Giornata per l’approfondimento e lo studio del dialogo tra cattolici ed ebrei – 17 gennaio 2005
Pontificia Università Lateranense – Roma – Intervento Rav Riccardo Di Segni
Buona sera a tutti e benvenuti a questo incontro promosso con tanta forza di volontà da Mons. Fisichella che ringraziamo per quanto sta facendo sul piano del dialogo. Ringrazio anche tutti voi che, con la vostra presenza numerosa, testimoniate che questi incontri, evidentemente, sono utili, lasciano un seme e che quindi è opportuno continuare per questa strada. L’argomento di cui parliamo questa sera è stato introdotto con la domanda chiave da Mons. Fisichella: si parla di un comando di amore e ci si chiede che senso ha comandare l’amore.
Vorrei schematizzare in sintesi di che cosa parlerò: prima di tutto di questi due comandi, dell’amore di Dio e dell’amore del prossimo, dove si collocano e quale è il loro senso, qual è il loro rapporto reciproco, ammesso che ci sia, e, infine, una breve considerazione sull’implicazione attuale di questi comandi nei rapporti ebraico-cristiani.
Il tema di questa serata è stato deciso da una commissione paritetica composta dal Rabbino Laras, Presidente dell’Assemblea dei Rabbini italiani, e dal rappresentante della Conferenza Episcopale Italiana per i rapporti con l’ebraismo, Mons. Paglia, vescovo di Terni. Hanno scelto come titolo questo doppio comando.
I due comandi, nel testo della Bibbia ebraica, si trovano non insieme, ma separatamente. Si trovano invece insieme nei Vangeli: Matteo 22, Marco 12, Luca 10. Vengono uniti da Gesù quando, interrogato su quali siano i principi fondamentali nella fede, dice che sono questi due. Ciò facendo sostiene delle cose che sono profondamente radicate nella cultura ebraica Ma dobbiamo vedere qual è il processo che ha portato ad unire questi due comandi insieme, se questo processo è legittimo e fino a che punto è condiviso dalla tradizione ebraica.
Per quanto riguarda il comando di amare il Signore tuo Dio, esso compare in Deuteronomio 6, 5 (poi ripetuto poi in 11,1) ed è il secondo verso di un brano che è diventato fondamentale nella vita religiosa e nella liturgia ebraica: “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno”. Questo brano in ebraico inizia con la parola Shemà, Ascolta, ed è così fondamentale che rappresenta la recitazione che noi compiamo ritualmente la mattina e la sera, tutti i giorni. Non è una preghiera, ma è una affermazione fondamentale di identità religiosa che sta proprio alla base, all’essenza della nostra esperienza. Quindi per noi è la base di tutto dal punto di vista religioso, è il fondamento col quale ci si identifica.
Non è così per l’altro verso che non fa parte della vita liturgica. Questo brano parla di amore e utilizza la parola ahavà con cui comunemente nella Bibbia è descritto il processo di amore, riferito a tante realtà differenti: per es. il padre Israele ama il figlio Giuseppe, il marito di Anna ama la moglie, Isacco ama la cacciagione che il figlio Esaù gli porta. Questa parola è usata anche per esprimere l’amore tra coniugi e il Cantico dei cantici ripetutamente la usa per indicare l’amore tra due giovani. Inoltre Dio ama il suo popolo, ama i patriarchi. E infine le persone amano Dio e osservano i suoi precetti. Quindi ahavà indica rapporti di amore molto differenti tra di loro. Su un altro piano che non è assolutamente scientifico, ma fa parte di una tradizione culturale che va onorata, va segnalato che la parola ahavà ha il valore numerico di 13: tredici sono gli attributi divini di Maimonide e tredici soprattutto è il valore numerico della parola echad, uno. Quindi “amore” e “uno” hanno lo stesso valore perché l’amore porta all’unità tra le due realtà che si amano.
Dopo queste premesse, vediamo l’altro brano in cui si dice: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. Questo brano è inserito in un contesto differente, quello del Levitico al capitolo 19, che è quello della santità, ed esordisce con la frase: “Siate santi perché santo è Dio” e mostra come il riferimento sia quello dell’imitazione di Dio. Segue una raffica di precetti di grandissima importanza morale, un precetto che prescrive di non vendicarsi e non serbare rancore, e infine, il nostro testo: amerai il prossimo tuo come te stesso.
