Parla il rabbino, nuovo direttore del Museo nazionale dell’Ebraismo e della Shoah di Ferrara
Susanna Nirenstein
Un rabbino, una guida spirituale, un insegnante della legge mosaica alla direzione di un istituzione culturale del Paese. Un fatto inedito. Il museo è quello nazionale dell’Ebraismo italiano e della Shoah, il Meis, aperto quattro anni fa a Ferrara con lo scopo di raccontare l’esperienza millenaria degli ebrei nella Penisola. È qui che Amedeo Spagnoletto, 52 anni, romano, si è appena insediato. Spagnoletto è un rabbino molto speciale, il più informale che si sia mai visto: rosso di capelli, si fa chiamare per nome, non è difficile incontrarlo con il berretto da baseball e sneakers in bicicletta. Rilassato ma dotto, eccome. Diplomato in Biblioteconomia alla Biblioteca Vaticana, è professore di Talmud ed esegesi biblica, di Paleografia ebraica, di Diritto ebraico, e soprattutto è un sofer, un copiatore dei sacri rotoli della Torah, possiede un’arte millenaria, un mestiere sacro, è uno scriba certificato della Bibbia che deve sapere più di 4000 regole contenute nel Talmud e nella Mishnà per affrontare il suo lavoro. Durante il quale, se compi un errore nel redigere il nome del Signore, tutto va a monte. Vogliamo saperne di più. Lo contattiamo via Skype.
Un rabbino a dirigere un museo nazionale. Come pensa di coniugare queste due identità, quella religiosa e quella laica?
“Per me è stata una sorpresa, temevo che essere un rabbino potesse essere un ostacolo alla mia candidatura. E invece non ci sono stati pregiudizi, il Paese ha capito che in una figura possono convivere l’adesione a una tradizione plurisecolare e una prospettiva più ampia. In realtà credo che il Meis sia il luogo più adatto per raccontare a una nazione a volte lacerata tra accoglienza e diffidenza, come un’integrazione senza la rinuncia alle specifiche identità sia possibile. Con una priorità rivolta alle scuole”.
Da dove nasce il suo ebraismo così profondo, da che famiglia viene?
“Da una famiglia tradizionale romana, non così osservante. È stata soprattutto mia nonna Elena, mentre seguiva il lutto per suo marito negli anni ’70, ad avvicinarmi alla religiosità, a farmi sentire il privilegio di appartenere a una cultura tanto forte e il desiderio di trasmetterla alla generazione successiva. Anche se io mi sento un ebreo all’italiana, attento a contemperare precetti e un modo di vita tollerante”.
Lei è anche un sofer, credo l’unico in Italia negli ultimi 150 anni. Cosa significa questo mestiere?
“Ho scritto un Sefer Torah nel 2007 ed erano circa 150 anni che in Italia non venivano redatti. Mentre la tradizione della copiatura dei testi sacri aveva sempre contraddistinto il nostro Paese. Furono l’emancipazione e il diffondersi della secolarizzazione a investire e far scemare questa pratica che sta a metà tra artigianato e devozione”.
Come si diventa sofer?
“Richiede l’apprendimento di una tecnica che deve assolvere a numerose regole prescritte dai più antichi rabbini, dalla Mishnà e dal Talmud, oltre a una buona dose di sfaccettatura artistica secondo il principio parafrasato dall’Esodo “questo è il mio Dio e lo voglio rendere bello”. Le norme vanno dal supporto scrittorio, la pergamena, alla produzione del calamo, alle lettere che vanno scritte in modo completo, armonioso e con un inchiostro durevole. Essere scriba è la caratteristica di me stesso a cui tengo di più; se mi chiedono che fai nella vita, io vorrei rispondere “scriba in Roma”, il resto, essere insegnante, rabbino, è corollario”.
Cosa prova mentre trascrive le lettere sacre della Bibbia?
“Si dice che il Sefer Torah possieda tante lettere quante sono le anime del popolo ebraico. E infatti quando scrivi devi stare attento che non manchi nemmeno un carattere, altrimenti quella Torah sarà inadatta alla lettura pubblica: insomma quando copio mi sento legato a tutte le parti dell’ebraismo, passato, presente, futuro. Come in quel midrash che racconta come sul Monte Sinai a ricevere le tavole della legge ci fossero tutti gli ebrei, sia quelli che erano lì usciti dall’Egitto, sia quelli che sarebbero venuti dopo. E mi sento così anche quando correggo o restauro un Sefer Torah antico, perché avverto tutta la tradizione precedente, mi connetto a tutti quelli che l’hanno letto e conservato prima di me”.
Bisogna essere puri prima di impugnare la penna d’oca?
“Ci vuole un’attenzione particolare quando si copia il tetragramma, il nome di Dio. Devi prima pronunciare delle parole che attestino la consapevolezza della santità di quel che stai per fare. Alcuni consigliano il mikveh, il bagno rituale, ma non è obbligatorio”.
Torniamo al suo museo. Cosa consiglia di vedere?
“Innanzitutto il luogo, perché il museo è iscritto nel carcere dove sono stati reclusi i prigionieri durante il fascismo, anche Bassani: è di per sé evocativo di una storia ebraica incancellabile. Poi contiene un eccezionale progetto didattico rivolto alle scuole. In terzo luogo ci sono le straordinarie mostre permanenti e quella sulla Shoah 1938: l’umanità negata che era stata chiusa per il Covid e ora viene riaperta. E quella che verrà, sul periodo dei ghetti. Imprescindibile una visita alla Ferrara ebraica, le sue sinagoghe, il cimitero. Un’offerta armoniosa, sintonica”.
Cosa vuol fare di questo museo?
“Per ora devo studiare quel che è stato fatto, il lavoro meraviglioso e appassionato che ha realizzato chi mi ha preceduto, Simonetta Della Seta”.
Un sogno nel cassetto?
“Penso a un lavoro che si concentri sul rabbino Yochanan Ben Zakkai, vissuto duemila anni fa. Fu lui che durante l’assedio a Gerusalemme riuscì a uscire dalle mura della città e a incontrare il comandante Vespasiano: così ottenne di salvare i saggi e la scuola rabbinica che poi fondò a Yavne. Fece un passo che permise agli ebrei di riformulare le modalità di trasmissione della propria tradizione e di continuare ad esistere. Mi piacerebbe metterlo al centro di un’iniziativa”.
La Repubblica 16.6.2020