La verità su due “strappi” clamorosi/1
Fino all’ultimo boccale
La questione del vino
Pochi sanno che nell’Italia ebraica del ‘500 era scoppiata una guerra del vino. Sembra infatti che in quel tempo alcuni rabbini non fossero così rigorosi nell’imporre l’uso del vino casher. Nella dura contesa intervennero i saggi di tutto il mondo ebraico, da Safed a Praga a Costantinopoli a Candia. Di un rabbino italiano (Di Consigli di Rovigo) si disse malignamente che era rigoroso per l’acqua ma non per il vino. Sempre blanda, fino al secolo scorso, la proibizione di bere vino non casher.
L’uso del vino comune (setam jenàm) in Italia è stato oggetto di una polemica durata per secoli (fine 15° — inizio 19° sec.) e che ha avuto per protagonisti molti famosi Maestri. Come punto di partenza per spiegare il particolare atteggiamento assunto dagli ebrei italiani nei confronti del setàm jenàm, si può prendere la discussione, svoltasi tra Rabbi Jehudà Minz, rabbino di Padova, e Rabbi Eliahu Del Medigo di Candia.
Un ebreo di Bassano si era rivolto a Rav Minz per chiedergli cosa doveva fare di una partita di vino casher, successivamente maneggiata inavvertitamente da un non ebreo. Rabbi Minz rispose che in quel caso il vino poteva ancora essere considerato casher. La decisione sollevò la vivace protesta di Rabbi Eliahu Del Medigo di Candia, che scrisse: “Quanto a voi, miei Maestri… fate attenzione a rimediare a ciò che potrebbe divenire norma per le future generazioni, poiché in un tempo lontano, forse alcune persone, che vorranno permettere il vino comune, diranno che Rabbi Jehudà (Minz) lo ha permesso e i Maestri dell’epoca non gli si sono opposti“.
Le parole del Delmedigo furono profetiche: la decisione di R. Jehudà Minz fu interpretata in senso molto generalizzato e i rabbini delle generazioni successive la utilizzarono per permettere il consumo del vino comune.
La prima notizia certa sull’atteggiamento facilitante assunto dagli ebrei italiani, la troviamo in uno dei famosi “responsa” di Rabbi Meir Katznelboghen (meglio conosciuto come Maharam di Padova). Scrive il Maharam, a proposito di un ebreo che commerciava in vino comune: “nessun Maestro di questa regione ha protestato contro il commerciante per vari motivi: il primo, perché il fatto non era loro noto; secondo, perché se lo fosse stato come avrebbero potuto impedirgli di commerciare il vino comune, cosa di cui è vietato il godimento, mentre non si riesce ad impedire che la maggior parte degli ebrei acquisiti il vino dai non ebrei per berlo…”
Questa era la situazione già prima del 1553, anno in cui furono pubblicati a Venezia i “responsa” del Maharam.
Da Candia il primo siluro contro gli italiani
A protestare contro gli italiani era stato Rabbi Eliahu Capsali di Candia (allora parte della Repubblica veneta) già studente nelle Jeshivòt di Padova e che conosceva bene la situazione in quella regione. Negli anni del suo Rabbinato, Capsali fu in contatto epistolare con il Maharam e con i rabbini di Safed in Israele. Capsali, nonostante il grande rispetto e la grande considerazione che aveva per la sapienza del Maharam, ricevuta la sua risposta scrisse a Safed a Rabbi Josef Caro, grande autorità del tempo e autore dello Shulchan ‘Aruh, la più importante opera ritualistica.
La risposta di Rabbi Josef Caro (1547) non si fece attendere e sottolineò come dovere dei rabbini fosse quello di riprendere i propri concittadini e non di lasciare correre, perché altrimenti sarebbero divenuti quasi complici delle colpe commesse dalla gente comune.