C’è da sottolineare subito un aspetto fondamentale nell’espressione biblica. Quando si parla di amore di Dio, Dio è all’accusativo, ma quando si parla del prossimo non troviamo l’accusativo, troviamo invece il dativo. Quindi letteralmente la frase suona non “amerai il tuo prossimo”, ma “amerai al tuo prossimo” o “amerai per il tuo prossimo”. La costruzione quindi è diversa e chiede delle spiegazioni. La regola che riguarda l’amore di Dio ha un posto centrale, fondamentale nella struttura liturgica ebraica e di fede, l’altra regola non l’avrebbe, ma la acquista nella esegesi rabbinica ed è fondamentale da questo punto di vista una espressione di Rabbì ‘Aqivà, maestro che ha guidato storicamente il popolo ebraico nell’epoca successiva alla distruzione del primo Tempio, morto martire, torturato dai romani, nel 135 durante la repressione della rivolta di Bar Kokba. Rabbì Aqivà, a proposito della frase “amerai il tuo prossimo come te stesso”, dice che è una regola fondamentale nella Torà.
Dobbiamo sottolineare che Rabbì Aqivà è anche colui che interpreta in maniera drammatica e personale il primo verso su cui stiamo riflettendo, “amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua persona, con tutte le tue forze”. Questo verso viene tradizionalmente interpretato così: “con tutto il tuo cuore” con i tuoi sentimenti, con il tuo istinto; “con tutta la tua persona”, con sacrifici personali; “con il meglio di te” con le tue risorse, il tuo danaro. Dicono i commentatori che ci sono persone che tengono di più alla propria vita, alla propria persona, e altri che tengono di più alla loro proprietà e quindi il Signore va amato in entrambi i modi.
Rabbi Aqivà, nel momento in cui viene sottoposto al martirio e scorticato vivo dai torturatori romani, affronta questo martirio serenamente e stupisce i suoi allievi presenti alla scena, dicendo di avere finalmente capito che cosa significa amare il Signore “con tutta la persona”, anche se gli toglie la persona, anche a costo della vita.
La frase di Rabbì Aqivà sull’amore del prossimo come regola fondamentale della Torà è preceduta storicamente, nella tradizione, da un episodio in cui la ricerca del principio fondamentale è espressa al negativo e assume così sfumature differenti. E’ la storia famosa di quel pagano che voleva convertirsi all’ebraismo e pretendeva di farlo “mentre stava sospeso su un unico piede”. Questa è l’interpretazione tradizionale della frase, ma in realtà la traduzione corretta indica che il pagano pretendeva che gli si spiegasse l’ebraismo in un’unica regola. Il pagano si rivolse ai due maestri dell’epoca della generazione che precede Gesù, Shammai e Hillel. Shammai, a fronte alla richiesta, si considera provocato dal pagano e lo caccia via in malo modo. Hillel invece lo accetta e gli dice la frase famosa: “Ciò che è per te odioso non lo devi fare all’altro. Il resto è commento. Va’ e studia”. Abbiamo qui lo stesso principio dell’amore espresso in forma negativa e che sia strettamente correlato è dimostrato dal fatto che un Targum, una delle traduzioni aramaiche antiche, traduce Lv 19,18; “Ciò che tu odi non farlo all’altro”.
È importante la riflessione sul dativo che troviamo nel verso del Levitino, “amare per il prossimo tuo”. In che modo si ama per il prossimo? Dando al prossimo quello che tu vorresti per te, oppure evitando di dare al prossimo ciò che tu non vuoi per te. Quindi abbiamo una definizione positiva e una negativa.
Esiste una relazione tra i due comandi di amore? Esiste la possibilità di stabilire una relazione come vediamo realizzata nel loghion famoso di Gesù? Su questo argomento abbiamo nella tradizione ebraica una serie di ragioni che ci portano a sostenere la legittimità di questa relazione e la sua effettiva realizzazione.
Una prima possibilità è quella linguistica. Essa sta nel fatto che “e amerai”, che in ebraico suona “weahavtà”, in tutta la Bibbia ebraica compare solo tre volte in questa forma verbale particolare. Queste tre volte si trovano in Lv 19,18, in Lv 19,38 dove l’amore non è per il prossimo, ma è per lo straniero, con l’abbattimento delle barriere nazionali, e nel Dt 6,5. Abbiamo quindi uno stretto rapporto linguistico che, secondo la linea esegetica tradizionale, non è mai da considerare casuale, ma chiede di essere interpretato.
