La sfida di Formiggini
Stefano Paolo
Editore ebreo di libri umoristici si uccise nel ‘ 38 per contestare le leggi razziali «I posteri non si occuperanno di me». Il presentimento di Angelo Fortunato Formiggini si è avverato. I posteri lo hanno quasi ignorato. Eppure è una di quelle figure su cui gli storici della cultura avrebbero molte ragioni per riflettere. «Un punto luminoso del Novecento», lo definisce Antonio Castronuovo in una biografia da poco uscita (Libri da ridere, Stampa Alternativa, pp. 156, euro 7) dedicata al «privato editore dilettante» e al filosofo della risata. Una biografia sui generis per un personaggio sui generis, un omaggio leggero a un uomo che aveva sposato la leggerezza e che il 29 novembre 1938, all’ indomani della promulgazione delle leggi razziali, scelse di gettarsi dalla Ghirlandina, la torre campanaria di Modena.
Fu un «volo di protesta» programmato da tempo, se è vero che nel giugno dello stesso anno Formiggini (con l’ accento sulla prima i) aveva già stilato la sua tragicomica autosentenza: «Formaggino da Modena editore in Roma sopportò sorridendo XVI anni di dominazione fascista che lo aveva raso al suolo. Ma quando ignobili penne, per atavico odio plebeo, o per turpe mercede, o per puro contagio tedesco, iniziarono una campagna razzista, sdegnato si condannò a morte per alto tradimento…». Ebreo vicino al regime, ammiratore dell’ ordine fascista e amico del Duce ma nemico di Gentile, Formiggini non sopportò la delusione di quel «contagio» che qualcuno battezzò come «hitlerizia»: «Crepare – scrisse – è il solo diritto che sia rispettato: sarebbe peccato non ne approfittare». Dunque, il 28 novembre prende un treno da Roma con un biglietto di sola andata per Modena e il 29, dopo essersi congedato dalla moglie e dagli amici, si dirige verso il Duomo, distrae il custode della Ghirlandina, raggiunge di corsa l’ ultimo piano e si lascia cadere urlando tre volte: «Italia!». L’ ordine del regime ai giornali fu quello di ignorare gli eventuali necrologi a pagamento. Formiggini era nato a Collegara nel 1878. Dopo essere stato espulso per una burla innocente (che segnò il suo esordio letterario) dal liceo Galvani di Bologna, si laureò in Giurisprudenza e poi in Lettere con una tesi sulla filosofia del ridere, convinto che l’ umorismo fosse «la massima manifestazione del pensiero filosofico». Fondò cenacoli artistici e fogli goliardici, si divertì a ideare innumerevoli «pesci d’ aprile» ai danni di amici e sconosciuti, ma una mattina del 1908 si svegliò cambiato.
Si svegliò editore. Lo sarà per trent’ anni: editore di una casa «piccina, piccina, picciò» che dal 1916 mise radici a Roma. In trent’ anni, con alterne fortune, sfornò molte riviste e circa seicento titoli distribuiti in varie collane, dai Classici del ridere ai Profili. Formiggini pensava di poter ampliare il pubblico dei libri, in un Paese che già allora leggeva poco, offrendo «un pane spirituale veramente indispensabile…». Pia illusione che si scontrò ben presto con le esigenze dei bilanci aziendali. Cercò persino di distribuire i suoi Classici del ridere alle truppe italiane in guerra, esortandole: «Siate certi che vincerà il popolo più gaio». Illusione anche questa. Ma i Classici, una collezione di capolavori del comico da Apuleio a Sterne, almeno fuori dalle trincee funzionarono. Lo scopo era quello di «disarmare l’ osceno» evitando la pornografia, come auspicò Croce, ma non necessariamente la «porcografia»: cioè facendo tesoro di quella aurea tradizione italiana che costeggiava la scurrilità senza precipitarvi. Non deve stupire che i parrucconi della censura rizzassero le antenne di fronte a testi come la Ninetta di Porta. Funzionò, eccome, un’ altra, tra le tante gloriose iniziative di Formiggini: la Casa del Ridere, «il pantheon di tutte le ilarità», una biblioteca dell’ umorismo. Non funzionò la collana delle Apologie, che prevedeva un confronto tra le fedi: terreno minato per il perbenismo religioso. Funzionò il Censimento dell’ Italia che legge, un indirizzario dei 60 mila lettori ad uso degli addetti dell’ editoria. Funzionò, più di tutto, la rivista L’ Italia che scrive (Ics o semplicemente X), pensata nel 1918 per procurare al pubblico informazioni sulla produzione editoriale. Un successo. Nel ‘ 21 Formiggini fonda un Istituto pomposamente chiamato «per la propaganda della cultura italiana». Piace a Gentile, che propone di ribattezzarlo «Fondazione Leonardo per la cultura italiana». Sarà l’ inizio della fine. Gentile prende mano e in un paio d’ anni riesce a scippare al titolare la sua creatura, facendola confluire nell’ Istituto fascista di cultura. Era la prepotenza del regime, scrive Castronuovo, che alla luce di questo episodio ricorda: «Il tentativo di separare le sue (di Gentile) responsabilità da quelle del fascismo suona oggi un po’ ingenuo». Fatto sta che Angelo Fortunato, oltre a non essere fortunato, non è neanche un angelo e non manda giù lo scippo. Così nel ‘ 23 pubblica un libro «edificante e sollazzevole» scritto di suo pugno: La ficozza filosofica del fascismo e la marcia sulla Leonardo, invettiva in forma autobiografica, canzonatoria e satirica, contro il filosofo di Castelvetrano e il suo tentativo di «castelvetranizzare» l’ Italia intera, imponendole la sua filosofia «settaria».
Formiggini era divenuto un nemico giurato di Gentile, definito appunto «ficozza» (romanesco per «bernoccolo») piantata in testa al fascismo. Alla fine chi davvero diventa «ficozza» è lo stesso Formiggini. Intanto la sua fede fascista va sfumando: «Il fascismo è una gran bella cosa visto dall’ alto; ma visto standoci sotto fa un effetto tutto diverso». Nel ‘ 38 definirà il razzismo «Caporetto del fascismo», il Duce un «ribaldo» dal «bieco destino» segnato nel nome: «Soltanto nel dì che nandrai sarai veramente Ben…ito». Ma Formiggini sapeva bene che la leggerezza del suo spirito non poteva opporsi alla legge di gravità.
Corriere della Sera 5 febbraio, 2005