Il filologo del terremoto (G. Limentani)
Nella Mantova della fine del Cinquecento un ebreo italiano applicò dei metodi di studio dell’ebraismo ancora oggi giudicati rivoluzionari
Chi avesse detto anche a una delle più eccelse, vaste e duttili menti ebraiche del Rinascimento, (chi usava) la filologia anche per studiare la nostra antica storia, si sarebbe trovato ad affrontare una reazione di sconcertata meraviglia. La filologia infatti, insieme con il terremoto che ha portato negli studi storici e nelle datazioni degli eventi del passato, era per i sapienti ebrei del tempo, lettera morta. Eppure, proprio durante il Rinascimento, e in Italia, nacque, visse e operò un uomo che potrebbe venir definito il primo storico-filologo della nostra storia e, da bravo filologo, scatenò un piccolo terremoto nel mondo ebraico. La cosa più strana è che il desiderio di affrontare gli antichi eventi con un metodo nuovo e filologico, nacque in lui proprio in un giorno di terremoto.
Si chiamava Azarià de’ Rossi e nacque a Mantova nel 1511 da una delle più illustri famiglie dell’ebraismo italiano, il cui capostipite, come vuole la leggenda, era stato portato in Italia e a Roma dallo stesso imperatore Tito dopo la distruzione del Secondo Tempio. Da allora in poi e fino al 1500, epoca in cui risiedeva a Mantova sotto la protezione dei principi Gonzaga, la famiglia de’ Rossi si rese famosa per aver dato alla cultura ebraica e italiana una lunga serie di studiosi, polemisti, rabbini e artisti di notevole levatura. Azarià non fu né il primo né l’ultimo dei de’ Rossi che si rese famoso, ma la sua fama ha la qualità speciale che sempre accompagna coloro che con la loro opera creano una rottura nelle opinioni e nel sistema di studio e di lavoro noti e accettati nell’epoca in cui vivono.
Venendo da una famiglia di alta cultura, Azarià de’ Rossi ebbe una solidissima educazione ebraica ed umanistica che continuò ad approfondire per tutta la vita, e uscì nel mondo per guadagnarsi il pane quotidiano con l’esercizio della medicina. Pare fosse un buon medico, ma non riuscì a procurarsi di che vivere largamente con questa professione né a Ferrara né ad Ancona né a Sabbioneta né negli Stati Pontifici, luoghi tutti dove risiedette più o meno a lungo. Quando nel 1569 il Papa espulse gli ebrei dalle sue terre, tornò a Ferrara dove una catastrofe naturale lo decise a fissare per scritto i risultati dei suoi studi e delle sue riflessioni.
La catastrofe fu appunto il terremoto che nel 1571 scosse Ferrara per dieci giorni consecutivi. Tutti, ebrei e non ebrei, abbandonarono la città per cercare rifugio nei campi, e qui Azarià incontrò uno studioso cristiano che in quel periodo si stava occupando degli scritti pseudoepigrafi greci. Conoscendo la fama di grande erudito del de’ Rossi e pensando che egli conoscesse a fondo questa letteratura nei suoi testi originali ebraici, lo studioso lo interrogò sull’effettivo significato di alcuni passi e rimase molto sorpreso sentendosi rispondere che gli originali ebraici non esistono e che quel genere di letteratura era sconosciuto agli ebrei.
Se lo studioso rimase meravigliato, Azarià si rese conto subito dell’importanza che queti scritti, e in specie la lettera di Aristea dove si parla diffusamente della traduzione in greco dell’Antico Testamento, potevano avere per una ricerca approfondita sull’evoluzione della letteratura e della cultura ebraica post-biblica. Appena la terra smise di tremare, decise di mettersi al lavoro, non solo traducendo la “lettera” in questione, ma anche studiando e raffrontando gli altri testi fra loro e con gli scritti ebraici accettati dalla tradizione rabbinica, come ad esempio il Talmùd.
Nacque così la sua grande opera intitolata Meòr einàim (L’illuminazione degli occhi), che inizia con un’accurata e vivida descrizione del terremoto, accompagnata descrizione del terremoto, accompagnata da un dotto discorso sulle ragioni e sui significati attribuiti a questo fenomeno dagli studiosi medievali non ebrei e dai maestri del Talmùd. Segue la tradizione della lettera di Aristea che sfocia nella terza, più lunga e più importante parte del libro, intitolata Imrè Binà (parole di saggezza) e divisa a sua volta in sessanta capitoli. Fu questa parte, dedicata allo studio dello sviluppo della Bibbia e della cronologia, poesia e cultura ebraiche, a scatenare il terremoto.
Confrontando e paragonando le opere dei filosofi e degli storici latini e perfino dei Padri della Chiesa con gli scritti dei Grandi maestri ebrei, e usando una tecnica assolutamente nuova per gli studiosi del suo tempo, Azarià de’ Rossi vi giunse, soprattutto nel campo della cronologia storica, a conclusioni sbalorditive che oggi sappiamo per la maggior parte esatte, ma che allora suscitarono scalpore e scandalo nell’ebraismo tradizionale. Si arrivò addirittura a un decreto di scomunica, non contro di lui personalmente data la limpidezza, il rigore e l’integrità della sua vita, ma contro chiunque leggesse o fosse trovato in possesso del suo libro. Anche nella lontana Safed il decreto fu controfirmato, e il grande Rabbi Löw di Praga dedicò buona parte del suo lavoro ad attaccare il de’ Rossi e i suoi insegnamenti.
Perfino a Mantova, dove egli era ben noto e dove il suo libro era stato stampato, se ne proibì lo studio ai minori di venticinque anni, tanto che Azarià, amareggiato, prima di morire nel 1578, riprese la penna per scrivere il Matzref ha–kesef (la purificazione dell’argento), una risposta ai suoi critici, che tratta in special modo la questione del calendario e della cronologia.
Il bando contro l’opera di Azarià de’ Rossi durò fino al XVIII secolo, quando i maskilim vi trovarono idee rispondenti alle loro. Oggi sappiamo con certezza che egli aveva in massima parte ragione e possiamo con rispetto considerarlo tra i primi filologi della storia della cultura ebraica.
Giacoma Limentani