A proposito del Chol Ha-Mo’ed
L’osservanza del Chol Ha-Mo’ed (mezze feste di Pèsach e di Sukkoth) comprende, secondo tutti i nostri ritualisti, l’astensione da quasi tutte le attività normali che non risultino di eccezionale urgenza, ossia il cui rinvio porti danni irreparabili o gravissimi. Ogni ebreo ha cioè il dovere di astenersi in quei giorni dalle sue attività normali, a meno che la perdita del guadagno in quei pochi giorni causi reali difficoltà al mantenimento proprio e della famiglia. Non si deve scrivere se non per compiere una Mizvà (come riparare un Sèfer Torà se non se ne ha un altro in buone condizioni per la seguente festa solenne o scrivere una Mezuzà se non se ne ha una buona da usare); nelle attività domestiche non si deve cucire, ricamare o tessere, né fare bucato, se non per le necessità immediate dei bambini piccoli. Sono invece permesse le attività della Comunità, di istituzioni di beneficenza ecc. Inoltre è permesso tutto quanto serve a contribuire alla gioia del giorno festivo, e quindi preparare cibi e dolciumi, far gite anche con l’uso di veicoli, organizzare feste e divertimenti.
Apparirà forse un po’ strano che si prenda la penna per ricordare la santità del Chol Ha-Mo’ed in un ambiente, in cui purtroppo la grande maggioranza degli individui non osserva neanche le feste solenni e neppure il giorno sacro tra i sacri, il sabato.
Comunque non sembra inopportuno ricordare oggi queste norme perché siano ben presenti a quei pochi che speriamo tornino ad essere molti e moltissimi in un domani non troppo lontano, i quali invece desiderano informare la loro vita alla disciplina della Torà. Ricordiamo in questa occasione che anche l’uso, invalso negli ultimi secoli, di non mettere i Tefillin di Chol Ha-Mo’ed (in Italia si mettevano almeno fino al XV sec., nelle Comunità askenazite d’Italia ancora nel secolo scorso, e nelle Comunità askenazite non chassidiche della Diaspora ancora oggi) presuppone che quei giorni non siano lavorativi; infatti l’astensione dal mettersi i Tefillin presuppone che la giornata sia tutta dedicata a scopi sacri ed all’elevazione spirituale e non alle occupazioni abituali, come deve avvenire nel sabato e nei giorni di festa solenne, nei quali tutti si astengono dal mettere i Tefillin.
Particolarmente doloroso è quello che con un processo sempre più avanzato, è avvenuto in Italia negli ultimi anni o decenni, per cui la dimenticanza del Chol Ha-Mo’ed e la sua equiparazione ai giorni feriali sono evidenti nelle istituzioni comunitarie e specialmente nelle scuole, che dovrebbero servire agli alunni, troppo spesso provenienti da case in cui la Torà è dimenticata del tutto o quasi, per far almeno sentire il sapore della vera vita ebraica. A quanto mi risulta tutti gli uffici delle istituzioni ebraiche d’Italia lavorano a temo pieno di Chol Ha-Mo’ed, e la cosa sarebbe forse giustificata se apparisse indispensabile per il funzionamento di tali istituzioni, il cui scopo è Mitzwà; ma se questi stessi uffici non lavorano o fanno orario ridotto ogni domenica e in altre festività, che nulla, come la domenica stessa, hanno a che fare con l’ebraismo e spesso sono in netto contrasto con esso, non esiste nessuna giustificazione per cancellare la santità del Chol Ha-Mo’ed in quegli uffici, e si lavori in giorni ed ore che non hanno per noi nessun carattere diverso da quello di qualsiasi altro giorno feriale. Lo stesso vale per le scuole, ed il dare il sopravvento alle richieste degli assimilati di fronte alle esigenze della tradizione nostra, è qui ancora più evidente: per gli scolari la festività di una giornata si sente in quanto si è liberi dai doveri scolastici quotidiani; fino a non molto tempo fa le scuole ebraiche avevano il principio di rispettare la nostra tradizione e svolgere regolarmente le lezioni nei giorni per noi feriali; gradatamente si è preso il vezzo di festeggiare la domenica e le altre ricorrenze non ebraiche, si sono introdotte le vacanze natalizie (pudicamente nascoste dietro la denominazione “vacanze invernali”) e poi per arrivare a completare i programmi, si è preso l’abitudine di aprire le scuole di Chol Ha-Mo’ed (almeno di Sukkoth, perché forse sarebbe troppa fatica a far vere pulizie di Pèsach nei locali)), costringendo così ragazzi ed insegnanti a infrangere il divieto di scrivere in quei giorni ed in genere di occuparsi delle attività normali. La stessa sorte del Chol Ha-Mo’ed subiscono il Purim (il lavoro in quel giorno, o meglio in quei due giorni, è considerato come destinato all’insuccesso dalla tradizione ebraica), Chanukkà e il Jom Ha–‘Azmauth; i ragazzi sono così educati a sentire la festività del Natale e del Capodanno, dell’Immacolata Concezione e, se non cadesse d’agosto, dall’Assunzione di Maria Vergine, ma non sono fatti partecipi in forma completa della gioia di tutti e sette i giorni di Sukkoth, dell’allegria intera del Purim, del ricordo delle gesta e dei miracoli dell’età dei Maccabei e di quelli a noi contemporanei o quasi, che hanno portato alla ricostituzione dell’indipendenza ebraica. Forse il meglio sarebbe che nelle ricorrenze minori, in cui è permesso usare i veicoli, si riunissero i ragazzi nelle scuole, lasciandoli del tutto liberi dalle lezioni e dai compiti e dalle altre attività scolastiche usuali, organizzando invece manifestazioni che facessero sentire loro tangibilmente le particolarità e la festività della ricorrenza, come partecipazioni ad una Teofillà specialmente gioiosa, magari apposta per loro, giuochi, passeggiate e gite scolastiche, e in genere elementi che facciano sentire loro la festa non meno di quelle cristiane, che tanto influiscono su di loro in senso negativo. E se il tempo non basterà per svolgere tutto il programma, ben venga il ritorno a considerare le feste non ebraiche come giorni di lavoro a tutti gli effetti.
Mi pare che nella cornice del soffio di ebraicità che il DAC cerca di riportare nelle Comunità italiane, andrebbe dedicata seria attenzione dell’eliminazione di questo avvilimento delle nostre ricorrenze cosiddette minori, ed a restituire il posto onorato che spetta loro almeno nelle istituzioni ebraiche pubbliche, con la speranza che questo esempio possa spingere poi i singoli verso la riconquista, tra l’altro, anche dei valori che quelle ricorrenze rappresentano.
Menachem Emanuel Artom