Intervista a Rita Levi Montalcini
“Quando scoprii l’ebraismo come comunità”
Questa intervista è stata fatta a settembre. Il 13 ottobre, come è noto, Rita Levi Montalcini ha ricevuto il premio Nobel per la medicina. Dopo Salvatore Luria, Emilio Segre, e Franco Modigliani questo è il quarto premio Nobel che onora un ebreo italiano
Biologa di valore internazionale, scienziata fra le più attive e stimate in Italia ed all’estero, Rita Levi Montalcini ci riceve nella sua abitazione romana per ripercorrere insieme le tappe per lei più importanti, da Torino alla Washington University, dal periodo della resistenza alla passione “artistica” per la ricerca.
La sua identità ebraica non era particolarmente marcata nel periodo dell’Italia liberale e tollerante degli anni Venti e lei stessa ricorda come il senso di appartenenza ad una comunità lo provò, a parte la terribile parentesi delle leggi razziali e del nazifascismo, una volta giunta negli Stati Uniti nel primo dopoguerra. Giovane studentessa alla Washington University, la Levi Montalcini si trova subito a contatto con un ambiente ebraico particolarmente teso allo studio, che seguiva la ricerca, la scienza, con passione. Questo — sottolinea l’autorevole scienziata — riguardava sia i professori che gli alunni (“più del cinquanta per cento degli studenti erano ebrei” ricorda). Le caratteristiche di questo gruppo ebraico-scientifico erano “una forte talmudistica, una capacità dialettica notevole, un’arguzia connaturata, il fatto di costituire il nucleo di quel ceto liberal-progressista allora all’opposizione contro il maccartismo”; come puntualizza la scienziata era proprio questo carattere arguto, dialettico, scaltro che si rifletteva nell’ambiente scientifico. Tutti in quel periodo erano rifugiati o figli di rifugiati, giunti in America fuggendo dalle persecuzioni europee e tutti avevano delle caratteristiche umane assai simili tanto che la Levi Montalcini ricorda come spesso fra di loro si dicevano l’un l’altro “potremmo scambiarci i documenti e ci accorgeremmo che veniamo dalla stessa famiglia”. Gli amici di allora sono poi divenuti illustri e qualificati esponenti del mondo scientifico come Artur Golbert, Paul Bertley, divenuti poi premi Nobel e tanti altri ancora. “Parlare con loro era come parlare con una persona sola, avevano lo stesso passato, gli stessi ideali, lo stesso modo di porsi di fronte ai problemi, anche se poi erano assai pochi gli ebrei religiosi, strettamente osservanti”. In questa comunità ebraico-scientifica la Levi Montalcini fu subito accolta senza difficoltà, i rapporti umani nacquero quasi spontaneamente ed erano numerosi i sabati in cui questi giovani fisici e biologi si ritrovavano fra loro, anche se non in sinagoga ma magari nelle singole abitazioni. Come ci dice la Levi Montalcini “non c’era nessun atteggiamento discriminatorio verso gli altri ma l’accostamento, l’amicizia era naturale per persone che avevano molti elementi personali in comune”. Questi rapporti di amicizia all’interno di un gruppo ebraico russo-ashkenazita come era quello della Washington University mancarono invece nella Torino anteguerra, dove pure la famiglia Levi Montalcini era fra le più in vista della comunità ebraica, assai vicina a quella di Carlo e Primo Levi: “conoscevo gli ebrei torinesi quasi uno per uno, ricordo Leo Levi di cui si diceva che era ‘ragazzo splendido: tutto casa e prigione’, ma certo che non sentii mai quel senso di appartenenza ad una comunità come invece poi ebbi modo di provare negli Stati Uniti”. Nelle parole di Rita Levi Montalcini c’è il quadro semplice, stilizzato, della differenza fra l’atmosfera che regnava nelle comunità italiane del periodo sabaudo, frutto di una fuga dai vecchi ghetti dell’Ottocento verso l’integrazione, e quella invece dell’ebraismo americano specie dopo gli anni Quaranta, quando gli Stati Uniti divennero il rifugio dell’ebraismo perseguitato che cercava un luogo per ritrovarsi e ricomporsi, non solo religiosamente ma anche da un punto di vista sociale, umano.
“… Mancava quel senso di appartenenza, che poi trovai in America…”
“Mio padre era quasi per l’assimilazione, la nostra famiglia non viveva in un ambiente ebraico tranne per quelle feste in cui andavamo a trovare i parenti e quindi — osserva Levi Montalcini — mancava quel senso di belong, di appartenenza ad un gruppo, che invece poi trovai in America all’interno di un ambiente scientifico di ebrei per lo più non-osservanti”, ecco dunque che nel racconto emerge questo legame fra ebraismo come identità personale e scienza, ricerca come scelta di vita, passione, che era alla base dell’incontro fra i futuri scienziati di fama mondiale e allora erano agli inizi delle loro brillanti carriere nelle aule della Washington University.
Tuttavia Rita Levi Montalcini quando descrive se stessa puntualizza di non aver mai posseduto quel “rigore talmudistico” che invece caratterizzava i suoi colleghi, la sua era una ricerca più intuitiva, artistica, diretta. Questo molto probabilmente dipende dall’ambiente torinese in cui era nata, così distante dai ghetti, dagli shtetl e dalle yeshivot dell’Europa orientale. “Mio padre — ricorda — diceva che quando mi si chiedeva di quale religione fossi avrei dovuto rispondere ‘libera pensatrice’, in famiglia non si era favorevoli a ricordare le persecuzioni e gli orrori del passato; a noi mancò una formazione ebraica, mancava quindi lo spirito ebraico, non c’era né orgoglio né senso di appartenenza: era il vero ambiente torinese dell’epoca, liberale, anticlericale. Tuttavia – sottolinea ancora — bisogna distinguere quell’ambiente ebraico dai vari Svevo e Moravia di allora perché, a differenza di questi, non c’era la negazione dell’identità ebraica. Ecco, quella Torino ebraica non negava ma neanche affermava la sua identità”.
Poi seguì il nazifascismo, le leggi razziali, un periodo nel quale la famiglia della scienziata si comportò come molti altri ebrei di allora: non capì il pericolo e spesso ebbe un comportamento quasi incosciente di fronte al pericolo reale di essere presi uccisi o deportati. Per una coincidenza Rita fu riconosciuta da un suo ex compagno di scuola sul treno che doveva portarla dal nord a Bari, scese quindi con la sua famiglia alla stazione successive che era quella di Firenze. Inizia così, quasi per caso, la sua avventura nel Partito D’Azione insieme ai Bonnet, ai La Malfa ed a tanti altri. Anche se ebbe un ruolo marginale nella underground ricorda con precisione quella esperienza che fu una scelta quasi naturale vista la condizione del momento. Tuttavia anche in quella occasione prevalse la caratteristica antifascista su quella ebraica nell’impegno, proprio perché era quella ad esser patrimonio della famiglia torinese di Rita.
In sintesi dunque la vita della scienziata, professoressa, full professor, e tanti altri titoli e premi ancora, ripercorre le tappe di quell’ebraismo italiano che la parentesi nazifascista portò in America, dove trovò un nuovo ambiente e al tempo stesso apriva interessanti e ricche prospettive professionali e rinforzava quel sentimento di popolo-comunità che in precedenza era stato invece sacrificato dalla volontà di essere il più possibile parte delle società non-ebraica.
Maurizio Molinari