Il parere degli storici
Roberto Bonfil, professore di Storia ebraica all’Università di Gerusalemme, e Ariel Toaff, professore di Storia ebraica alle Università di Tel Aviv e Bar Ilan, hanno risposta ad alcune nostre domande. I due studiosi, che sono anche noti rabbini laureati presso il collegio Rabbinico italiano, sono rappresentanti di due scuole che, per diversi aspetti, hanno una visione contrapposta della Storia ebraica italiana del Medioevo e del Rinascimento.
Esiste una via italiana alla Torah? È cioè possibile identificare nel ruolo ebraico italiano di osservanza e studio della Torà dei secoli passati delle caratteristiche specifiche, positive o negative, che lo distinguono da altre comunità ortodosse? Se vi sono, quali sono?
R. Bonfil — Esistono molte “vie italiane” alla Torà, nel senso che esistono diversi modi di percezione dell’identità religiosa dei gruppi di ebrei che nel corso dei secoli hanno risieduto stabilmente in Italia. Non sono un fautore delle schematizzazioni che tenderebbero a porre a priori l’esistenza di un’entità astratta da denominare “Ebraismo italiano”, che sarebbe caratterizzata da un insieme di caratteristiche altrettanto aprioristicamente definite, per poi decidere se una determinata manifestazione d’identità ebraica di un gruppo di ebrei residenti in Italia appartenga o meno all'”Ebraismo italiano”, in funzione del ritrovarsi in esso gruppo quelle caratteristiche. Fanno parte dell'”Ebraismo italiano” del rinascimento gli “ebrei tedeschi” provenienti da Norimberga e stabilitisi nel Veneto, così come ne fanno parte gli ebrei provenienti dalla regione romana o più tardi gli ebrei levantini. Così fanno parte dell’Ebraismo italiano di oggi sia quegli ebrei nel cui albero di famiglie compaiono antenati residenti in Italia da secoli che quelli provenienti dalla Polonia, dalla Persia, dall’Egitto e dal Nord Africa, i quali nel corso degli ultimi lustri abbiano definito la propria identità in funzione della realtà italiana alla quale la loro vita è ancorata.
A. Toaff — Non mi sembra vi possano essere dubbi di sorta che la caratteristica saliente dall’atteggiamento del nucleo ebraico Italiano nei confronti del suo patrimonio religioso e culturale dal Medio Evo al Rinascimento, ed in certa misura anche nel successivo periodo dei Ghetti, è costituita da un’ampia e coraggiosa apertura verso il mondo esterno, il cui patrimonio di cultura e di idee non è respinto a priori e da una posizione d’indipendenza nei confronti della tradizione, che è alla radice dell’originalità del contributo culturale dell’Ebraismo Italiano.
L’Ebraismo Italiano, nella sua storia, ha sempre ricercato e spesso raggiunto, un equilibrio armonico tra la cultura della Torà, che ha studiato e approfondito, improntando ad essa alcuni atteggiamenti, e la cultura esterna italiana, che pure lo ha attratto, ed alla quale si è sentito di appartenere.
Sembra che l’ebreo italiano abbia prodotto grandi personalità di rabbini e studiosi, ma non grandi scuole di Torà. Condividete questo giudizio? Come spiega il dato? Quali implicazioni può avere per la struttura religiosa e la continuazione della tradizione?
R. Bonfil — Direi forse che si debba cercare la ragione di questa situazione di fatto, nel pluralismo culturale e religioso caratteristico dell’Italia ebraica. Pluralismo al quale non ha corrisposto una solida base demografica. In altre parole gli ebrei in Italia erano sempre pochi e troppo diversi gli uni dagli altri per poter costituire humus sufficiente per la fioritura di Scuole. Implicazione più evidente mi sembra sia quella dell’intensificazione del pluralismo, delle tradizioni e dei modi di percepire l’ebraismo e se stessi, ossia la prevenzione di livellamenti imposti dall’autorità di una qualche Scuola.
A. Toaff — La tesi, già avanzata da Isaia Sonne e di recente ripresa da Isidor Twersky secondo la quale l’Ebraismo Italiano non ha saputo produrre nel Medio Evo e nel Rinascimento alcuna grande scuola di Torà, mi sembra necessiti ulteriori approfondimenti e di una verifica cogente. In un Ebraismo Italiano essenzialmente recettivo, e non creativo, le produzioni culturali dei grandi Maestri sarebbero delle manifestazioni sporadiche ed isolate. Parafrasando Sartre, si potrebbe dire, che se il Mondo Sefardita ed Ashkenazita sembrano ignorare l’esistenza di grandi scuole di Torà in Italia, queste non sono esistite nella realtà.
Ma allora che dire del fatto che nelle Biblioteche, grandi e piccole degli Ebrei di origine Romana, (i cui inventari hanno visto la luce anche negli ultimi anni), dallo Stato Pontificio fino alla valle del Po, sono sempre presenti testi come l’Aruch di Natan Yechiel da Roma e il Shibbolé ha-leqet di Zidqyà Anav. Non credo possa escludersi tout court, nella Koinè culturale giudaica italiana del Medioevo, l’esistenza di una tradizione peculiarie di studio della Torà che ha i suoi anelli principali in Natan Ben Yechiel da Roma, Isaia da Trani, Hillel da Verona e Zidqyà Anav.
È possibile valutare anche nei momenti di maggiore “splendore” culturale — la Roma del ‘300 il rinascimento ecc.… — la posizione reale dei maestri di Torà nell’ambito delle loro comunità? In altri termini: che seguito avevano, quale era il livello di ortodossia e di cultura ebraica nel resto della Comunità: Questa leadership era fatta di isolati?
