Gli alberi benedetti
L’eccezionale occasione che si presenta quest’anno, all’inizio di Nisan, di recitare la “benedizione del sole” (se ne parla diffusamente in altre pagine di questo numero) farà forse passare inavvertito un altro rito minore, che la tradizione prescrive di compiere all’inizio della primavera: la birkàt ha–ilanòth o benedizione degli alberi. Trattandosi di un uso poco conosciuto, ma di grande interesse, ne vogliamo parlare brevemente.
Nella sua estrema semplicità questo rito non richiederebbe molte spiegazioni ma lo spirito della benedizione merita qualche osservazione complementare.
Già dalla formula ne emergono gli elementi più significativi. Il risveglio della natura dopo la pausa invernale, la ripresa del ciclo produttivo, regolare e benefico, e la bellezza dello spettacolo floreale diventano per l’ebreo occasioni per riaffermare il suo rapporto positivo con il mondo; un rapporto in cui si considera la natura come un bene, mentre al contempo si evita attentamente di considerare il godimento di questo bene come un fatto assoluto, automatico ed ovvio, in quanto esso si accompagna all’ammirazione ed al riconoscimento della potenza creatrice divina. In questo, come in numerosi altri riti più frequenti, l’ebreo si impone un’educazione sistematica in rapporto con la realtà ed identifica la sua dimensione che non è mai quella di padrone assoluto. Se questo è il senso generale del rito, non si può tuttavia ignorare il ricco simbolismo legato al rapporto con l’albero, come risulta dalla millenaria tradizione ebraica e dal confronto con valori diffusi ubiquitariamente.
In primo luogo, emerge la particolare elaborazione ebraica del rapporto con la natura, nella quale gli avvenimenti annuali del ciclo agricolo vengono integrati dalla commemorazione delle vicende storiche (si pensi alle tre ricorrenze di pellegrinaggio, e in particolare, per la concomitanza di tempi e significati, a Pesach, vista come festa della primavera e insieme dalla liberazione della schiavitù): rispetto a questa ideologia la benedizione degli alberi si segnala per l’assenza di riferimenti storici. Ma questa contemplazione della natura è come una premessa all’integrazione storica della Pasqua, riallacciandosi alle immagini del Cantico dei cantici e alla lettura allegorica in chiave storica, che la tradizione fa dei suoi riferimenti alla primavera. Altro punto da considerare è il rapporto di tipo pagano-orgiastico con l’albero con significati di morte — resurrezione — fecondità; nella storia biblica esso rappresenta un rischio reale, disciplinato da rigorose proibizioni — vedi i continui riferimenti all’asherà, albero o bosco sacro. Esso che a secoli di distanza, il Talmud ripropone l’ammirazione dell’albero, ma sottolineandone la natura di oggetto e creatura, nel momento stesso in cui esso torna alla vita e crea.
Dietro ad una semplice formula di ammirazione si nasconde quindi una polemica di secoli, una lotta di simbolismi e di credenze, nella quale l’ebraismo cerca sistematicamente di controllare il rischio di centralizzare l’albero nell’esperienza del reale, di sacralizzarlo, divinizzarlo, farne il segno dell’origine della vita e della potenza fecondante.
Notevole, poi, è la limitazione legale del rito ai soli alberi da frutta.
Ciò implica una selezione, per cui oggetto dell’ammirazione e stimolo all’espressione del ringraziamento non è un puro valore estetico, ma l’uso di un bene reale, fonte di sopravvivenza. È La stessa scelta ispirata da quella legge del Deuteronomio che proibisce agli assedianti di una città di tagliare gli alberi da frutto per usarne il legname ai vari scopi militari (21:19-20). È il segno di un rispetto estremo per la natura, che si perpetua nei secoli per cui i Pirqè di Rabbi Eliezer — VIII sec. e.v. — affermano che “quando si taglia un albero da frutto in terra di Israele, il suo grido va da una parte all’altra del mondo”; e i ritualisti proibiscono, per il pericolo che può comportare per la società, il taglio degli alberi da frutto, consentendolo solo nel caso in cui lo spazio da essi occupato serve per la costruzione di una casa, raccomandando però, anche in questo caso, di sradicarlo e piantarlo altrove; cfr. i commenti di Jorèh Deàh 116:5).
È una scelta ecologica del tutto particolare che privilegia solo una parte degli alberi; e bisogna qui sottolineare che “ecologia” è un termine troppo generico; anche in campo ecologico si devono fare delle scelte senza lasciarsi andare al culto assoluto della natura, che può essere distruttrice e nemica dell’uomo. La venerazione della natura può comportare persino la possibilità di un’ecologia “antisemita”: come quando si imputa la distruzione della natura alle prime pagine della Genesi, nelle quali la natura viene consegnata all’uomo con l’obbligo di “riempirla e conquistarla”. Ebbene in questo campo, la scelta ebraica è antica e precisa: la natura è sottomessa all’uomo, che deve rispettarla in primo luogo e soprattutto come fonte di beni. È questo il tipo di scelta che si trasmette nei simboli della benedizione degli alberi.
