“וזכרתי את בריתי יעקוב ואף את בריתי יצחק ואף את בריתי אברהם אזכר והארץ אזכר – E ricorderò il mio patto con Ya’aqov, e anche il mio patto con Itzchaq e anche il mio patto con Avraham ricorderò e la terra ricorderò” (Wayqrà 26,42).
La domanda che pressoché tutti i commentatori di questo versetto si sono posti è: perché i Patriarchi sono nominati all’indietro? Rashì risponde nel modo seguente: “Se il mio patto con Ya’aqov che è il più piccolo non è sufficiente, ecco che Itzchaq è con lui e se neppure questo patto è sufficiente ecco che anche Avraham, il più grande, è con lui”. Il Kelì Yeqar mette in relazione il nostro versetto con il concetto di zekhut avòt, il Merito dei Padri che assiste i discendenti qualora questi da soli non avessero meriti personali sufficienti. In ogni generazione noi Ebrei “erodiamo” e consumiamo il Merito dei Padri.
Si presume che più indietro si va nelle generazioni dei Padri, più il Merito dei Padri stesso è eroso da un numero proporzionalmente superiore di generazioni di Figli che se ne sono serviti nel frattempo. Il versetto ci dice invece che benché le generazioni più antiche sono già state apparentemente consumate, ciononostante il loro merito rimane intatto per tutte le generazioni a venire.
Vorrei aggiungere due ulteriori possibili interpretazioni di questo versetto. Esso mi fa venire in mente il lavoro della correzione delle bozze di un testo. La prassi delle case editrici è di restituire all’autore l’impaginato da rivedere alla ricerca di eventuali refusi ed errori di stampa. Chi è minimamente esperto di questo tipo di lavoro sa quanto esso sia difficile per colui che avendo scritto il testo ne ha ricordo. Semplicemente l’autore rischia di seguire nella rilettura il filo della propria memoria e di non vedere eventuali errori nella bozza. Una volta mi venne dato in proposito un consiglio interessante: rileggere la pagina a ritroso!
E’ ciò che il S.B. apparentemente fa qui. Anch’Egli ha un problema di memoria. Ma ovviamente nel suo caso non si tratta di incapacità. E’ invece un problema halakhico. Sappiamo che anche H. per primo mette in pratica la Torah. Un passo del Talmud (Berakhot 6a) ci insegna che come l’Ebreo indossa i Tefillin ogni mattina, così fa anche il S.B. Esiste nella Torah il divieto di accumulare insieme l’osservanza di determinate Mitzwot differenti come se fossero state “impacchettate” assieme per non dare l’impressione di volercene liberare al più presto: ognuna ha diritto alla sua propria attenzione (lo ta’assù mitzwòt chavilot chavilot; è questa una delle interpretazioni dell’espressione lo titgodedù: Devarim 14,1). E come noi Ebrei osserviamo questo divieto, anche il S.B. ha il divieto la-‘assot chasdè avot chavilot chavilot. Egli è zokher chasdè avot: “ricorda i meriti dei Patriarchi”. Nel fare ciò deve stare attento a non mettere insieme un Patriarca con l’altro, cosa che avverrebbe molto probabilmente se ripercorresse il filo degli avvenimenti nella loro successione temporale. Per evitare questo effetto deve rileggere la storia a ritroso.
Ma c’è un’altra suggestione che deriva a mio avviso dal versetto, assai più semplice e profonda al tempo stesso. Esso ci insegna che il mondo del S.B. si colloca in una prospettiva che può presentarsi capovolta rispetto al mondo degli esseri umani. Il brano della Torah in cui il versetto è contestualizzato parla della galut, l’esilio, la nostra grande sofferenza nazionale. L’uomo che soffre e vuole uscire dal proprio dolore deve anzitutto saper capovolgere la sua prospettiva “dall’angustia alla gioia, dalle tenebre alla luce, dal lutto a un giorno di festa”. Nella lingua italiana vi sono come è noto due modi per rivolgerci all’altro. Si può adoperare la seconda persona (“dare del tu”) oppure la terza (“dare del lei”) a seconda del livello di confidenza che abbiamo con il nostro interlocutore. A uno sconosciuto diamo per principio del lei. Diamo del tu solo ai bambini, ai famigliari e agli amici. In quest’ultimo caso si passa dal “lei” al “tu” solo dopo che si sia conseguito un certo livello di conoscenza reciproca.