R. Bonfil — A mio modo di intendere, una vera leadership si esprime attraverso un delicato equilibrio tra l’appartenenza organica in tutto e per tutto del leader al gruppo del quale egli è leader e il suo eccellere nel gruppo stesso sicché egli possa guidarlo e quindi modificarne gli orientamenti e le tendenze e non solo esprimerle. Ho presentato questo mio modo di vedere nel mio libro sul “Rabbinato in Italia del Rinascimento”, che è in corso di traduzione in inglese e spero possa tra non molto essere messo a disposizione del pubblico che non intende l’ebraico. La risposta alla domanda è quindi: la leadership culturale non era fatta, né poteva essere fatta di isolati!
A. Toaff — Non è facile valutare la reale influenza dei Maestri di Torà nell’ambito della Società Ebraica italiana del Medioevo e del Rinascimento la cui organizzazione Comunitaria, quando esisteva — e spesse volte per la grande dispersione geografica del nucleo E. Italiano, non aveva possibilità alcuna di realizzarsi — era ben diversa da quella attuale.
C’è comunque da dire subito che l’Ebreo Italiano di allora, non si sentiva chiamato ad apprezzare i Maestri di Torà come categoria, ma era indubbiamente influenzato dall’insegnamento delle figure più rappresentative e carismatiche di rabbini e dotti, la cui presenza era assai meno rara allora di oggi.
Molto sinteticamente, in ordine decrescente di importanza, 4-5 voci (nomi, fatti, eventi) che indicano i contributi salienti dell’ebraismo italiano alla Torà.
R. Bonfil — Ovadià da Bertinoro nel quattrocento, autore di un commento alla mishnà, ormai universalmente accolto e studiato in ogni e qualunque cornice in cui si studi mishnà; Ovadià Sforno nel cinquecento, autore di un commento alla Torà che ha trovato posto accanto ai commenti classici di Rashi, di Ibn Errà e del Nahmanide nelle edizioni standard delle Mikraot Ghedolot, e che quindi può essere considerato anch’esso universalmente accolto in ogni cornice in cui si studi Bibbia; Menahem ‘Azarià da Fano fra ‘500 e ‘600 leader della diffusione della Kabbalà in Italia e forse in Europa in quel periodo, anche egli universalmente riconosciuto come autorità di questo campo. Isacco Lampronti di Ferrara autore dell’enciclopedia talmudica e Halahica Pahad Izhaq universalmente accolta come un utilissimo strumento di lavoro fino ad oggi stesso.
A. Toaff — Non mi sento affatto tentato di fare una nota della lavandaia trionfalistica con i nomi dei rabbini più prestigiosi del passato, da Isaia da Trani ad Ovadià da Bertinoro, da Ovadià Sforno a Leon da Modena, o con fatti ed eventi salienti, come la nascita e il grande sviluppo della Stampa Ebraica in Italia. È un esercizio palesemente improduttivo. Come ho già detto il contributo saliente dell’Ebraismo Italiano alla Torà, mi sembra vada ricercato nella sua apertura al Mondo esterno e nell’indipendenza nei confronti della tradizione, che non viene mai accettata aprioristicamente ma verificata di continuo, e sottoposta ad una critica positiva e dinamica.
Il mito della strana ortodossia dell’ebraismo italiano: secondo una generalizzazione almeno fino a poco fa accettata sarebbe caratteristico un atteggiamento di ortodossia moderata e di apertura al mondo esterno: esempi ne sarebbero lo studio della cultura non ebraica e la disponibilità a permealizzare usi e costumi quotidiani (dall’altare all’abbigliamento, la questione del vino ecc.). Cosa c’è di vero in questa interpretazione? Fino a quale punto certi atteggiamenti sono stati realmente compatibili con l’ortodossia?
R. Bonfil — È una interpretazione che respingo in toto perché, a mio modo di vedere, essa affonda le radici in una interpretazione deformante della storia ebraica come storia di una resistenza all’acculturazione intesa come valore positivo, cioè di un’assimilazione più o meno mancata, anch’essa intesa come valore essenzialmente positivo. Non esiste una definizione “canonica” di ortodossia ebraica; tutti gli atteggiamenti dei gruppi ebraici debbono essere studiati e interpretati come peculiari modi di realizzare la propria identità ebraica, a meno che coscientemente ed esplicitamente non dichiarino di volerla distruggere per sostituirla con quella della maggioranza non ebraica. Lo stesso deve pertanto dirsi di tutte le peculiari espressioni della religiosità ebraica riscontrate in Italia nel corso dei secoli.
A. Toaff — Non ignoro cosa s’intenda oggi nel Mondo Ebraico con il termine ortodossia.
Ma siamo certi che lo sapessero gli Ebrei viventi nelle Comunità italiane del passato? Forse che c’erano Ebrei nella Padova del ‘300 e nella Ferrara del ‘400 che si ponevano il problema di quanti loro atteggiamenti quotidiani fossero compatibili con i codici di una non meglio specificata ortodossia? Nonostante ci sia chi preferisce pensare ad una società Ebraica vivente nel passato accanto alla società cristiana, senza mescolarsi con essa, proiettando anacronisticamente le sue fobie antiassimilazioniste su una realtà costituzionalmente diversa, a mio avviso nel Medio Evo e nel Rinascimento, la società ebraica ha saputo trovare un modus vivendi con il mondo cristiano circostante, senza rinunciare alla propria identità culturale e religiosa ma sapendosi adattare, con straordinaria capacità, alla realtà che lo confrontava, con le sue difficoltà, ed i suoi richiami, cui non intendeva rinunciare. Con buona pace di chi non vuole vedere, l’Ebreo nell’Italia di allora era integrato in gran misura nella società circostante e, come tale, era da essa percepito.