L’atteggiamento dei rabbini di Safed fu tuttavia molto cauto sia perché probabilmente non intendevano minare la fiducia popolare nei confronti del rabbinato italiano sia perché in quegli anni ebbe inizio un periodo nuovo nella storia del tribunale rabbinico di Safed, alla ricerca di consensi per il riconoscimento della propria autorità come tribunale supremo al difuori dello stretto ambito della città di Safed. Le lettere dei rabbini di Safed non fanno riferimento esplicito ai rabbini italiani, che comunque non accoglieranno il consiglio dei rabbini di Safed: ciò è provato dal fatto che alcuni tra i maggiori rabbini italiani dell’epoca decidevano di bere in prima persona il setam jenàm.
Tutte queste lettere furono pubblicate in Italia solo nel 1600 circa, quando ormai il Tribunale di Safed non era riuscito a farsi riconoscere come Tribunale supremo e le persone contro cui erano rivolte, almeno in un primo momento (Rabbi Jehudà Minz e il Maharam) erano ormai morte.
Venezia peccava ma dava i fondi
Un altro tentativo per coinvolgere i rabbini di Safed a fare un ulteriore richiamo agli ebrei italiani non ebbe successo.
Gli echi di questo defilarsi dei rabbini di Safed ci sono giunti attraverso gli scritti di Rabbi Shimshon Morpurgo (18° e 19° sec.) di Ancona: “… Quanto si erano affaticati i rabbini di Erez Israel nelle passate generazioni…, ma vedendo che non riuscivano a fare valere la loro buona intenzione di allontanarci dal divieto del setàm jenàm, non insistettero per non renderci anche responsabili di insubordinazione“. D’altra parte non è da escludere che un altro motivo abbia giocato in questo caso: Safed aveva perso molta della sua importanza ed attraversava un periodo piuttosto difficile e forse Rabbi Moshè Alshikh (l’unico fra i Maestri di Safed, firmatari del primo richiamo, ancora in vita) era andato a Damasco per lanciare un appello a tutte le comunità della Diaspora affinché venissero in aiuto di Safed.
Il centro della raccolta dei fondi era proprio Venezia: non era davvero il caso di portare un attacco a quelli che avrebbero poi dovuto appoggiare le richieste di aiuto. Infatti una tassa annuale speciale per sostenere gli abitanti di Safed fu imposta dal Tribunale rabbinico dell’epoca composta dai rabbini Avigdòr Cividalli, Benziòn Zarfati e Jehudà Serravalle (1601).
Rabbi Josef Pardo di Salonicco, trasferitosi a Venezia per farvi delle raccolte di danaro, tentò di far pubblicare gli scritti di Safed assieme a quelli dei rabbini di Costantinopoli e Salonicco, ma vi riuscì solo in parte dopo la morte (1597) del Maharshik (Rav Jeudà Shemuèl Katznellenboghen): i succitati rabbini dettero il consenso per la pubblicazione dei “Kitvè haqodesh” del Pardo, intorno al 1600
Per Josef Pardo in realtà si trattò di un successo illusorio: il libro contiene solo le lettere dei rabbini di Salonicco e Costantinopoli, ben più dure perché intanto la situazione era andata peggiorando. I rabbini veneziani si opponevano quindi all’azione di Rabbi Pardo, e ne è prova il fatto che nella Haskamà (introduzione di consenso) dei rabbini non vi è alcun cenno al fatto che il libro tratti il problema del setàm jenàm.
D’altra parte, mentre i rabbini di Candia e Safed accusano i rabbini italiani solo di ver giudicato con troppa leggerezza alcuni casi particolari, quelli turchi denunciarono aspramente un andazzo ormai imperante anche tra i rabbini che invece avrebbero dovuto essere le guide; queste accuse avrebbero potuto portare a una grave rottura tra i rabbini italiani e quelli turchi.
Fu scelta una soluzione di compromesso e furono stampate solo le risposte meno offensive verso i rabbini italiani; l’inclusione di uno scritto di Maharal (Rabbi Jeudà Low) di Praga del 1592, che allude a una certa rilassatezza di costumi anche nei paesi tedeschi, poteva giustificare l’atteggiamento dei rabbini veneziani.
