Rabbini italiani in “odore di eresia”/1
Leon da Modena
Leon da Modena (o Leone Modena: in ebraico, Jehudà Arié mi-Modena), una delle figure più eclettiche dell’ebraismo italiano, nacque nel 1571 a Venezia, dove la sua famiglia si era rifugiata temporaneamente dopo il terremoto che colpì Ferrara nel 1570. Tornato a Ferrara, si rivelò presto un bambino prodigio: lesse la sua prima Haftarà all’età di due anni e mezzo (così egli stesso racconta nella sua autobiografia). Seguendo l’uso delle buone famiglie dell’ebraismo italiano dell’epoca, ricevette un’educazione che, oltre alla lingua ebraica agli studi tradizionali, si estendeva a diversi campi, inclusi gli studi letterari italiani e latini. All’età di dodici anni, tradusse dall’italiano in ebraico due ampi passi dell’Orlando Furioso di Ariosto. A 13 anni composte, in memoria di Mosè della Rocca, un suo giovane maestro morto prematuramente, una poesia che aveva senso sia in ebraico che in italiano: essa inizia con le parole Kinnà Shemor (custodisci l’Elegia), che in italiano suonano Chi nasce muor.
Quando la situazione economica del padre si deteriorò, fu costretto a mantenersi dando lezioni private e, successivamente, assumendo un posto, a Venezia rimasse poi, a parte brevi periodi, per tutta la vita, e vi morì nel 1648. I suoi sermoni divennero famosi, attirando spesso anche parecchi uditori non ebrei, ecclesiastici e gentiluomini, che vedevano in lui il più brillante esponente dell’ebraismo contemporaneo. Divenuto membro del consiglio rabbinico della comunità, veniva spesso consultato dalle autorità ebraiche dell’epoca, che apprezzavano in lui la vasta cultura talmudica e rabbinica.
Se Leon da Modena era indubbiamente un uomo di versatile ingegno, colto e brillante, non era affatto, tuttavia, una figura priva di ombre: in realtà, la sua personalità era estremamente contraddittoria, la cui cultura era seriamente viziata da notevoli difetti nel carattere. In particolare, non riusciva a sottrarsi alla passione per il gioco d’azzardo, che lo costringeva a una vita in continue ristrettezze economiche, e alla ricerca di innumerevoli lavori ed espedienti per mantenersi (nell’autobiografia ne elenca ben 26, fra cui, oltre a lavori ‘tradizionali’ come maestro, chazan, predicatore ecc., si trova: compositore di musica, di inni per matrimoni, di lapidi, di commedie, tipografo, correttore di bozze, mediatore di affari, sensale di matrimoni, compositore e venditore di amuleti, ed altri). Si occupò persino di alchimia, con l’unito risultato di causare la morte di un suo figlio, ammalatosi per effetto delle esalazioni tossiche delle sostanze maneggiate.
Nonostante tale instabile carattere, fra le numerose opere di Leon da Modena ve ne sono parecchie degne di nota. in particolare quelle a sfondo polemico, come Arì Noem (il Leone ruggente), contro l’autorità e le dottrine della Kabbalà, e Maghen va–Cherev (Scudo e Spada), contro i dogmi cristiani.
In Maghen ve–Tzinnà (Scudo e Protezione) egli attacca sistematicamente le opinioni di Uriel da Costa, un “eretico di Amburgo”, che aveva sollevato una serie di argomenti contro la tradizione rabbinica. C’è chi vide in questo libro, in particolare nel secolo scorso, un artificio letterario inteso a esporre, seppur velatamente, le idee di Leon da Modena stesso: sue sarebbero state le argomentazioni contro la tradizione, e le confutazioni sarebbero servite solo a salvare le apparenze. Leon da Modena sarebbe stato quindi un precursore del movimento di riforma del XIX secolo. Analogamente fu giudicata un’altra opera. Kol Sachal (la Voce dello Stolto), che riporta un’aspra critica al Talmud e alla tradizione rabbinica scritta da un enigmatico e sconosciuto Amittai bar Jedaià ibn Raz, seguita da alcune pagine di confutazione di Leon da Modena, sotto il titolo di Shaagath Ariè (il Ruggito del Leone).
Ma il nome del preteso autore di Kol Sachal (e il suo significato è rivelatore: “Veridico, figlio del Sapiente, figlio del Segreto”) non sarebbe altro, secondo alcuni, che uno pseudonimo di Leon da Modena stesso.
Kol Sachal e Shaagath Ariè furono pubblicate, sotto il titolo di Bechinath ha–kabbalà (l’esame della Tradizione), da Isacco Reggio (Gorizia 1784-1855), che aggiunse note critiche per confutare le tesi del Kol Sachal. I. Reggio era convinto che questo libro fosse da attribuire a Leon da Modena. Non tutti oggi sono convinti di ciò. Secondo l’autorevole opinione di Umberto Cassuto, se anche alcune delle argomentazioni del Kol Sachal potessero essere condivise da Leon da Modena, “Il suo non era l’atteggiamento di un avversario della tradizione: era piuttosto quello dello studioso che non vuole accettare la tradizione ad occhi chiusi, e vuole invece criticamente studiarla e valutarla nella sua storia millenaria”. Leon da Modena stesso afferma in Shaagath Ariè: “tutta la mia vita mi sono sforzato di esaminare le opinioni di ogni scrittore, siano esse false o veritiere, affinché io potessi o credere ad esse o sorgere contro di esse”.
Se veramente il Kol Sachal fosse opera di Leon da Modena, si dovrebbe pensare, come in effetti ci fu chi pensò, che egli fosse un ipocrita, osservante delle norme ebraiche all’esterno, ed eretico nel proprio intimo. Ma nel suo testamento egli chiese che venisse detto nel suo elogio funebre, che egli “non era stato degl’ipocriti, che l’intimo del suo cuore era come il suo esteriore, e che egli era temente di Dio e rifuggente del male, più in segreto che i palese”.
g.d.s.