La situazione attuale e il futuro: tre opinioni contrapposte
Rispondono alle nostre domande:
Emanuele Artom, Rabbino Capo delle Comunità di Torino, e per anni consulente pedagogico del DAC.
Rav Chershon Garelik, inviato del Lubavitcher Rebbe in Italia e direttore del Merkaz Leiniané Chinnuch a Milano.
Elio Toaff, Rabbio Capo della Comunità di Roma e Direttore del Collegio Rabbinico Italiano.
È opinione comune, almeno tra gli ebrei italiani, che il modello di ebraismo religioso proposto dalla scuola di Shmuel David Luzzatto abbia rappresentato la formula migliore per salvare il salvabile in una comunità altrimenti destinata al completo abbandono della Torà. Alla luce della attualità come valuta questo giudizio? Che cosa va bene e cosa non va più bene nella formula?
Artom — Non so se nessun modello di ebraismo “religioso” possa oggi aiutare a salvare il salvabile nelle Comunità Italiane. A parer mio, comunque, su elementi intelligenti e ragionamenti il modello di S.D.L. può avere meno probabilità di insuccesso. So bene che oggi è di moda cercare spunti mistici, si ha simpatia per la Qabbalà (senza conoscerla), ma credo che ciò possa portare solo a dare qualche risultato a cose di importanza secondaria o magari a superstizioni più che all’essenziale, e che non serva a ravvicinare alle Mizvoth. Quanto alla linea di S.D.L., si dovrebbe oggi mettere in maggior rilievo il suo lato “sionista” e il suo fervore per l’uso della lingua ebraica.
E. Toaff — A mio avviso c’è una profonda differenza fra la situazione degli ebrei italiani dei tempi di Shadal e quella dei tempi in cui noi viviamo. Shadal ha improntato il suo sistema di studi ebraici tenendo conto del processo scientifico degli studi ebraici per renderlo più consono ai tempi in cui egli svolgeva la sua missione e, se possiamo dire che a quel tempo quella era la formula migliore per salvare il salvabile, non possiamo dire che lo sia ancora oggi. Dire che cosa va e cosa non va più bene non è facile, perché bisognerebbe prendere in esame tutta la dottrina che emerge dai suoi scritti, dalle sue lettere e in particolare dai suoi commenti. Dobbiamo però affermare che la stretta ortodossia che egli praticava non è stata seguita né dai suoi allievi né dagli allievi di questi ultimi. Forse il difetto della dottrina di Shadal è proprio quello di aver voluto essere troppo scientifica. C’era in lui troppa scienza e, forse, troppo poco sentimento.
Negli ultimi decenni la scuola livornese, forse più tradizionalista, e quella fiorentina erede di Luzzatto, Margulies e Chajes si sono praticamente fuse in un unico istituto, il Collegio Rabbinico. Le antiche differenze tra le due scuole hanno oggi qualche senso, almeno simbolico?
Artom — Perché la scuola livornese è definita come “forse più tradizionalista” di quella fiorentina? Forse perché Qabbalà significa tradizione e “tradizionalista” significherebbe cabbalista? Se si prende invece il termine tradizionale nella sua accezione più comune, sono sdegnato nel sentir definire la scuola da cui sono uscito come meno tradizionalista di qualsiasi altra; a parer mio quella era un modello di tradizionalismo, unendo in maniera armonica la “shemirath mizvot” più rigorosa, la più profonda fedeltà alla Halakhà e la massima apertura alla ricerca scientifica, secondo il modello dei grandi Maestri del Talmud e di altre epoche. La fusione delle due scuole potrebbe aver di buono che nel CRI si insegnasse, come materia accessoria, legata alla filosofia ebraica, qualche elemento di Qabbalà, se non altro per saper “lehashiv la-apiqoros” (risponde a chi non crede) — ma per il resto si dovrebbe mantenere e rafforzare il carattere della scuola fiorentina — mentre oggi, a quanto sento dire da allievi del CRI, si studia poco Talmud, si fa poco lavoro scientifico e non si è rigorosi nell’osservanza delle Mozvoth da parte di allievi e docenti (per es. si vedono a capo scoperto anche per strada).
E. Toaff — Nella scuola livornese forse c’era più tradizione e più sentimento che non scienza. Le dottrine scientifiche imperanti in Europa non avevano attraversato l’Arno e a Livorno si continuava a studiare nella forma e nello stile instaurati in quella città dal Chidà (Haim David Azulai). Era forse una prova di vitalità dell’Ebraismo italiano il fatto che esistessero in Italia due scuole così diverse, ma così ugualmente tendenti allo stesso scopo. La fusione ha certamente privato l’Ebraismo italiano di qualcosa di insostituibile e il Collegio Rabbinico Italiano è oggi un Istituto nel quale si tenta di fondere insieme le tradizioni delle due scuole.
