“Non mi piacciono i musei”
Queste note documentate e provocanti ripropongono un problema attuale nelle nostre Comunità: che fare dei cosiddetti “oggetti sacri”?
La tradizione ebraica ci presenta una casistica particolareggiata per tutto ciò che riguarda i “tashmishè qedushà“, termine che si può tradurre con una certa approssimazione con “oggetti di culto” o “oggetti sacri”. Le linee direttive di questa casistica sono informate dal principio “ma’alim baqodesh velo moridim“, ossia: quando un oggetto sia stato dedicato a scopi sacri, ed in certi casi anche semplicemente usato per essi, non solo non può più essere destinato a scopi profani, ma, se se ne vuol cambiare la destinazione, occorre che il nuovo uso abbia un carattere di sacralità superiore a quello originale. Così, per esempio, si può usare la stoffa di un Me’il (rivestimento esterno) di un Sefer Torà per farne una mappà (la tovaglietta con cui si copre il sefer tra una chiamata e l’altra e che sta a diretto contatto con la scrittura) detta anche Mitpachat, ma non il contrario; si può destinare una busta di Tallet per farne una busta per Tefillin, ma non viceversa; si può fare di una correggia di Tefillin del braccio una per quelli della testa (che per le loro caratteristiche nella scrittura sono più sacri), ma non viceversa; si può usare il legno della Tevà o Bimà (palco su cui si recitano le Tefillòt) per farne un Aròn ha-Qòdesh (armadio per la custodia dei Sefarim), e non viceversa; si può usare l’argento dei campanelli di un Sefer Torà per farne un punteruolo per la lettura, e non viceversa; o, in altri campi, si può vendere un cimitero (grado più basso di santità di luoghi) per costruire con il ricavato un Bet Ha–Keneset, e tanto più per costruire una scuola ebraica, ma non viceversa, mentre certamente non si può alienare un cimitero, e tanto meno un Bet Ha–Keneset o una scuola per costruire con il ricavato un edificio residenziale o per uffici, né si può adibire uno dei locali destinati ai primi scopi per questi ultimi.
Tornando ai Tashmishè qedushà, essi vanno usati per lo scopo a cui erano stati originariamente destinati o per uno avente carattere di maggiore sacralità, fino a che non divengano inservibili; anche a questo punto non possono essere usati per altri scopi (neppure fondendoli o trasformandoli, se si tratta di oggetti di metallo), ma vanno sepolti. Come è noto, la stessa regola vale per i Sifrè Torà, per i Tefillin, per gli Zitzijoth, per i libri di preghiere ed in genere per ogni scritto che contenga nomi divini in caratteri ebraici quadrati (secondo alcune opinioni più rigorose, anche se scritti in altri caratteri e in altre lingue).