No all’acqua ma sì al vino
Una testimonianza interessante su tutta questa vicenda si trova in “Maghen u–mistor we–machsè u–mistor we–hitnatzlut“, un libriccino stampato a Venezia nel 1605 da Rabbi Mashè Coben Porto in seguito alla polemica che aveva diviso tutti i maggiori rabbini dell’epoca sull’idoneità del miqwè di Rovigo. Rabbi Porto e Avtalion Di Consigli, rabbino di Rovigo, sostenevano che il miqwè era inidoneo all’uso. Nel momento cruciale della polemica fu fatta girare la voce che il Di Consigli “era rigoroso per l’acqua, ma facilitante per il vino (comune)”. Entrambe le parti si basavano sugli insegnamenti del Maharshik, che riteneva idoneo il miqwè, ma che intanto era morto. Chi permetteva l’uso di quel miqwè sottolineava che, in base alla regola che se “l’insegnamento è già stato dato da un anziano” non lo si può più contraddire, si doveva permettere l’uso del miqwè, come insegnato dal Maharishik. Ma il Di Consigli teneva in serbo una carta migliore da giocare contro le voci che facevano correre su di lui. Infatti egli sosteneva che, proprio chi lo accusava di bere vino comune, andava contro la precedente regola perché era comunemente noto che il Maharshik usava in prima persona bere il vino comune. E anche se ammetteva che sarebbe stato meglio astenersi dal bere vino comune, aggiungeva di avere certamente su chi appoggiarsi, sul grande albero, nostro Maestro Rabbi Shemuel Jehudà Katznelbogben che, come è noto e manifesto a tutti, non era severo nell’uso del setam Jenàm. Una volta mentre discutevo con lui su questa regola, alla fine mi disse: “Da un punto di vista di principio, quando si beve con dei gentili del setam Jenàm, si corre sì pericolo di assimilazione, ma quando si compra vino da non ebrei per berlo a casa, che pericolo di assimilazione può esserci?”. E concludeva che se non era stato richiamato il Maestro, perché avrebbero dovuto esserlo l’allievo che seguiva le sue orme e i suoi insegnamenti? Il Di Consigli aggiungeva che anche se la regola era diversa, tenuto conto che l’usanza comune in quelle contrade era di bere il vino comune, bisognava fare valere il principio che “l’usanza annulla la regola“, specie se si teneva conto che per la “sanità dei corpi” era necessario bere il vino.
Spara sugli ashkenaziti il rabbino Di Consigli di Rovigo
Era la prima volta che veniva pubblicamente detto che dei “rabbini ashkenaziti permettevano di bere il vino comune“. A causa della gravità dell’affermazione, i rabbini di Venezia, Zarfati e Serravalle, “consigliarono” il Di Consigli e il Porto a scrivere una rettifica immediata in cui dichiaravano che non era loro intenzione sostenere che il vino comune era permesso e che intendevano solo spiegare le motivazioni di quanti in passato non avevano osservato questa regola.
È Quindi chiaro perché R. Josef Pardo non pubblicò le lettere dei rabbini di Salonicco e Costantinopoli: questi alludevano troppo chiaramente al comportamento del Maharshik. Il libro del Di Consiglio non ebbe un seguito: è probabile che la censura interna avvia evitato la pubblicazione di altri libri sulla questione del vino comune. Fra tutti i volumi in cui si parla del setàm jenàm pubblicati successivamente a Venezia non uno fa riferimento alla lettera dei rabbini di Costantinopoli e Salonicco. Unica eccezione sono i libri di R. Shemuèl Aboaff (sèfer ha-zhikhronòt, Praga 1647) e di R. Natàn Shapira (Jain ha-mesbummàr, Venezia 1660), in cui gli stampatori omisero, non a caso, il nome dell’autore per il primo e la località in cui fu stampato per il secondo.
Al tempo di Rabbi Jehudà Ariè da Modena, scriba personale del Maharshik in vecchiaia, la situazione era ormai precipitata come risulta sia dagli scritti di Ariè da Modena che da quelli di Shemuel Aboaf, a quel tempo rabbino a Verona, da dove conduceva la sua guerra personale contro l’uso del setàm jenàm. Parafrasando il detto dei Maestri “10 misure di bellezza sono state immesse nel mondo”, diceva l’Aboaff “nove misure di apostasia e miscredenza sono state prese dagli ebrei italiani e solo una del resto della Diaspora”.
