoveriscano. In questa parashà vi sono tre situazioni per le quali la Torà dà istruzioni su cosa fare quando un altro israelita diventa povero. In una di queste è scritto: “Quando un tuo fratello diventa povero (yamùkh) e perde la capacità di mantenere se stesso nella comunità, devi sostenerlo. Aiutalo a sopravvivere, sia egli un proselita o un residente” (Vaykrà, 25:35). Nella Torà viene anche intimato che se gli devi dare un prestito è proibito prendere interesse.
Nel Midràsh (Vaykrà Rabbà) i maestri affermano che vi sono ben otto espressioni che denotano povertà. La prima e la più comune è ‘anì (povero). Questa parola appare per la prima volta nel libro di Devarìm (24:12): “E se quell’uomo è povero”.
Un altro termine è evyòn, come in Devarìm (15:4): “Tuttavia non vi sarà un povero presso di voi”. Rashì spiega che evyòn è più povero di ‘anì, perché non ha proprio nulla.
Una terza espressione è miskèn, da cui deriva l’italiano meschino, come in Devarìm (8:9): “Una terra nella quale non mangerai pane in povertà (miskenùt)”. Nel Midràsh è spiegato che miskèn significa disprezzato da tutti. Cosi appare nell’Ecclesiaste (Kohèlet, 9:16): “La sapienza del meschino è disprezzata”.
La parola rash appare nei Proverbi (Mishlè, 19:22) dove è scritto “Meglio povero che bugiardo”. Nel Midràsh è scritto che significa “povero senza proprietà”.
In Vaykrà (14:21) appare la parola dal: “E se è povero e non ha mezzi adeguati”. Anche in questo caso significa senza proprietà.
Il termine dakh appare nei salmi (Tehillìm, 10:9): “L’Eterno sarà una protezione per il misero”. Nel Midràsh è spiegato che significa che si tratta di una persona povera e anche depressa.
La parola makh appare alla fine di questa parashà (25:47): “E tuo fratello diventa povero presso di lui”. La radice è la stessa della parola yamùkh citata all’inizio di questa pagina. Il Midràsh spiega che makh significa “basso” come una soglia che viene calpestata da tutti.
L’ottava e ultima espressione citata nel Midràsh è chelkhà e appare tre volte nei salmi. Una di queste in Tehillìm(10:14): “A te si abbandona il povero”.
Rashì (Troyes, 1040-1105) citando il Midràsh Sifrà, spiega che è doveroso sostenere il prossimo quando è in difficoltà senza aspettare che vada in bancarotta. E aggiunge che la cosa assomiglia a un asino il cui carico è pericolante. Per rimetterlo in equilibrio basta una persona. Se si lascia che cada ci vogliono più di cinque persone per rimetterlo in soma.
Questo insegnamento ha guidato il nostro popolo per tutta la sua lunga storia. Quando Tito distrusse Gerusalemme e vendette i prigionieri come schiavi, furono gli ebrei di Roma a riscattarli. Così pure gli esuli dalla Spagna nel 1492 furono aiutati dai loro fratelli in Italia, in Marocco e in Turchia. Ottanta anni fa l’American Joint distribuì grande somme per aiutare gli ebrei in Europa (nella foto: dirigenti del Joint e rifugiati a Selvino). E in tempi più recenti vennero dati aiuti quando Nasser cacciò gli ebrei dall’Egitto nel 1956 e Ghaddafi dalla Libia. Ognuna delle parole che denotano povertà corrisponde a un diverso tipo di bisogno. La Torà ci vuole insegnare che dobbiamo essere sempre pronti ad aiutare i nostri fratelli in ogni situazione.