Un ultimo punto merita di essere preso in considerazione. In un approccio rigorosamente razionalista al rito, non ci sarebbe molto altro da aggiungere; ma la tradizione mistica ha voluto caricare la cerimonia di altri significati.
Notoriamente nella Qabbalà, l’albero è un simbolo di uso molto frequente, ma nella molteplicità dei suoi possibili significati, la benedizione primaverile ne ha assunto uno del tutto peculiare. Nella cerimonia (vedi riquadro) c’è chi usa pregare per i defunti. Ciò è verosimilmente in rapporto con quella credenza secondo la quale le anime di alcuni defunti sarebbero trasmigrate in erbe ed alberi, e la benedizione potrebbe servire a liberarle. All’istintivo rifiuto del razionalista che ascolta questa spiegazione, bisogna opporre non una dimostrazione della verità, ma un inquadramento dell’ideologia che vi è sottintesa. L’idea del ghilgùl, della metempsicosi e della trasmigrazione delle anime, è penetrata nell’ebraismo molto lentamente e piuttosto tardi. All’inizio si riteneva fosse una condizione limitata ad anime particolari, macchiatesi di colpe definite. Negli sviluppi successivi, in particolare nella Qabbalà di Luria, l’idea acquistò maggior importanza, configurandosi come un sistema di retribuzione e correzione delle colpe dell’uomo e soprattutto, diventando il segno di un piano universale che si sovrapponeva all’esperienza storica dell’esilio, per cui la correzione dell’una e dell’altra condizione rientrava nel processo stesso del Tiqqùn o restituzione dell’ordine originario. Il concetto di trasmigrazione, come si delinea nell’evoluzione della mistica ebraica, costituisce quindi un discorso estremamente complesso e specifico, e per questo non giudicabile semplicisticamente in base a categorie generiche.
Pertanto, sebbene l’idea che le anime di defunti abitino gli alberi in fiore ricordi, con impressionanti ricorsi, le più svariate esperienze culturali, cominciando dall’animismo, al di là delle apparenze formali il suo senso è ben diverso. Almeno nei suoi significati elementari comporta la proiezione della storia ebraica nel processo universale della creazione, presuppone la possibilità per l’uomo di intervenire con le sue azioni a correggere e riparare, e in sostanza ricompone, sul piano metafisico, l’unione tipica della cultura ebraica, tra ciclo naturale e storia dell’umanità, risveglio primaverile e liberazione. Insomma esso inserisce anche un rito secondario come questo, nella preziosa economia dell’attuazione di un piano di liberazione cosmica.
Riccardo Di Segni
Secondo il Talmùd (TB Berakhòth 53 b) che riporta una prescrizione dell’amorà Rav Jehudàh, “colui che esce nei giorni di Nisàn e vede alberi che cominciano a fiorire dice questa benedizione: “Benedetto Colui che non ha fatto mancare nulla nel suo mondo, e vi ha creato creature buone e alberi buoni, affinché gli uomini si abbelliscano (lehitnaòth) con essi””. La formula di questa benedizione è lievemente diversa nelle fonti successive. Ad “alberi buoni” Maimonide aggiunge: “e belli”, ma tutti concordano nel concludere la formula con la parola “lehenòth” (“affinché gli uomini ne godano”). I diversi commenti aggiungono particolari sulle modalità del rito: la data prescritta non è rigorosamente limitata al mese di Nisàn, ma deve essere intesa come il momento in cui, secondo i vari climi, gli alberi cominciano ad aprire i germogli, perché si possa recitare la benedizione, bisogna vedere proprio i fiori, e non le prime foglie. La regola vale per gli alberi da frutto, e non per qualsiasi albero. I ritualisti aggiungono che la benedizione va detta una sola volta all’anno; se non la si è detta quando si sono visti i fiori per la prima volta , si fa in tempo a dirla entro il termine della crescita della frutta. Altri dissentono, e insistono che il momento adatto è proprio il mese di Nisàn; dopo, tutt’al più, si può benedire omettendo dalla formula il nome divino. In molte comunità c’è l’uso di riunirsi pubblicamente per la recitazione della benedizione; alcuni raccomandano per la recitazione; alcuni raccomandano di andare in campagna dove lo spettacolo naturale è più bello. Nei formulari in uso corrente, la benedizione è seguita dalla lettura del Salmo 148, che loda la bellezza del creato, e da una preghiera per i defunti. Si chiude con un Qaddish. |