Negli ultimi decenni l’ebraismo italiano si è distinto in molte cose (scienza, lettere, storia, ecc.). Secondo voi vi è stato, vi è, o vi sono prospettive reali nel futuro per un contributo specifico nel campo della Torà?
Artom — Credo di no. Per arrivarci bisognerebbe che le scuole rabbiniche tornassero al livello dell’anteguerra e che si riuscisse a farle frequentare da buoni elementi, e non solo da chi si prepara alla “carriera rabbinica”.
Garelik — Ogni ebreo ha nel cuore una pietra preziosa: ho fiducia che, prima o dopo, egli saprà liberarla dalle scorie che le impediscono di brillare.
E. Toaff — Certamente il progresso negli studi di Torà in Italia negli ultimi decenni non è paragonabile per risultati allo sviluppo degli studi scientifici o letterari degli ebrei italiani. È chiaro che in una società in mezzo alla quale gli ebrei vivono e si assimilano gli studi ebraici e tradizionali non sono certamente in grado di svilupparsi come ai tempi di Shadal e Benamozeg, ma io credo che non si debba disperare perché in ogni secolo nell’Ebraismo sono spuntati personaggi che hanno saputo riconquistare un posto di prestigio agli studi di Torà nel nostro Paese, e come c’è stato uno Shadal e un Chidà e un Benamozegh non è escluso che in futuro sorga qualche altro per continuare la tradizione, non certo di scarso valore, dell’Ebraismo italiano.
Provate a mettervi nei panni di un ebreo rigorosamente ortodosso che viene in una comunità italiana. Fino a qual punto vi sentireste a vostro agio? In altri termini che cosa c’è e cosa manca all’ebraismo italiano (tipo di rabbino, istruzione religiosa, casherut, efficienza dei servizi comunitari ecc.) rispetto a uno standard internazionale di ortodossia?
Artom — Nego la definizione di ebreo “ortodosso”: ci sono ebrei e basta! Un ebreo interessato a vivere in ambiente ebraico trova molte deficienze nelle Comunità italiane: rabbini non sufficientemente preparati; rabbini che trascurano di seguire la Comunità nei particolari che si dedicano soprattutto ad attività esterne; Maskilim che, essendo rabbini capi, credono di poter decidere in campo di Halakhà; le scuole sono tutte carentissime, perché si chiudono la domenica e vi si dedica all’insegnamento ebraico forse 1/4 del tempo necessario per dare un minimo di istruzione.
Garelik — Innanzitutto, non si viene, ma si viene mandati in un luogo. Perché l’uomo ha certamente la libera scelta per tutto, tranne che per il luogo in cui va a vivere: questo perché ognuno ha una missione ben precisa che gli è stata affidata e che non può rifiutare di portare a compimento. Così l’ebreo che si trova in Italia, come quello che si trova in Giappone o in Australia, se vuole essere fedele alla missione che egli è stata affidata deve, da una parte, fare tutto il possibile per osservare le mitswot e, dall’altra, fare in modo, anche con il proprio esempio, di avvicinare i non ebrei all’osservanza dei sette precetti di Noè. L’aspetto che dà maggior fastidio a un ebreo, non importa se shomer Torà u-mitsvot o meno è, il fatto di essere considerato con un estraneo dal resto della Comunità, è, la creazione di una mehitsà (separazione) tra lui e gli altri. Il popolo di Israel è) “uno” e negare questa unità del popolo è come negare un principio fondamentale della Torà.
E. Toaff — È una domanda alla quale non è facile rispondere, perché bisogna intendersi su cosa vuol dire ortodossia. Se ad esempio vogliamo usare il metro americano dove esiste un ebraismo ortodosso, un conservativo e un riformato, io non credo che potremmo dare una risposta esauriente. Se per ortodossi intendiamo Neturé Karta o i Chasidè Satmar, è evidente che l’Ebraismo italiano figurerebbe agli occhi di questi ebrei come ultra-riformato. Questo dimostra che anche nell’ortodossia ci sono dei gradi che vanno da quella italiana fino a quello dell’Agudat Israel e oltre. In Europa l’Ebraismo ortodosso si riconosce nella Conferenza dei Rabbini Europei, di cui fanno parte i Rabbini che aderiscono ad esempio all’Unione dei Rabbini inglesi, al Concistorio di Francia e all’Unione della Comunità ebraiche italiane. Non esiste uno “standard” internazionale di ortodossia. Ricordo ad esempio di un rabbino europeo che raccontava di un collega più ortodosso di lui che, invitato a pranzo, si era portato piatti e posate. Quindi è chiaro che anche l’ortodossia, entro certi limiti, è un concetto soggettivo che trova però un invalicabile confine nella stretta osservanza delle mitzwot così come si rilevano dalla Torà e dallo Shulchan Aruch.