Un commento finale
Per la testa o per i piè?
Si racconta nel Talmud che a Roma gli Ebrei usavano, contro il parere rabbinico generale, mangiare l’agnello la sera di Pesach e che “se non fosse Todos ad averlo permesso avremmo dato una scomunica”. Sul motivo di questo riguardo, si discute se Todos fosse un tipo dal pugno facile o un grande uomo, concludendo con la seconda ipotesi.
Questo precedente mi sembra illustrare bene la peculiarità congenita dell’Ebraismo romano e italiano.
Roma è, per definizione, la città di ‘Esav (prima l’Impero Romano e dopo la Chiesa Cattolica) e con ‘Esav gli Ebrei di Roma convivono da sempre.
L’ambivalenza storica è proprio quella del rapporto di ‘Iaakov con ‘Esav: mettersi spesso, i vestiti di ‘Esav e, nonostante il travestimento, conservare la voce di ‘Iaakov.
Spesso si dice che gli Ebrei Italiani sono, dal punto di vista religioso, tanto ortodossi quanto accomodanti. Il detto: “la legge di Mosè chi la prende con le mani e chi con i pié è un proverbio che si ritrova, a confermare l’idea, in tutti i dialetti giudaico-italiani.
La situazione è, in verità complessa, perché gli ebrei italiani sono, paradossalmente, degli integralisti travestiti.
Todos faceva mangiare agli ebrei di Roma l’agnello la sera di Pesach, non per fare il sacrificio Pasquale (possibile solo nel Bet-ha-Miqdash), ma perché, anche nella città di Roma, gli Ebrei conservassero il ricordo dell’uso, sia pure sotto forma di abbacchio. Credo che questo uso avesse un significato provocatorio: l’abbacchio di Todos non alludeva al Pesach dorot (quello che si faceva in Israele) ma al Pesach Mizraim (che si era fatto alla vigilia della liberazione dall’Egitto); Todos non pensava a Gerusalemme, dove ogni pentola è potenzialmente pura, ma all’Egitto dove gli Ebrei raggiungono (come a Roma) la 49a porta dell’impurità. Gli Ebrei di Roma si sono spesso mascherati con i vestiti di ‘Esav, qualche volta per forza e qualche volta di loro scelta. Il punto è che ancora oggi qualunque linguista può riconoscere la parlata degli ebrei romani, persino per le sue specificità fonologiche, e se i trasteverini vogliono imparare il dialetto della vecchia Roma, debbono venire in Ghetto, per sentirlo, sia pure arricchito da accenti e lemmi ebraici.
Si vocifera che gli ebrei italiani hanno spesso preso la Torà all’acqua di rose. È anche vero tuttavia, che in tutto l’Occidente, l’Italia è l’unico paese in cui i Riformisti Ebrei non sono mai entrati. È anche vero che, a Roma, la Tefillà pubblica non è stata interrotta neppure un giorno, sotto l’occupazione nazista. È anche vero che, subito dopo, la gente del Ghetto piangeva per strada, quando un suo ex-maestro era diventato ‘Esav. Senza retorica: quelle lacrime non vanno dimenticate.
Due altri spunti di riflessione. Nel 1736 due Ebrei furono condannati a morte, a Roma, sembra per furto: un certo Abram Caivano ed un certo Angeluccio Della Riccia. Durante il processo sul furto non discussero, ma dietro tutte le pressioni del Tribunale, perché si pentissero della colpa di essere Ebrei, continuarono a dire lo Shemà, fino all’ultimo.
Gli Ebrei di Roma usano mettere da parte le candele che si accendono, nel Tempio a lutto, per leggere a Tishà Be-Av la Meghillat Echà; usano i mozziconi per accendere, l’anno dopo, le luci di Chanukkà.
Forse gli Ebrei italiani non sono, ancora, ortodossi: ma il giorno che si ricorderanno di esserlo, comprenderemo meglio l’idea del Talmud che il Messia può venire soltanto da Roma. Si tratta soltanto di riprendere la Torà con le mani; anche perché tenerla sempre in aria, prendendola con i piedi, è una faticaccia.
Gavriel Levi
Per saperne di più
Oltre alle opere classiche di storia degli ebrei d’Italia e le enciclopedie che affrontano sempre questi temi, il lettore può utilmente consultare: Italia Judaica, Atti del I convegno internazionale Bari 18-22 maggio 1981, Roma 1983; Menahem Elon, haMishpat ha’Ivri (Jewish Law), Jerusalemm 1978; R. Bonfil, HaRabbanùt beItalia bitqufat haRenaissance, Magnes, Jerusalem 1979; N. Pavoncello, La Letteratura ebraica in Italia, Sabbadini, Roma 1963; S. Della Pergola, Anatomia dell’ebraismo italiano, Carucci, Assisi/Roma 1976. Arte nella tradizione ebraica — Adei-Wizo, Milano 1°963. Le Ketuboth italiane, ed E. Lewin-Epstein, Tel Aviv. Umberto Cassuto, in Rassegna mensile di Israel, ser. II, vol. VIII, luglio-agosto 1933, p. 132; ristampato anche in: Leon da Modena, Historia de’ riti hebraici, C. Saletta, Bologna, 1979. Samuel Avisar, Tremila anni di letteratura ebraica, vol. II, p. 51, 84 e 154. (qui sono comprese alcune pagine del Kol Sachal, e delle note critiche di I. Reggio).