P. Balaq 5777 – Porta Nuova
Esiste in ebraico un monosillabo con due diverse opzioni di scrittura e due significati opposti: lo. Se lo scriviamo lamed-alef ha il significato di: “no”. Se invece lo scriviamo lamed-waw ha il senso di: “a lui”, cioè “suo”. C’è un versetto nei Mishlè che accosta entrambe le versioni:
מחזיק באזני כלב עבר מתעבר על ריב לא לו . Il versetto può essere tradotto così: “Tira il cane per le orecchie il passante che si immischia in una lite non sua” (26,17). Non solo non ne trarrà alcun beneficio, ma anzi verrà morsicato a sua volta. Il Midrash Yalqut Shim’onì identifica il personaggio in questione con Balaq figlio di Tzippor re di Moav, il cui nome dà il titolo alla Parashah odierna. Impaurito dai successi militari dei Figli d’Israele vincitori su alcuni re vicini, Balaq non si perita di farli maledire, dopo aver imbastito una sorta di alleanza con i suoi stessi nemici. Peccato che Israele aveva già ricevuto l’ordine divino di non aggredire Moav. Si sa: quando si tratta di attaccare Israele tutti si mettono miracolosamente d’accordo per dire la propria anche su questioni che non li coinvolgono affatto.
Nello stesso capitolo di Mishlè poco prima c’è un altro versetto che viene interpretato al caso nostro. Ma la cosa qui si fa più interessante, perché di questo versetto, come capita altre volte nel Tanakh, si danno due versioni differenti, per certi versi antitetiche a loro volta. Nella prima è scritto lo con la alef: כצפור לנוד כדרור לעוף כן קללת חנם לא תבא . “Come un uccellino (tzippor) che se ne va, come una rondine che vola via, così la maledizione senza motivo non si verifica” (v. 2); nella seconda è scritto invece con la waw: לו תבא “Come un uccello che se ne va, come una rondine che vola via, così la maledizione senza motivo ritorna a lui”, vale a dire: a chi l’ha formulata. Proprio come gli uccellini che prima o poi fanno ritorno dove hanno nidificato. I commentatori osservano che le due letture sono complementari. La prima si riferisce all’oggetto della maledizione e afferma che non viene colpito; la seconda si riferisce al soggetto maledicente e afferma che la maledizione da lui pronunciata finisce per ritorcersi contro di lui. Nel caso di Balaq è documentata solo la prima parte: H. ha trasformato la maledizione nei nostri confronti in benedizione (cfr. Ba’al ha-Turim a Bemidbar 22,2).
Per perseguire i suoi scopi Balaq si è servito di un mago di professione, Bil’am. Per convincerlo della pericolosità del popolo ebraico gli dice:
עתה ילחכו הקהל את כל סביבתינו כלחך השור את ירק השדה
“ora questa Comunità ci divorerà tutto intorno come il bue divora l’erba del campo” (Bemidbar 22,4).
E’ una delle pochissime volte nella Torah che troviamo Israele chiamato non “popolo”, bensì qahal, “Comunità”. E’ stata questa una delle pochissime volte in cui Israele si presentava unito. Bil’am non si perita a sua volta di sfidare il D. d’Israele: “io vado lo stesso anche se Tu dici che la mia missione è impossibile e vediamo chi prevarrà”. Ma è l’unità della Comunità d’Israele il vero baluardo che consente alle maledizioni di trasformarsi in benedizioni. I destini più avversi si possono affrontare solo se si è tutti uniti. Non ci sono altre ricette.
In corso d’opera il mago prezzolato capisce che non ce la fa.
וישא בלעם את עיניו וירא את ישראל שכן לשבטיו ותהי עליו רוח אלקים
“Bil’am levò i suoi occhi e vide Israele accampato, tribù per tribù: allora fu su di lui lo spirito di D.” (24,2).
Rashì commenta che le tende del popolo d’Israele erano collocate in maniera che fosse rispettata la privacy di ciascuna unità famigliare: dall’interno di una non si poteva vedere l’interno dell’altra. Per una sorta di contrappasso, ciò le avrebbe risparmiate anche dallo sguardo malevolo di Bil’am, che rimase soggiogato alla volontà divina. La Comunità non è una comune e l’unità del qahal non implica affatto che all’interno di questo tutto debba essere condiviso per forza. Occorre sapere che cosa è giusto mettere a disposizione degli altri e cosa no. Da questi versetti i Maestri del Talmud derivano il concetto halakhico di hezzèq reiyah (“danno dovuto alla vista”, o “alla visibilità”) e stabiliscono che il vicino è obbligato a condividere le spese per la costruzione di un muro fra due cortili a tutela della privacy (Bavà Batrà 60a). All’inverso ho il diritto di impedire al vicino di costruire una finestra se questa gli consente di vedere dentro la mia proprietà, persino se viene collocata tanto in alto da richiedere una scala per giungere ad affacciarsi. Non dobbiamo immischiarci negli affari che non ci riguardano.
Ma c’è a mio avviso un secondo significato di questo Rashì al di là di quello giuridico-halakhico. Avere le porte di casa disposte una non di fronte all’altra in modo da evitare che uno guardi ciò che fa l’altro significa rifiutarsi di seguire le mode e le correnti. La forza del nostro popolo consiste proprio nell’essere “non allineati”. Il cane talvolta precede il padrone, ma quando si rende conto di essere andato troppo in là si volta per vedere se il padrone continua a seguirlo. E questi talvolta lo deve riacciuffare per le orecchie. Noi non ci voltiamo indietro al seguito della massa e difficilmente ci lasciamo riacciuffare. Ragioniamo con la nostra testa, anche a costo, qualora ne ravvisassimo il bisogno, di aprire inaspettatamente una porta nuova. La differenza fra ciò che ci appartiene e ciò che non ci appartiene, fra ciò che ci riguarda e ciò che non ci riguarda è molto sottile: si tratta di due monosillabi pronunciati nello stesso modo. Uno significa “no”, l’altro significa: “suo”. Beato colui che riesce a distinguere in questo caso fra la alef e la waw.