Una seconda via per stabilire la connessione tra i due comandi sta nel fatto che lo stesso verso di Lv 19 si chiude con “Io sono il Signore”: se c’è questa regola fondamentale, essa non discende semplicemente dal rapporto interumano, ma dal fatto che l’uomo è immerso in una creazione divina. Questo ci fa immergere in una atmosfera integrativa, suggerita da Ben Azai. Quando il Talmud discute quale sia il principio fondamentale o la grande regola della Torà, Rabbi Aqivà sostiene che la regola è quella di amare il prossimo come te stesso, ma Ben Azai, suo allievo e collega, dice che c’è un verso che vale di più: Gn 5, 1 dove è detto: “Questo è il libro delle generazioni dell’uomo… Dio creò l’uomo a sua immagine”. La spiegazione più corrente di quanto dice Ben Azai è che il rispetto, l’amore che si porta per il prossimo deve essere considerato un adempimento del fatto che l’uomo è immagine di Dio e che il reale collegamento, la reale motivazione dell’amore per il prossimo è nel fatto che siamo tutti a immagine di Dio. Quindi, amare il prossimo è un modo di amare Dio.
I rabbini hanno espresso questo principio con un insegnamento importante che risponde in qualche modo alla domanda “Com’è possibile amare Dio?”. La risposta che danno alcuni maestri è questa: fare in modo che Dio o, letteralmente, il Nome del Cielo, sia amato per mezzo tuo. In che modo?
Dice i Talmud (Yoma 86°) < La persona deve dedicare la sua esistenza allo studio della tradizione scritta e di quella orale, porsi al servizio dei maestri e lavorare e commerciare in onestà e stare in rapporto pacifico con le altre creature. Se una persona si comporta così, cosa si dice di lui? Beato suo padre che gli ha insegnato la Torà, beato il maestro che gli ha insegnato la Torà. Guai alle creature che non hanno studiato la Torà! Guardate questa persona che ha studiato quanto si comporta bene! Quanto sono giuste e corrette le sue azioni! E per lui Is 49, 3 dice: “Ecco, io dico, tu sei mio servo Israele, un servo di cui io mi compiaccio (o mi vanto)”.
Invece chi ha studiato e si è posto al servizio dei maestri, ma non tratta i suoi affari in modo affidabile e non parla tranquillamente con le creature… cosa si dice di lui? Guai a quel disgraziato che ha studiato la Torà, guai al padre che gliela ha insegnato in questo modo, guai al maestro che gliela ha insegnato in questo modo! Guardate quanto sono sbagliate e scorrette le azioni di questa persona e quanto sono brutte le sue strade! Per lui si dice: (Es. 36; 20) Ecco, questo è il popolo che è stato cacciato dalla sua terra”. >
Quindi, attraverso questo insegnamento vediamo che l’idea dell’amore di Dio non è un amore soltanto diretto, ma deve essere un amore che si realizza attraverso il rapporto con le creature. La persona che vuole veramente amare Dio deve far sì che attraverso il suo comportamento si veda in lui uno specchio di comportamento corretto e un modello di virtù che discende dall’insegnamento divino.
Il rapporto di amore non è uguale per tutti perché se noi abbiamo un rapporto di amore con una persona, con un partner, ha un certo senso, se l’abbiamo con in genitori il rapporto di amore comprende anche il rispetto e il timore. Con Dio c’è un rapporto complesso: non c’è soltanto l’amore, ma anche il timore. E come esiste un comandamento che dice di amare Dio, così esiste un comandamento di temere Dio.
Che senso ha allora il comandamento di amare Dio rispetto a quello del timore?
A questa domanda si risponde in vario modo, ma la risposta più diffusa è quella che troviamo, per es. negli scritti di Maimonide di cui abbiamo appena finito di celebrare gli 800 anni dalla morte. Secondo Maimonide, il livello del timore è il livello primordiale, mentre il livello dell’amore è il livello superiore. Il livello del timore è quello, diciamo così, infantile, in cui si insegna ad aver paura, ma questo è un livello basso di fedeltà a Dio. Il livello a cui bisogna tendere, a cui bisogna arrivare, è quello dell’amore di cui Abramo rappresenta l’esempio più efficace.