Il culto delle reliquie
Quest’abitudine di far scomparire, di seppellire oggetti e libri sacri quando per il lungo uso non possono più servire al loro scopo, contiene implicitamente una posizione che mi sembra caratteristica dell’ebraismo, e che appare in netto contrasto con sistemi e tendenze delle civiltà greca e cristiana: e cioè l’avversione per il culto delle reliquie e, in un contesto più vasto, il non riferirsi mai al passato con il senso di nostalgia per qualcosa di bello che c’era una volta e che è scomparso definitivamente, o come a qualcosa di morto che non ha attinenza né significato diretto per il presente o per il futuro. L’ebraismo ricorda sì sempre il passato, ma in quanto insegnamento vivo e vivificatore per il presente e per il futuro. Forse qualcuno mi potrà obiettare che proprio accanto all’oggetto più sacro ad Israele, l’Arca in cui erano custodite le tavole della Legge, si trovavano un vasetto di manna e la verga di Aharon — apparentemente reliquie nel senso più pieno della parola. In realtà, se osserviamo bene il testo biblico, possiamo vedere che anche questi oggetti avevano un ben determinato scopo educativo per le generazioni future; a proposito di tutti e due è detto che sono “le mishmèret“, espressione che può essere intesa nel senso di “custodia”, cioè come per dire che quegli oggetti vanno custoditi, ma che ha anche il senso di “avvertimento”. È questa probabilmente l’accezione da darsi preferibilmente alla parola Mishmèreth, dato che il testo che si riferisce alla verga di Aharon (Numeri XVII, 25) dice che la verga deve servire da “mishmèreth, da segno per i ribelli, in modo che abbiano termine le loro lamentazioni” contro il Signore: l’importante cioè non è la custodia, ma l’avvertimento, ricco di significato per il futuro. Analogamente, se nel vasetto di manna si dice che deve essere “mishmèret” per tutte le generazioni, perché esse vedano il cibo dato dal Signore agli ebrei dopo l’uscita dall’Egitto (Esodo XVI, 32), il senso più preciso in questo caso sembra il seguente: il vasetto di manna doveva servire da monito per il popolo. Anche nei momenti più difficili il popolo doveva ricordare che la Provvidenza divina fa giungere tutto ciò che gli occorre a chi ha fiducia in essa. In nessun caso il testo accenna ad una “reliquia” nel senso comune della parola, cioè a un oggetto ormai inservibile, da conservare, da generare perché appartenuto ad un certo individuo o a una certa epoca. La riprova di questo particolarissimo atteggiamento ebraico si può dedurre da quel che la Torà dice a proposito dei turiboli usati dai leviti ribelli, divorati dal fuoco celeste (Numeri XVII, 3): essi avevano assunto carattere di oggetti sacri in quanto avevano contenuto un incenso dedicato al Signore. Si stabilisce quindi che servano quale “segno” per i figli di Israele; ma il tenerli inutilizzati, come monumenti-ricordo o reliquie, non avrebbe avuto senso, e quindi il loro materiale viene usato per uno scopo di sacralità superiore, ossia il rivestimento dell’altare (Ivi, ivi, 4). Da qui possiamo anche imparare che oggetti che abbiano un carattere di sacralità non possono rimanere lì inutilizzati al solo fine contemplativo (la manna e la verga di Aharon non avevano di per se stesse nessun carattere di questo tipo), ma possono essere conservati solo se destinati ad altro scopo sacro, non inferiore a quello originale.
Ebraismo da museo?
Tutto ciò spiega varie cose, e cioè, soprattutto,perché noi ebrei non abbiamo Sifrè Torà molto antichi né altri oggetti sacri vecchi di molti secoli. via via che divenivano inservibili, essi venivano eliminati con la sepoltura (Ghenizà) ed eventualmente sostituiti con altri nuovi, né si pensava, per sentimentalismo od altro, di conservare rottami di oggetti inservibili o, tanto meno, di cessare di usare oggetti sacri ancora utilizzabili per il loro scopo.