Con il S.B. è tutto l’inverso. Prendiamo per esempio i Dieci Comandamenti. I primi due comandamenti sono redatti sulla base del “tu”. H. ci parla direttamente rivolgendosi a noi in seconda persona: “Io sono H. tuo D.”, “Non avrai altri dei all’infuori di me”. A partire dal terzo, invece, si parla di H. in terza persona: “Non pronunciare il Nome di H. invano”. (Dimentichiamo qui per un attimo il Midrash. Anche il già citato Kelì Yeqar ha un approccio letterale sul passaggio dal “tu” al “lei”, ma dà una spiegazione diversa. “Vogliamo vedere il nostro Re”, avrebbe reclamato il popolo. “E’ uso del mondo che solo dopo che abbiamo visto il re in viso e lo conosciamo personalmente, solo a partire da quel momento ne riconosciamo l’autorità, e dopo che lo abbiamo accettato come re su di noi ne accettiamo le leggi e i decreti: sia quelli che ci comanderà per interposta persona, sia quelli che ci prescriverà egli stesso”). Un altro esempio è costituito dalla formula con cui sono strutturate le Berakhot. Anche in questo caso si comincia “dando del tu” a H. (“Benedetto sii Tu H….”) per poi passare in un secondo momento al “lei” (“che ci ha santificato… e ci ha comandato…”).
Nel versetto שלום שלום לרחוק ולקרוב אמר ה’ ורפאתיו – “Pace, pace al lontano e al vicino – dice H. – e lo guarisco” (Yesh. 57,19) si afferma nuovamente la precedenza per ciò che è lontano rispetto a ciò che è vicino, secondo una logica che sfugge all’uomo, il quale dal canto suo è portato a fare l’inverso: salutare prima il più vicino, poi il più lontano. Il versetto parla non a caso di guarigione, proprio come il seguente.
וזרחה לכם יראי שמי שמש צדקה ומרפא בכנפיה – “E splenderà per voi che temete il Mio Nome un sole di giustizia con la guarigione ai suoi lembi” (Mal. 3,20). O come quest’altro: כי שמש ומגן ה’ אלקים – “Poiché H. D. è sole e difensore” (Tehillim 84,12). Il S.B. guarisce e ristabilisce l’uomo dalla sua disgrazia “usando cose inverse rispetto al suo malanno” (R. Eli’ezer Papo, Pele Yo’ètz, s.v. Refuah), proprio come il sole. E’ infatti noto che d’estate i raggi del sole sono percepiti come più forti non perché siano più vicini alla terra, ma proprio perché sono più distanti, al contrario di quanto avviene d’inverno.
Insomma, si tratta di un paradosso. Il S.B. ci insegna che per Lui la vicinanza può essere lontananza e viceversa la lontananza essere vicinanza. Di Avraham nostro padre mentre si recava alla ‘Aqedah è detto che
“וירא את המקום מרחוק – nel terzo giorno vide il Luogo (ha-Maqom, da intendersi come Nome di H.) da lontano”. (Bereshit 22,4). E’ l’esatto contrario dell’uomo. Solo rovesciando la prospettiva colui che soffre e pensa che H. gli sia lontano può uscire dalla sua sofferenza dicendo: “la lontananza di H. è in realtà vicinanza”. A fronte della difficoltà esiste la critica (in ebraico “בקרת – biqqoret) ed esiste l’analisi (in ebraico “חקירה – chaqirah”). Sono termini quasi sinonimi. Eppure la biqqoret contiene un aspetto negativo che la chaqirah non ha (dice R. Yehudah ha-Levy in uno dei suoi Piyutim: “חקור פעליו רק אליו אל תשלח ידך – analizza i Suoi atti –di H.– ma senza rivolgere la tua mano contro di Lui”). Ebbene le lettere della radice di biqqoret sono la stesse di qaròv (“קרוב – vicino”), mentre le lettere della radice di chaqirah sono le stesse di rachòq (“ רחוק– lontano”)!
Un ultimo appunto. Perché il versetto si chiude con un riferimento a Eretz Israel? Cosa c’entra? R. Bachyè riporta il Midrash Wayqrà Rabbà 36,4: Si può paragonare la cosa a un re che aveva tre figlie affidate a una tata. Ogni volta che chiedeva notizie delle sue tre figlie aggiungeva: “Salutatemi anche la tata”. Eretz Israel è per così dire la tata del popolo ebraico. Grazie a tutti coloro che עוסקים בה באמונה si prendono cura fedele di essa.