Ma ormai a quell’epoca ogni iniziativa doveva passare per i maggiorenti della Comunità e lo stesso Ariè da Modena come ultimo allievo del Maharshik probabilmente non se la sentiva di denunciare pubblicamente la situazione, nonostante lui si astenesse dal bere setàm jenàm. Il silenzio comunque fu rotto da Rabbi Shemuel Aboaff che, quasi a saggiare il terreno, in una lettera del 1644, chiese ai rabbini di Venezia (Ariè da Modena in testa) di pronunciarsi sulla necessità che le corregge dei filatteri (tefillìn) dovessero essere fatte a priori a questo scopo e che non si potesse usare cuoio fatto ad altro scopo, come era ormai divenuta “triste” consuetudine.
Proprio lo stesso anno in cui i rabbini di Venezia accolgono la sua richiesta, Aboaff inizia la sua campagna contro l’uso del setàmjenàm, sul quale, egli lamenta in una lettera al suo compagno di lotta Rabbi Shimshon Basile rabbino di Mantova, i Maestri italiani non solo hanno mantenuto il silenzio, ma hanno impedito che altri se ne occupassero con la dovuta attenzione.
Un libro bianco sulla guerra del vino
Il “Sefer ha-zikhronot”, è dedicato in buona parte a raccontare come si sono svolti i fatti intorno allo setàm jenàm e quali siano state le tristi conseguenze dell’atteggiamento facilitante assunto dai rabbini italiani.
Rabbi S. Aboaf con il suo libro intendeva rompere un silenzio che durava da troppo tempo: tuttavia come dimostra il fatto che il libro fu stampato a Praga, anche egli non ebbe il coraggio di andare così apertamente contro i rabbini italiani: mentre riporta le risposte dei rabbini di Safed e del Maharal di Praga, non accenna minimamente alle dure (e a lui ben note) critiche dei rabbini di Salonicco e Costantinopoli.
La campagna contro l’uso del setàm jenàm fu rinfocolata con l’arrivo a Venezia nel 1655 di Rabbi Natan Shapira che spiccava in un gruppo di kabbalisti trasferitisi a Venezia che si riunivano in casa di Jemuel Aboaff, divenuto intanto rabbino sefardita di Venezia.
Natan Shapira, che come shaliach della comunità ashkenazita di Gerusalemme dipendeva completamente dai maggiorenti della Comunità, dimostrò un bel coraggio ad intervenire in questa questione con il libro “Jain hamesshummar” che contiene anche gli scritti dei rabbini di Salonicco e Costantinopoli. Il libro non è solo una requisitoria contro chi fa uso del setàm jenàm, ma anche una spiegazione dei gravi motivi per cui il setàm jenàm è proibito.
Che il Signore ci salvi da simili idee
Quando fu pubblicato nel 1674 il libro “Beer ‘Eseq” di Rabbi Shabbetai Beer che contiene un duro attacco al libro del Shapira non ci fu alcuna risposta dei contemporanei, nonostante che in questo libro egli affermi che “non è proibito rispondere ’amen” a una benedizione fatta sul vino comune“.
La risposta venne solo nel 1707 ad Amsterdam da parte di Rabbi Moshè Chagjiz che scrive tra l’altro che non gli risulta che il Beer abbia mai avuto il permesso di dare insegnamenti che non hanno alcun fondamento e che “il Signore ci salvi da simili idee”.
Una nota interessante che caratterizza l’atmosfera che regnava a Venezia agli inizi del 19° secolo, si trova nel racconto di Rabbi Chananel Neppi su Rabbi Avraham figlio di Rabbi Izhak Pacifico, tra i rabbini dell’epoca: “Ho visto molte autorizzazioni ad esercitare la Shechità date da lui a più di sessanta shochatin e ad alcuni di essi ha anche detto di stare attenti a non bere setàm jenàm“.
s. b.
Per ulteriori dettagli sulla polemica relativa al setam jenam, Vedi G. Cohen — Sinai 77, 5735 (1975), pp. 62-90