Negli ultimi decenni e in varie Comunità ebraiche è invalso l’uso di istituire “Musei di arte ebraica”, nei quali vengono in genere esposti oggetti sacri, quali ornamenti del Sefer Torà, Talletòt ricamati, Meghillòt e talvolta perfino Sifrè Torà. È lecito domandarsi se quest’abitudine sia o meno conforme alla tradizione ebraica, e se il fatto che essa sia invalsa solo nel periodo assimilatorio o post-assimilatorio in cui stiamo vivendo non sia indice della sua poca ebraicità. Simbolicamente, il nome stesso di Museo, e cioè istituzione dedicata alle Muse, ci porta alla civiltà greca o ellenistica, contro la quale ci siamo tanto battuti e che è spesso portata ad esempio classico dell’antitesi all’ebraismo (e basti accennare a tal fine ai ben noti scritti di S.D. Luzzatto su “Giudaismo ed Atticismo”). Ma anche a parte la simbolicità, sembra evidente che sottrarre oggetti sacri alla funzione che sottrarre oggetti sacri alla funzione per cui erano stati creati e dedicati e alla quale hanno adempiuto per un periodo più o meno lungo, per trasformarli in pezzi da esposizione, per renderli oggetto della curiosità di turisti più o meno frettolosi, od anche mezzi di studio per ricercatori che si accostano ad essi come ci si accosta a reliquie, resti di un tempo che fu che si desidera scrutare e conoscere non per affermarne la continuità, ma con il distacco che si prova per le cose morte, per i “pezzi da museo” appunto — sia un tipico caso di abbassamento del grado di santità degli oggetti stessi, e quindi assolutamente opposto alla tradizione ebraica. Tali oggetti, anche se pregevoli per la fattura e la forma, debbono essere usati per il loro scopo, e la loro bellezza esteriore, ammesso che l’abbiano, e l’ammirazione per essa debbono passare in seconda linea di fronte alla loro destinazione di Mitzvà, se vogliamo agire secondo lo spirito ebraico che bada soprattutto alla sostanza ed alla funzionalità, e non in base a quello greco, che ha per ideale il culto della bellezza e dell’esteriorità. Se poi l’uso continuo di tali oggetti porta al loro deterioramento, come succede ad ogni cosa di questa terra, dal punto di vista ebraico sarà sempre preferibile che finiscano con l’essere eliminati e sepolti onorevolmente, piuttosto che conservati a lungo senza esser più usati per lo scopo a cui erano stati destinati.
Realtà e riproduzione
È vero che spesso si sente dire che, specialmente in Italia, per via dell’assottigliarsi delle Comunità ebraiche, i “tashmishè qedushà” a noi giunti dalle generazioni precedenti, specie in alcune località sono tanti che non c’è più modo di usarli tutti per il loro vero scopo, e che quindi è meglio esporli in un Museo che lasciarli senza uso in armadi chiusi. Anche questa argomentazione può apparire valida a prima vista, ma solo se si parte da un presupposto “campanilistico” che ha anch’esso ben poco di ebraico: se una Comunità, o varie Comunità, hanno “tashmishè qedushà” in soprannumero, dovrebbero metterli a disposizione di altre a cui mancano: credo che nella stessa Italia ce e siano in sovrabbondanza, e se quindi una Comunità desse una mano all’altra non si tratterebbe che di un bel gesto di doverosa solidarietà ebraica. Fuori d’Italia comunque — basti pensare alle città di sviluppo ed ai nuovi insediamenti, ed in genere ai centri minori in Erez Israel — ci sono moltissimi fratelli ebrei che sarebbero felici di avere un qualche oggetto che desse il modo di aggiungere “hiddur” (bellezza e dignità) alle loro Tefillòt ed alle loro Mizvòt.
È pure vero che si dice — e non a torno — che in ogni caso la conoscenza degli oggetti preparati dai nostri Padri serve a degli scopi molto positivi, e cioè — ad analogia forse del vasetto della manna e della verga di Aharon — a farci ricordare il passato ed a spingerci a dare per il futuro espressioni analoghe nella sostanza. Su questo posso essere d’accordo, ma ciò non basta per permettere lo scadimento del grado di santità degli oggetti in questione: il ricordo di essi potrà esser mantenuto con mezzi, che certamente oggi non mancano, di fotografia, calchi, ecc. I patiti delle scienze archeologiche od artistiche ci diranno che le riproduzioni non hanno lo stesso valore degli originali — ma di nuovo ciò ha un senso se si accetta il presupposto ellenistico della preminenza della forma sulla sostanza. Secondo noi, che consideriamo essenziale la sostanza, agli scopi di studio e ricerca suindicati bastano anche le riproduzioni, pur di non ledere la Qedushà che passa avanti a tutto. Per tali scopi un Museo di riproduzione equivale, se non supera in opportunità, a un Museo di originali.
Menachem Emanuel Artom