Maimonide non è un mistico, ma nell’ultimo capitolo delle Regole sul pentimento, esprime una forza considerevole: “Come si manifesta questo amore così profondo e così appropriato? Amando il Signore di un amore così intenso, travolgente e profondo che l’animo stesso ne sia pervaso e permeato, che l’animo stesso ne sia così avvinto da sembrare di essere come un uomo ammalato di amore, come pazzo d’amore, al punto di non riuscire più a liberare la sua mente dal pensiero fisso della donna amata e dal pensarla ad ogni istante, anche sedendosi e alzandosi, anche mangiando e bevendo. Ma ancor più di questo. Che l’amore per il Signore sia sempre così travolgentemente presente nel cuore di quanti lo amano, per riuscire ad amarlo davvero nella misura con la quale ci è stato comandato e cioè con tutto il cuore e con tutta l’anima. Ed è a questo amore così intenso e così travolgente che alludeva il re Salomone con il verso del Cantico del Cantici 2, 5: “Perché io sono malata d’amore”. Tutto il Cantico non è se non una figura allegorica di questo amore così immenso e così travolgente”.
Quindi, secondo Maimonide, l’amore per Dio è il livello superiore, che supera quello del timore. Per altri, sono necessarie entrambe le cose perché ci vuole amore per eseguire i precetti positivi, così come ci vuole il timore per rispettare quelli che ci proibiscono di fare qualche cosa. E qualcun altro dice che ci vuole l‘amore, perché nel momento in cui una persona dimentica i suoi doveri, le sue responsabilità, sa che chi ama non può dimenticare. E ci vuole il timore perché nel momento in cui uno sta per ribellarsi, sa che deve avere timore e chi è veramente temente non si ribella.
C’è un’altra prospettiva che lega le due dimensioni dell’amore di Dio e dell’ amore per le creature e per il prossimo, ed è quella della lettura completa dei due brani, Lv 19da una parte e dall’altra e Dt 6, insieme agli altri tre brani successivi che usiamo nella liturgia, (Dt. 11: 13-21, Nu. 15. 37; 41).
Entrambi i gruppi possono essere considerati come varianti dei Dieci Comandamenti. In Lv 19 troviamo: Io sono il tuo Dio… non rivolgetevi ad altri dei… non rubate… non state immobili di fronte alo spargimento del sangue… rispettate i genitori… rispettate il sabato… non giurate il falso…
Parallelamente la tradizione trova nel gruppo liturgico che inizia in Dt 6 riferimenti espliciti o allusivi ai dieci comandamenti e come essi sono fondamentali, così questi brani sono fondamentali. I Dieci Comandamenti, infatti, sono ordinati dal Signore e non derivano dalla logica umana e questo è l’elemento fondamentale che distingue l’esperienza religiosa dalla esperienza della solidarietà sociale della laicità. Nella nostra comune esperienza religiosa, se noi dobbiamo rispettare l’uomo non lo facciamo solo perché è utile, è comodo, ma perché essenzialmente, prima di tutto, l’uomo è fatto a immagine di Dio e questo è ciò che porta ad un comune rapporto di amore e di rispetto.
Vorrei in conclusione segnalare che il problema che ci porta qui, in qualche modo, sotto forma di studio, come è giusto che sia, è quello dei rapporti tra ebrei e cristiani.
Mancheremmo ad un dato di verità se ci dimenticassimo che questo verso, “Ascolta Israele, amerai il Signore tuo Dio”, dopo essere stato nella bocca di Rabbi Aqivà, martire dei romani, è stato nella bocca di tutti martiri della fede della storia ebraica. E questo verso che dovrebbe essere quello che ci unisce, è stato invece quello che più ci ha diviso nel corso della storia. Ed è anche notevole il fatto che, se si tenta di mettersi nella mentalità di coloro che ci osteggiavano e ci perseguitavano perché eravamo fedeli alla nostra tradizione originaria, c’era nelle loro intenzioni non soltanto la malvagità, ma nel loro modo di ragionare la volontà di fare del bene al prossimo ebreo;… cercavano di fargli capire che stavano sbagliando e che avrebbero solo guadagnato ad abbracciare una fede discussa.
In un certo senso era “amore per il prossimo” l’intento di chi faceva certe cose. Questo è un terribile paradosso. Non un paradosso logico, ma una tragedia storica: la buona intenzioni che diventano sofferenza e massacro.
Vorrei che questa riflessione di oggi, in tempi completamente differenti nonostante certe nubi all’orizzonte, ci porti a far vedere come questi versi e queste considerazioni pesino ancora nell’esperienza storica dei nostri rapporti e come dovremmo cercare di viverli meglio, cercando di capire che “non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te” è un comandamento fondamentale sul quale è veramente necessario riflettere ancora.